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A cento anni dalla
nascita di ITALO PIETRA.
Le battaglie del
comandante Edoardo
al “Giorno”
e al “Messaggero”

di Vittorio Emiliani per l’Unità 4/7/2011
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In coda l'articolo di Corrado Stajano:
"La lezione di un giornalista".

E’ stato il solo direttore di quotidiano licenziato due volte, dalla Dc e dalla destra, per ragioni politiche. Dal “Giorno” – che aveva diretto per un dodicennio – all’avvento del governo di centrodestra Andreotti-Malagodi. Dal “Messaggero” – dopo un anno soltanto – alla vigilia del “terremoto” amministrativo del 15 giugno 1975. Parlo di Italo Pietra, nato cento anni fa il 4 luglio 1911 a Godiasco nell’Oltrepò Pavese. Probabilmente anche il primo, e solo, comandante partigiano (nome di battaglia, “Edoardo”) nominato alla guida di un quotidiano non di partito. Un maestro di giornalismo che, per la sua natura e cultura da montanaro dell’Appennino, per un certo aristocratico gusto dell’impopolarità, viene forse ricordato meno di altri. Un riformista laico, socialista, decisamente “scomodo”, a destra ma anche a sinistra.


E’ stato anche il primo direttore di un quotidiano importante ad occuparsi di ambiente. Può ben testimoniarlo Giorgio Nebbia che tante volte trattò sulle pagine della Scienza e della Tecnica rette da Antonio De Falco i temi dell’acqua tornato così prepotentemente di attualità oggi. Pietra incaricò me di una inchiesta nazionale dandomi queste direttive: “L’acqua: abbondante e inquinata al Nord; scarsa e inquinata al Sud”. La pubblicai nel grande rotocalco domenicale con foto e grafici. Pietra aveva una grande passione per la montagna. Camminatore instancabile conosceva palmo a palmo tutto l’Appennino, bellissimo, fra Varzi e Bobbio, fra Romagnese e il Genovesato. Da comandante partigiano girava di continuo, ma in abiti borghesi e senza armi addosso. Solo così si poté salvare dai tedeschi che l’avevano catturato, a causa di una storta alla caviglia, e portato, senza ancora riconoscerlo, verso Torre degli Alberi, al castello dei Dal Verme (anche Luchino Dal Verme era comandante partigiano). Qui le donne di casa che conoscevano Italo fin da ragazzo furono bravissime a far finta di non averlo mai visto. Venne rinchiuso in una stanza e lasciato lì in attesa di identificazione e quindi di fucilazione. Poi, miracolosamente, di notte, li sentì che avviavano i motori e ripartivano in tutta fretta.


Sul “Giorno” scriveva spesso della montagna che disboscata e dissestata “si vendica” precipitando a valle con terribili alluvioni. Il 4 novembre 1966 gliene diede una drammatica conferma. Citava sovente il grande discorso tenuto da Filippo Turati alla Camera, subito dopo la guerra, col un titolo sempre attuale “Rifare l’Italia” e in quel “rifare” parlava pure della montagna italiana. Era un grande appassionato di agricoltura. Sosteneva Pietra che non si poteva capire un Paese se non se ne conosceva l’agricoltura e la sua storia. Instancabile, anche al “Messaggero” fu la sua campagna contro la Federconsorzi e a favore di autentiche cooperative aperte a tutti. Aveva una intera biblioteca di documenti sui Consorzi Agrari che, avanti negli anni, volle trasferirmi in blocco. Mi fece scrivere tante volte di prodotti tipici, del salame di Varzi allora privo di tutela. O delle colline del suo Oltrepò che, tagliate a fette da strade e da vigneti a ritto chino, “si squagliano come gelati”. Ma direi che all’acqua ha dedicato la maggior parte dei suoi interventi e, naturalmente, alla mafia palermitana dei “giardini” quando approfondì sempre più i temi della mafia e delle sue ramificazioni. Un pioniere, si può dire.


