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La sezione Lavoro
del Tribunale di Roma
reintegra redattore
del Secolo d’Italia
licenziato con una
procedura illegittima.

“Il datore di lavoro ha omesso totalmente di far precedere i licenziamenti dalla fase di consultazione sindacale prevista dalla normativa (generale e speciale) e dalla regolamentazione contrattuale”. IN CODA il testo integrale della sentenza.

Roma, 7 febbraio 2011.  La seconda sezione Lavoro del Tribunale di Roma (giudice monocratico Antonio Maria Luna), con la sentenza n. 573/2011, ha dichiarato inefficace il licenziamento intimato dalla società editrice del  Secolo d’Italia al giornalista  Giuseppe (Pino) Rigido con lettera del 29 gennaio 2009 e ha condannato l’editore  alla reintegrazione del viceredattore capo (assistito dall’avvocato Andrea Fiore)  nel posto di lavoro. Il Tribunale ha condannato la società: a)  al risarcimento del danno in misura pari ad  euro 6009,64 mensili, per tredici mensilità all’anno, dal 31 gennaio 2009 fino alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle frazioni di capitale via via annualmente rivalutate dalle singole scadenze al soddisfo; b) al versamento, sulle somme dovute a titolo risarcitorio, dei contributi assistenziali e previdenziali; c) al pagamento dei due terzi delle spese di giudizio che liquida per l’intero in complessivi  euro 3.144,00, di cui euro 349,00 per esborsi, euro 795,00 per diritti ed euro 2.000,00 per onorari di avvocato.


Il 31 gennaio 2009 la società editrice ha licenziato Pino Rigido – assunto nel 1974 - con effetto immediato, unitamente al caposervizio Pietro Romano nonché ai due redattori già collocati in cigs. Nella lettera di licenziamento si fa riferimento alla cessazione dell’intervento di integrazione salariale, alla impossibilità di procedere ad un ampliamento della redazione ed al fatto che non aveva inteso accedere al pensionamento anticipato.


Il tribunale ha ritenuto fondata la tesi difensiva sviluppata dall’avvocato Andrea  Fiore: “il  licenziamento, rientrando in una procedura di licenziamento collettivo, “si appalesa inefficace sotto il profilo della violazione delle garanzie procedurali di cui alle leggi n. 223/1991 e n. 416/1981 ed all’allegato D al CNLG, in quanto il datore di lavoro ha omesso totalmente di far precedere i licenziamenti dalla fase di consultazione sindacale prevista dalla normativa (generale e speciale) e dalla regolamentazione contrattuale, limitandosi a richiamare la procedura avviata nell’anno 2007 e, dunque, per finalità del tutto diverse da quelle attuate con l’impugnato licenziamento. Evidenzia all’uopo che, in base a quanto previsto dall’art. 4 della l. n. 223/1991, la procedura stabilita per i licenziamenti collettivi deve essere applicata anche dalle aziende ammesse al trattamento di integrazione salariale straordinario, qualora nel corso o al termine del programma si verifichi l’esigenza di procedere anche ad un solo licenziamento”.


xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx


REPUBBLICA  ITALIANA


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


                                                                                         IL TRIBUNALE DI ROMA


                                                                                Seconda Sezione Lavoro -sentenza n. 573/2011


×vØ


in persona del giudice, dott. Antonio Maria LUNA


all’udienza del 18 gennaio 2011, all’esito della camera di consiglio (ore 19,30) ha pronunciato la seguente


SENTENZA


ex art. 429, 1° comma c.p.c., modificato dall’art. 53, comma 2 d.l. n. 112/2008, conv. in legge n. 133/08, nella causa civile iscritta al n. 29471 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell’anno 2009, vertente


TRA

RIGIDO Giuseppe, elettivamente domiciliato in Roma, al viale Giuseppe Mazzini, n. 134, presso lo studio degli avv.ti Ignazio FIORE, Andrea FIORE, Fulvio DE CRESCIENZO e Vittoria MEZZINA, che lo rappresentano e difendono in virtù di mandato a margine del ricorso introduttivo