Figura anomala quella di Pietra. Diventa giornalista vicino ai 40 anni. Quasi un decennio in grigioverde, sino all’8 settembre 1943. Poi in montagna, nel suo amato Appennino, zona strategica, fra il Po e Genova, per un biennio durissimo di guerriglia contro i nazifascisti. Fino alla liberazione di Milano dove “Edoardo” entra per primo, comandante generale, a nemmeno 34 anni, delle brigate dell’Oltrepò, coi “cecchini” che ancora sparano dai tetti. Un plotone dei suoi partecipa all’esecuzione, prevista dal CLN Alta Italia, di Mussolini e degli ultimi seguaci. Smentirà sempre di averlo comandato lui. Sul periodo partigiano, nonostante le insistenze mie e di altri, non lascia scritti né registrazioni. “Se ne potrà parlare quando saremo morti tutti noialtri”. Soltanto lettere di artisti (è stato un collezionista precoce) come Morandi o Carrà.  E’ stato anche nel Servizio Informazioni Militari (SIM). Non lo nasconde. Ad Angelo Del Boca, entrato al “Giorno” negli anni ’60, racconta di essere stato l’ultimo italiano a lasciare Casablanca mentre arrivano gli americani barattando con un orologio d’oro il passaggio verso il Riff su di un camion di maiali. Fra ex partigiani si può raccontare.


Mentre Paolo Murialdi, amico fin da ragazzo, entra subito nel giornalismo, all’”Avanti!”, all’”Umanità” e poi al “Corriere della Sera”, prima di essere uno dei fondatori del “Giorno” nel 1956, Pietra imbocca la strada della politica nel Psiup. Ha una forte cultura politica coltivata pur in grigioverde (in Africa prima, poi in Albania), abbonato a riviste francesi. Sarà, nel 1946, con altri “giovani turchi” (Matteotti, Zagari, Vassalli e gli ancor più giovani Formica e Ruffolo), promotore di “Iniziativa Socialista” che nel primo congresso del Psiup eguaglia sorprendentemente il correntone, in prevalenza frontista, Nenni-Morandi-Basso. Lui e Vassalli chiedono a Pietro Nenni, vice-presidente del governo De Gasperi, di nominare un segretario di mediazione, autorevole e accetto a tutte le parti. Niente da fare. Minaccia le dimissioni alla vigilia delle elezioni e del referendum del 2 giugno. E’ la premessa della scissione socialdemocratica del 1947, che per i “giovani turchi” avviene “da sinistra”, in senso libertario. La cavalca però Giuseppe Saragat. Italo Pietra è il vice-segretario del Psli. Fino alla rottura dell’unità sindacale nata dal Patto di Roma. La disapprova e in pratica esce dalla politica attiva.


Nasce il Pietra giornalista. Prima all’”Illustrazione italiana” di Garzanti (di Livio rimarrà amico) e poi al “Corriere della Sera”. Da “free lance” consolida la conoscenza del mondo, stringe relazioni e amicizie, dall’Est (Gomulka, Tito stesso) all’Ovest (Willi Brandt soprattutto), al Terzo Mondo, Pandit Nehru e sua figlia Indira Gandhi, i leaders della decolonizzazione africana,  Kenyatta, Sekou Tourè, o maghrebina, Ben Bella, Ben Barka, Belkacem Krim. In piena guerra di Algeria,  Bernardo Valli del neonato “Giorno” e Guido Nozzoli dell’”Unità” risalgono i monti della Kabilia, aprono la porta del comando del FLN e chi vedono che, con una carta spiegata sul tavolo, sta dando lezioni di guerriglia? Lui, “Edoardo”.


Italo Pietra, amico fraterno di Enrico Mattei dai giorni della Liberazione, ne ha condiviso le strategia: affrancare l’Italia dalla dipendenza energetica con l’Agip e poi l’Eni; rompere i giochi delle Sette sorelle petrolifere offrendo accordi assai più vantaggiosi ai Paesi produttori, a cominciare da Egitto e Iran;  aprire le frontiere dell’Est alla cooperazione. Alla fine del 1959 Mattei, attaccato da tutte le parti, svela di essere il vero editore del “Giorno” creato con Gaetano Baldacci nell’aprile ‘56 con una formidabile carica innovativa. Ha bisogno di un direttore sicuro e sceglie Pietra. Il quale, quasi subito, affronterà, in modo critico, la crisi Tambroni, il luglio ’60. Il ministro delle Partecipazioni Statali, Mario Ferrari Aggradi, gli chiede perentorio di licenziare il suo titolista di prima pagina. “Non posso”, risponde. “Perché?” “Perché sono io”. “In Italia si ricomincia sempre da Badoglio…”, mi dice, alla fine di luglio.  Capisco meglio chi sia la sera che mi trascina alla cena per il compleanno di Luigi Longo. Ad un certo punto, ci sono soltanto loro due, i comandanti “Gallo” e “Edoardo”.


Italo Pietra rafforza subito una compagine giornalistica già molto valida. Assume il più acuto dei commentatori di politica interna: Enzo Forcella messo fuori dalla “Stampa” perché troppo a sinistra. Assume e lancia nelle sue inchieste più belle Giorgio Bocca. Dall’“Unità” arriva Guido Nozzoli. Irrobustisce la rete dei corrispondenti con Luigi Fossati e Gaetano Scardocchia (dirigeranno il “Messaggero” e la “Stampa”), ma pure le cronache regionali con Leonardo Valente, presto direttore di “Avvenire”, e con Gianni Locatelli che anni dopo trasformerà “Il Sole 24 Ore”. Al Politico retto da Claudio Rastelli si specializzano giornalisti come Sergio Turone e, più avanti, Tiziano Terzani. Al “Giorno” altri giovani diventano firme importanti: Natalia Aspesi, Maurizio Chierici, Gianfranco Venè. Per la Lombardia gli inviati sono Giampaolo Pansa e Marco Nozza. Mentre un disegnatore nuovo e inventivo, Tullio Pericoli, alza ancora il livello della grafica.


E’ il giornale delle inchieste, a getto continuo. Mi fa occupare di acqua, di ambiente, di agricoltura, di porti. Chiede chiarezza, concisione, narrazione documentata (“Non fate i sociologi”). Abbiamo grande libertà di azione, tranne, s’intende, che per la politica petrolifera. In una Italia quasi ignota (e ignorata) che si trasforma tumultuosamente col primo “boom”. Il Concilio Vaticano II suscita polemiche clamorose. Lo attaccano Indro Montanelli, Panfilo Gentile e altri. Lo difendono e lo raccontano al “Giorno” laici come Pietra, Forcella, Andrea Barbato, cattolici come il vaticanista Ettore Masina. La tragica scomparsa di Enrico Mattei nell’ottobre ’62 traumatizza e però non ferma il “Giorno”. Grazie a Pietra che sarà la bestia nera dei dorotei. “Aveva una testa da Mazarino”, scriverà Bocca. Reggerà per tutto il miglior centrosinistra, attraversando il ’68 e l’autunno caldo (unico quotidiano indipendente a sostenere Cgil, Cisl e Uil, “sono più deboli della Fiat”). Dopo la strage di piazza Fontana scrive un editoriale inequivocabile “Non si illudano”. Smonterà le false piste degli anarchici preparate in Questura. Lo fanno fuori subito dopo il ritorno del centrodestra.