RICORRENTE


E


SECOLO D’ITALIA S.r.l. – in persona dell’amministratore unico, on. Renzo Raisi – elettivamente domiciliata in Roma alla via Germanico, n. 211, presso lo studio dell’avv. Paolo ARCANGELI che la rappresenta e difende in virtù di procura a margine della memoria di costituzione


CONVENUTA


Oggetto: impugnazione di licenziamento


Conclusioni delle parti:


Gli avv.ti I. Fiore, A. Fiore, F. de Crescienzo e V. Mezzina, per il ricorrente: “…I) accertare e dichiarare la nullità e/o illegittimità e/o inefficacia del licenziamento intimato al ricorrente per tutte le motivazioni indicate in premessa e per ogni altra motivazione che si appaleserà equa e/o di giustizia; b) per l’effetto: ordinare alla società Secolo d’Italia S.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in Roma, via della Scrofa n. 39, in virtù dell’art. 18 L. 300/1970 la reintegrazione del ricorrente del posto di lavoro precedentemente occupato e nelle mansioni svolte, ovvero in mansioni equivalenti, nonché condannarla al risarcimento del danno subito in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla reintegra, commisurate all’ultima retribuzione globale di fatto pari all’importo lordo di €6.009,64 oltre il risarcimento del danno da svalutazione monetaria e gli interessi legali; c) accertare e dichiarare la natura ingiuriosa, offensiva e ritorsiva del recesso intimato per tutte le motivazioni indicate nel ricorso ed in particolare al capitolo A.4; d) condannare la società resistente, in persona del legale rapp.te p.t., al risarcimento del maggior danno subito dal lavoratore e, precisamente: del danno alla professionalità nella misura di una mensilità per ogni mese di forzosa inattività, con decorrenza dalla data del processo sino a quella di effettiva ripresa dell’attività lavorativa ovvero nella diversa misura che sarà ritenuta equa e/o di giustizia, anche in applicazione del principio equitativo; del danno esistenziale ed alla vita di relazione, nella misura di €50.000,00 ovvero nella diversa misura che sarà ritenuta equa e/o di giustizia, anche in applicazione del principio equitativo; del danno ai diritti della personalità, nella misura di €50.000,00 ovvero nella diversa misura che sarà ritenuta equa e/o di giustizia, anche in applicazione del principio equitativo. e) con vittoria delle spese di lite”.


L’avv. P. Arcangeli, per la convenuta: “Per i motivi suesposti e per altri a dedurne si confida nel rigetto del ricorso proposto da Giuseppe Rigido con condanna del ricorrente alla rifusione di spese, competenze ed onorari del giudizio”.