Rimarrà al Mulino un paio di anni. Poi, a metà ’74, Montedison gli affida il “Messaggero”. Riesce a mantenerlo su di una linea laica di sinistra. Troppo. Dal “Giorno” chiama Fossati, Turone e me. Ma presto la Dc ne pretende la testa, nuovamente. Eugenio Cefis – si conoscono bene dagli anni del partigianato – lo convoca la mattina del 16 giugno 1975, e lo solleva dall’incarico. Nel pomeriggio dalle urne la Dc esce battuta clamorosamente e vincenti Pci e Psi. In tutte le grandi città, fino a Napoli. Pietra riesce a trattare una successione rassicurante (Luigi Fossati) per la linea politica del giornale. Ne rimarrà collaboratore fino alla fine della mia direzione, nell’87. L’ultimo articolo, a quasi 80 anni, già malato, lo pubblica sull’ “Unità” e lo dedica a Craxi, ad un Psi neoriformista, ma senza gli ideali del riformismo socialista, ad un Psi che non discute più “tanto la politica nasce dalla tua testa”. “La sinistra, conclude, è all’anno zero, ci vuole un punto di raccolta”, per “la necessità di una alternativa”. E’ il 24 giugno 1991. Si spegnerà tre mesi dopo. Non si spengono la sua passione civile, la sua tensione morale, il suo riformismo “scomodo” a tanti, la sua lezione, alta e severa, di giornalismo


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MAESTRI. A cent'anni dalla nascita un ricordo del direttore de «Il Giorno», partigiano e socialista


La lezione di un giornalista


Italo Pietra, da signore di campagna a combattente per la libertà Genealogia Figlio di un medico, nacque in una famiglia di tradizioni risorgimentali nell'anno della guerra di Libia


 