ESPOSIZIONE DEI FATTI


Con ricorso depositato il 17 settembre 2009, Giuseppe RIGIDO – premesso di aver iniziato a lavorare alle dipendenze dell’editore del quotidiano “Secolo d’Italia” nel 1974 con qualifica dapprima di praticante, poi di redattore ordinario, indi di caposervizio dal 1977 ed infine, dal 1996, di vice caporedattore, di essere stato addetto in periodi successivi al settore esteri, al settore cronaca, ecc., di avere avuto la responsabilità, come caposervizio, della pagina interna, di essersi occupato dal 1994 della pagina di approfondimenti, con compiti di coordinamento di alcuni collaboratori, nonché con funzioni ulteriori di coordinamento in relazione agli inserti mensili relativi agli enti locali ed all’ambiente, di essere tornato dal 2005 alle mere mansioni di redattore a seguito dell’assunzione di Luciano Lanna, con funzioni di caporedattore, scrivendo articoli di varia natura a seconda delle esigenze redazionali – ha esposto che nel corso del 2006 l’editore ha comunicato la necessità di procedere ad una riorganizzazione del giornale da realizzare mediante la suddivisione dei contenuti del quotidiano in due grandi aree, cioè attualità e cultura, in luogo dei precedenti sei “servizi”, e la contrazione dei ruoli di caposervizio e delle figure apicali; che pertanto la riorganizzazione avrebbe comportato la riduzione dei ruoli di caposervizio, oltre che uno “snellimento dei ruoli apicali” e la riduzione del numero degli altri giornalisti, passando il giornale da 20 a 16 pagine; che egli, quale membro del Comitato di Redazione, ha subito manifestato il proprio parere contrario al progetto di riorganizzazione; che, dal dicembre 2006, è stato del tutto emarginato tanto che non sono stati più pubblicati suoi articoli; che è stato più volte invitato ad accettare il pensionamento anticipato a fronte di un’offerta di collaborazione esterna; che in seguito è stata avviata attività di consultazione sindacale la quale ha condotto ad un accordo sottoscritto il 25.1.2007 con cui è stato approvato il piano presentato dal direttore del giornale; che tale piano ha previsto il collocamento in cassa integrazione di sei giornalisti, di cui tre che non avessero maturato i requisiti per accedere al prepensionamento e tre che li avessero maturati, tra cui esso ricorrente; che il direttore ha individuato concretamente le persone da collocare in cassa integrazione e cioè il vice caporedattore, due capiservizio (anziché tre capiservizio) e quattro redattori ordinari; che, pertanto, in data 26.2.2007, l’azienda gli ha comunicato il collocamento in cassa integrazione straordinaria a decorrere dal 1° marzo 2007, venendo escluso dal beneficio dell’anticipazione del TFR durante il periodo di integrazione salariale in quanto rientrante nella categoria dei giornalisti aventi i requisiti di pensionamento anticipato, e venendo altresì escluso dal programma di ricollocazione delle eccedenze occupazionali; che, di fatto, la redazione è stata riorganizzata in due aree cioè attualità e cultura, quest’ultima affidata al caposervizio Aldo Di Lello, poi sostituito dal neo assunto Filippo Rossi; che all’area attualità sono addetti tra l’altro due capiservizio e un vice caposervizio che svolgono esclusivamente mansioni di redattori ordinari; che esso ricorrente ha promosso giudizio di impugnazione del provvedimento di collocamento in cassa integrazione evidenziandone l’illegittimità sotto molteplici profili; che nel periodo successivo all’ammissione alla cassa integrazione l’editore ha fatto ricorso alle prestazioni di numerosi collaboratori esterni ed ha altresì assunto altri giornalisti; che non ha effettuato le verifiche periodiche previste nel verbale di accordo del 9 gennaio 2007; che in particolare è stato assunto il detto Filippo Rossi in qualità di caposervizio ed il sig. Antonio Rapisarda, quale redattore ordinario; che il giorno 31 gennaio 2009 la società lo ha licenziato con effetto immediato, unitamente al caposervizio Pietro Romano nonché ai due redattori già collocati in cigs; e che nella lettera di licenziamento si fa riferimento alla cessazione dell’intervento di integrazione salariale, alla asserita impossibilità di procedere ad un ampliamento della redazione ed al fatto che esso ricorrente non aveva inteso accedere al pensionamento anticipato.


Tanto premesso, il ricorrente ha dedotto che il licenziamento è illegittimo: a) per violazione della legge n. 416 del 1981 in quanto nella lettera di recesso si richiama l’art. 36 della detta legge la quale tuttavia presuppone che vi sia la dichiarazione ministeriale dello stato di crisi aziendale, mentre nella specie l’editore ha proceduto ad una riorganizzazione e ristrutturazione; b) per violazione del combinato disposto della legge n. 223 del 1991, della legge n. 416 del 1981 e dell’allegato D) al contratto collettivo in quanto il riferimento alla situazione di crisi occupazionale di cui all’art. 36 della legge n. 416 del 1981 non è sufficiente a legittimare il licenziamento mancando il rispetto delle garanzie procedurali previste dalla legge sui licenziamenti collettivi e dal contratto collettivo, giacché la società avrebbe dovuto, al termine del periodo di integrazione salariale, avviare la procedura stabilita per i licenziamenti collettivi e quindi procedere ai licenziamenti osservando i criteri legali di scelta dei lavoratori. Egli infatti avrebbe potuto essere richiamato in servizio come responsabile dell’area attualità stante la sua lunga e variegata carriera professionale ovvero avrebbe potuto essere richiamato per svolgere il ruolo affidato al neo assunto Filippo Rossi.