di Stajano Corrado per il Corriere della Sera 4/7/2011


Arrivò al giornalismo, Italo Pietra, dalla guerra e dalla politica che sono poi la stessa cosa. Detestava apparire, rifiutava con ironia tutto quanto era personale e vischioso. È stato un italiano di forti ideali, di sottile intelligenza, duro, quando occorreva. «Aveva la testa di un Mazzarino», come ha scritto Giorgio Bocca nel suo libro Il provinciale. I gentiluomini fanno parlare di sé soltanto quando muoiono, era solito affermare e forse adesso - ma non è poi così sicuro - nel centenario della nascita, a Godiasco, nell' Oltrepò Pavese, il 7 luglio 1911, non avrebbe da ridire che ci si ricordi di lui e del suo «Giorno», certamente l' avventura giornalistica di maggior rilievo politico e culturale del secondo Novecento. Signore di campagna, era, senza contraddizioni, uomo di statura internazionale. È stato amico di personaggi come Willi Brandt, Tito, Gomulka, Nehru e sua figlia Indira Gandhi; vicino, durante la lotta di liberazione e dopo, ai leader dell' Fnl algerino (Ferhat Abbas, Ben Bella) e a Ben Barka, capo della Resistenza marocchina assassinato a Parigi nel 1965. Nikita Kruscev concesse a lui una delle sue rare interviste. Pietra ebbe lo sguardo lungo, riformista scomodo anche per l' Italia di allora. Possedeva una smisurata biblioteca, ma mascherava la sua grande cultura. Nacque in una famiglia di tradizioni risorgimentali nell' anno della guerra di Libia. Figlio di un medico, Pietra appartiene alla generazione grigioverde che vive, e muore, all' ombra delle guerre: dal 1932 alla Liberazione. Tenente degli alpini, battaglione Mondovì, prende parte alla campagna d' Etiopia e poi, nella Seconda guerra mondiale, alla campagna d' Albania. Lavora anche per il Sim, il Servizio informazioni militari, e si comprende il suo gusto, quasi un gioco, per la segretezza. Pietra non è fascista, è un militare. Anche nell' aspetto fisico. (Fino alla morte, nel 1991). Dopo l' armistizio la guerra di Liberazione. Diventa «Edoardo», a capo di una brigata garibaldina - lui non comunista - negli Appennini, tra il Po e Genova. Non porta armi, indossa una giacca a vento lunga e gialla, calzoni da ufficiale, calzettoni bianchi, scarpe Vibram. È Pietra, il 27 aprile 1945, a entrare per primo a Milano, da corso San Gottardo, con i suoi partigiani dell' Oltrepò, dopo duri anni di guerra, di rastrellamenti, di pericoli, di coraggio. Una emozione profonda. Ma anche di quel gran giorno, per pudore forse, Pietra non ha mai voluto parlare. Da sempre lo inquieta una grande passione politica. È un socialista di stampo umanitario. Dopo il 1945, con Vassalli, Giugni, Ruffolo, entra nel gruppo di «Iniziativa socialista». Alla scissione di Palazzo Barberini aderisce al nuovo Partito socialista dei lavoratori. Pochi anni dopo sente venir meno ogni spirito riformista ed esce dal partito di Saragat. Quando comincia a scrivere sui giornali ha quasi quarant' anni. Da freelance sull' «Illustrazione italiana» di Livio Garzanti e sul «Corriere della Sera». Spazia nel mondo, conosce i grandi della terra. Poi, nel 1960, Enrico Mattei, il presidente dell' Eni, suo amico dai giorni della Liberazione, gli offre la direzione del «Giorno» nato quattro anni prima. Pietra, che non è neppure iscritto all' Albo dei giornalisti, accetta. Per capire che cosa è stato quel quotidiano è essenziale il saggio di Vittorio Emiliani, Orfani e bastardi. Milano e l' Italia viste dal «Giorno» (Donzelli). Il nuovo quotidiano rivoluziona la stampa italiana nella grafica e nei contenuti. Pietra diventa una delle nutrici del centrosinistra. Il suo giornale, laico, segue con appassionata attenzione il Concilio. Sono gli anni del boom, delle inchieste, dell' andare a vedere, della provincia. Un grande quotidiano. Basta guardare i nomi di quanti vi scrissero, direttore Pietra: Giorgio Bocca, Enzo Forcella, Gianni Brera, e poi, tra gli altri, Umberto Segre, Bernardo Valli, Natalia Aspesi, Luigi Fossati, Giampaolo Pansa, Marco Nozza, Guido Nozzoli, Morando Morandini, Vittorio Emiliani. E quanti scrissero nel supplemento culturale diretto da Paolo Murialdi: Calvino, Bassani, Gadda, Pasolini, Garboli, Citati, Manganelli, Arbasino. Il direttore ha i nervi saldi che resistono anche a qualche compromesso. Dopo la morte di Mattei, nel 1962, ad esempio. (Da sempre, ha pensato a una bomba). «Il Giorno» firmato da Pietra è rimasto per tutta la sua storia un giornale democratico. Il 13 dicembre 1969, il giorno dopo la strage di piazza Fontana, il grande titolo di prima pagina è: «Infame provocazione». E il titolo del fondo del direttore è: «Non si illudano». Non è facile dirigere il quotidiano dell' Eni. Le sette sorelle del petrolio sono le nemiche giurate, come la Federconsorzi, e, in politica, i dorotei d' epoca che fanno fuori Pietra dal «Giorno» nel 1972 - governo Andreotti-Malagodi - e dal «Messaggero» (1974-1975) quando la Dc, di nuovo, ne vuole e ne ottiene la testa. Negli ultimi anni non ha risentimenti, soltanto qualche malinconia per l' Italia malata e qualche delusione per uomini che contribuì molto a far diventare famosi, mai più rivisti dopo la sua uscita di scena. Diventa uno scrittore. Scrive una cruda biografia del leader assassinato dalle Br: Moro, fu vera gloria? Scrive, accolto dal gelo, E adesso Craxi. Critico, ma non malevolo. Recrimina sulla caduta delle riforme e sulla cancellazione della questione morale. Scrive I tre Agnelli, Giovanni, Edoardo, Gianni. Senza inchini. Dedica il libro - il suo stile - ai 111 operai della Fiat «morti combattendo in difesa degli stabilimenti». 





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