In via subordinata, il ricorrente ha dedotto che il licenziamento è comunque illegittimo per assenza di giusta causa o giustificato motivo mancando ogni motivazione ad eccezione del mero riferimento alla procedura di integrazione salariale e non avendo la società provveduto a valutare la sussistenza della possibilità di un suo diverso impiego in azienda. Ha poi sostenuto che il licenziamento è nullo in quanto discriminatorio, ritorsivo ed ingiurioso essendo stato disposto a causa del suo rifiuto di accedere al pensionamento anticipato e della successiva impugnazione del provvedimento di collocamento in cassa integrazione, nonché in considerazione di una condizione soggettiva e cioè l’età.


Il ricorrente ha perciò dedotto di aver diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro con le conseguenze di legge ed altresì al risarcimento del danno per lesione della professionalità nonché per la conseguente compromissione dei suoi rapporti familiari ed inoltre per il carattere offensivo, ingiurioso e discriminatorio del recesso.


Il ricorrente ha quindi rassegnato le conclusioni sopra trascritte.


La soc. Secolo d’Italia S.r.l., costituitasi con memoria depositata l’11 giugno 2010, richiamate le circostanze di fatto che hanno condotto al ricorso all’integrazione salariale straordinaria, ha dedotto che la domanda di impugnazione del provvedimento di collocamento in cassa integrazione è stata respinta da questo Tribunale con sentenza del 23 aprile 2010; che il presupposto della integrazione straordinaria è pur sempre uno stato di crisi aziendale; che non è appropriato il riferimento alla disciplina sui licenziamenti collettivi in quanto l’art. 24 della l. n. 223 del 1991 presuppone che i lavoratori licenziati siano almeno cinque mentre nella specie sono stati licenziati solo quattro giornalisti; che, conseguentemente, deve applicarsi la disciplina di legge sui licenziamenti individuali; che, per effetto della riorganizzazione concordata in sede sindacale, è stato ridotto l’organico dei giornalisti, passati cioè dal 18 a 12, è stato ridotto il numero di pagine, passate da 20 a 16, raggruppate in due grandi aree, cioè attualità e cultura, ed eliminata la figura del vice caporedattore, che era propria dell’attuale ricorrente; che, pertanto, il licenziamento è stato determinato dalla avvenuta soppressione del posto di vice caporedattore, senza che pertanto, possa ravvisarsi alcun carattere discriminatorio od ingiurioso; che il RIGIDO ha avuto il detto ruolo non solo formalmente, come asserito in ricorso, ma anche di fatto, senza che vi sia mai stato demansionamento; che in alcun modo il ricorrente avrebbe potuto essere diversamente impiegato in quanto ciò avrebbe comportato un suo demansionamento, che non è mai stato concordato al fine di evitare il recesso, né comunque mai dal giornalista accettato come confermato dalla doglianza relativa alla asserita sottrazione di mansioni dal 2005 prospettata ancora con il ricorso; che non vi è stata alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato; che in ogni caso non vi sarebbe alcun posto in organico nel quale il lavoratore avrebbe potuto essere collocato; e che le domande di risarcimento di danni alla professionalità, alla vita di relazione ed ai diritti della personalità non sono supportate da alcuna allegazione di fatto.


MOTIVI DELLA DECISIONE


Il ricorso è parzialmente fondato e, pertanto, deve essere accolto per quanto di ragione.


Il ricorrente sostiene, tra l’altro, che il recesso, rientrando in una procedura di licenziamento collettivo, si appalesa inefficace sotto il profilo della violazione delle garanzie procedurali di cui alle leggi n. 223/1991 e n. 416/1981 ed all’allegato D al CNLG, in quanto il datore di lavoro ha omesso totalmente di far precedere i licenziamenti dalla fase di consultazione sindacale prevista dalla normativa (generale e speciale) e dalla regolamentazione contrattuale, limitandosi a richiamare la procedura avviata nell’anno 2007 e, dunque, per finalità del tutto diverse da quelle attuate con l’impugnato licenziamento. Evidenzia all’uopo che, in base a quanto previsto dall’art. 4 della l. n. 223/1991, la procedura stabilita per i licenziamenti collettivi deve essere applicata anche dalle aziende ammesse al trattamento di integrazione salariale straordinario, qualora nel corso o al termine del programma si verifichi l’esigenza di procedere anche ad un solo licenziamento.


Tale tesi è fondata.


L’art. 4, comma 1, della legge n. 223 del 1991 dispone che “L’impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di cui all’articolo 1 [programmi di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale] ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare le procedure di mobilità ai sensi del presente articolo”.


La lettera della legge impone di ritenere che la risoluzione dei rapporti di lavoro nel corso o, a fortiori, al termine del periodo di integrazione salariale straordinaria non è possibile se non dopo l’espletamento delle procedure disciplinate dal medesimo art. 4.


La giurisprudenza di legittimità, aderendo alla tesi già esposta da una parte della dottrina, ha evidenziato la differenza tra il licenziamento collettivo per riduzione di personale disciplinato dall’art. 24 della legge n. 223/1991 ed il collocamento in mobilità dagli artt. 4 e 5 della medesima legge. Il primo riguarda il licenziamento di una pluralità di lavoratori (almeno cinque nell’arco di 120 giorni), in assenza di intervento di integrazione guadagni, il secondo è relativo ad impresa che, già ammessa a fruire del trattamento di integrazione, nel corso di attuazione del programma, ritenga di non poter garantire il reimpiego di tutti i lavoratori e di non poter ricorrere a misure alternative.


Con la sentenza 11/11/1998, n. 11387, la Corte di Cassazione ha invero formulato le seguenti persuasive argomentazioni in un caso in cui alcuni lavoratori, non collocati in cassa integrazione, si dolevano del fatto di essere stati destinatari di provvedimenti di recesso che, invece, a loro giudizio, avrebbero dovuto interessare soltanto coloro che erano già stati collocati in cassa integrazione.


«La procedura per la dichiarazione di mobilità di cui al citato art. 4 – necessariamente propedeutica all’adozione dei licenziamenti collettivi – mira a consentire una verifica seria e quanto più obiettiva – della effettiva necessità di porre fine ad una serie di rapporti di lavoro in situazioni di sofferenza dell’impresa, già “collaudate” da un provvedimento formale di collocamento in cassa integrazione guadagni. Trattasi, come noto, di una procedura volta ad assicurare il controllo sindacale mediante diritti di informativa e di esame congiunto per la verifica della effettività e della inevitabilità, totale o parziale, del programmato ridimensionamento dell’organico. In tale contesto, in particolare, una tale verifica “congiunta” comporta una ricerca, quanto più estesa e altrettanto “partecipata” (in quanto svolta in contraddittorio) delle possibilità di ricorrere a misure alternative rispetto ai licenziamenti: e proprio per rendere possibile un tale risultato, il comma 3 dell’art. 4 individua con estrema ampiezza i contenuti essenziali delle comunicazioni che le imprese sono tenute a dare alle organizzazioni sindacali destinatarie (cfr. sul punto, Cass., del 30 ottobre 1997, n. 10716). L’imprenditore è tenuto a fornire le seguenti indicazioni (comma 3): “dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici, organizzativi e produttivi per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità; del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente nonché del personale abitualmente impiegato; dei tempi di attuazione del programma di mobilità; delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma medesimo; del metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva”.


Come si vede, proprio l’ampiezza dei contenuti della comunicazione dimostra chiaramente come l’ambito della verifica congiunta abbraccia l’impresa nel suo complesso e può estendersi anche alle posizioni lavorative non ricomprese, al momento, nel trattamento di integrazione salariale, al precipuo fine di rendere possibile la ricerca di quelle eventuali “misure alternative” cui si riferisce il primo comma dell’art. 4.


Né queste misure vanno riferite esclusivamente ai lavoratori in atto sospesi per effetto dell’ammissione al trattamento di CIGS: la prospettiva di mobilità, rimettendo in discussione gli equilibri complessivi dell’azienda, e, dunque, i destini dell’intera comunità di lavoro, proprio al fine di consentire l’adozione di più articolate ed ampie misure di risanamento economico e produttivo, chiama necessariamente in causa tutte le posizioni lavorative, in uno spirito di solidarietà generale che non consente esenzioni o immunità preconcette. La logica complessiva sottesa alla procedura disciplinata dall’art. 4 è comune – in quanto testualmente richiamata dall’art. 24 della medesima legge n. 223/1991 – a quella che sorregge la procedura di riduzione del personale, rispetto alla quale, dunque, la prima si distingue essenzialmente per quanto riguarda le condizioni iniziali di operatività: ed infatti, solo la prima procedura, e non anche la seconda, presuppone la preventiva ammissione al trattamento straordinario di integrazione salariale, senza i requisiti dimensionali, temporali e spaziali prescritti dall’art. 24.


Una volta realizzate le predette condizioni iniziali, la procedura si svolge in termini e con una ampiezza di indagine “congiunta” – o se si preferisce, “in contraddittorio” con la controparte sindacale – del tutto identici, sino alla conclusione, anch’essa, comune, della scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, secondo i criteri unitariamente dettati dall’art. 5 della stessa legge, il quale si pone quale “cerniera” tra i due regimi.


[…] Ed infatti, una volta esclusa – per le ragioni già esposte – una rigida coincidenza tra collocandi in mobilità e lavoratori sospesi in CIGS (conf. Cass., del 20 novembre 1997, n. 11569 e del 23 dicembre 1997, n. 12989), dovendosi piuttosto affermare che l’individuazione dei lavoratori da “sacrificare” deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive dell’intero complesso aziendale, si spiega, più agevolmente il motivo per cui le comunicazioni previste dal comma 3 dell’art. 4 non riguardano soltanto profili professionali del personale sospeso e, come tale, eccedente, nelle condizioni esistenti al momento dell’ammissione alla CIGS – come sembra ritenere la difesa dei ricorrenti – ma anche i profili professionali dei lavoratori in esubero e pure collocabili in CIGS, secondo criteri di rotazione, le cui posizioni possono evidenziarsi anche nel corso della procedura.


Ma v’è di più: a questi profili professionali vanno aggiunti quelli “del personale abitualmente impiegato”, secondo quanto è stato testualmente precisato nella norma in esame, per effetto. Si tratta di una significativa aggiunta apportata al testo originario, dall’art. 1 del D.Lgs. 26 maggio 1997, n. 151, (che, in quanto in attuazione della direttiva del Consiglio CEE n. 75/129 del 17 febbraio 1975, aggiornata dalla direttiva del Consiglio CEE n. 92/56 del 24 giugno 1992, è riferibile ai licenziamenti de quibus tutti risalenti ad epoca successiva alla entrata in vigore di quest’ultima normativa comunitaria) in base alla quale il riferimento ai profili professionali da prendere in considerazione sono anche quelli propri di tutti i dipendenti potenzialmente interessati alla mobilità, tra i quali potrà, all’esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991» (cfr. anche Cass. civ., Sez. lavoro, 08/02/2010, n. 2734; Cass. civ., Sez. lavoro, 17/10/2002, n. 14736; Cass. civ., Sez. lavoro, 20/03/2000, n. 3271).


In sostanza, dunque, la circostanza che vi sia stata, all’esito della procedura di legge, ammissione alla cassa integrazione straordinaria, non implica necessariamente che, al termine del periodo di integrazione, i lavoratori sospesi possano essere licenziati sic et simpliciter, giacché il datore di lavoro, che non ritenga di poter nuovamente impiegare i lavoratori sospesi, deve appunto promuovere una nuova procedura di consultazione che coinvolga l’intera azienda finalizzata all’esame della situazione aziendale che, dopo il periodo di sospensione, totale o parziale dell’attività, potrebbe essere mutata anche profondamente, tanto da imporre addirittura una cessazione dell’impresa o, viceversa, da far ritenere possibile un reintegro nelle funzioni di tutti i lavoratori sospesi.


Nella fattispecie ora in esame, invece, la società non ha promosso il necessario procedimento di consultazione nel corso del quale si sarebbe dovuta esaminare la situazione aziendale, per verificare la sua effettività e la mancanza di soluzioni alternative, ma ha direttamente intimato licenziamento con riferimento espresso alla mera scadenza del periodo di integrazione salariale.


Come appunto accennato nella memoria difensiva (pagg. 8-9) e prospettato nelle note conclusionali (pagg. 9-10), in presenza di una persistente situazione di crisi, nonostante il periodo di integrazione salariale, sarebbe stato necessario avviare la procedura di legge al fine di consentire l’esame da parte delle organizzazioni sindacali di quanto l’azienda avrebbe dovuto denunciare aprendo il procedimento di mobilità.


La mancanza della procedura obbligatoria rende inefficace il licenziamento secondo il combinato disposto degli artt. 5, comma 3, e 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 e deve, giusta quanto previsto dal citato art. 5, comma 3, applicarsi la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.


La inefficacia del recesso per tale motivo rende irrilevanti i motivi indicati dalla società e cioè la addotta “situazione economico-gestionale” che non consentirebbe “un ampliamento dell’organico redazionale di 12 giornalisti oltre la Direzione concordato” nell’accordo sindacale del 25 gennaio 2007, ed il mancato esercizio, da parte del lavoratore, del diritto di accedere al pensionamento anticipato nonostante fosse in possesso dei relativi requisiti di legge.


Deve quindi ordinarsi alla società convenuta la reintegrazione nel posto di lavoro del ricorrente.


Deve, inoltre, condannarsi la medesima società al risarcimento del danno, in misura pari alle retribuzioni globali di fatto, dalla data di cessazione del rapporto (31 gennaio 2009) fino a quella dell’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro.


L’importo mensile della retribuzione ammonta ad €6.009,64, somma lorda risultante dall’ultima busta paga prodotta sub doc. 46 dal ricorrente e confermata dal conteggio del TFR prodotto dalla convenuta sub doc. 3, per 13 mensilità all’anno.


Su tutte le somme così dovute spettano, inoltre, la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sulle frazioni di capitale via via annualmente rivalutate dalle singole scadenze al soddisfo.


Deve altresì condannarsi la società convenuta al versamento, sulle somme dovute a titolo risarcitorio, dei contributi assistenziali e previdenziali, come per legge.


Non può, invece, accogliersi la domanda di risarcimento dei danni ulteriori lamentati, sull’assunto che il licenziamento avrebbe avuto carattere ingiurioso e discriminatorio ed avrebbe comunque determinato per il lavoratore l’impossibilità di espletare la propria professione e leso la sua immagine e la sua reputazione.


Infatti, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, “il carattere ingiurioso del licenziamento, che, in quanto lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, dà luogo al risarcimento del danno, non si identifica con la mancanza di giustificatezza dello stesso, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso del datore di lavoro, le quali vanno rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio (Cass. civ. Sez. lavoro, 22-03-2010, n. 6845; cfr. anche Cass. civ. Sez. lavoro, 05-11-2008, n. 26590).


In altri termini, l’ingiuriosità del licenziamento non consiste sic et simpliciter nella contestazione di un fatto lesivo dell’onore e del decoro del lavoratore, ma, piuttosto, nella forma del provvedimento e nella pubblicità che venga eventualmente data ad esso (cfr. Cass. civ. sez. lavoro, sent. 14 maggio 2003, n. 7479).


Nella specie, lo stesso ricorrente non afferma che vi sia stata pubblicità di sorta alla vicenda che lo ha interessato e la forma del recesso non appare di per sé idonea a ledere il suo onore o decoro o la sua immagine professionale, tale non potendo ritenersi il riferimento al suo rifiuto di accettare il prepensionamento come motivo del licenziamento (ulteriore rispetto a quello della addotta impossibilità di ampliare l’organico dei giornalisti) poiché si tratterebbe di una circostanza che non pone in dubbio la onorabilità del giornalista.


I danni patrimoniali, comunque, appaiono meramente allegati e non provati non avendo il ricorrente indicato alcuna specifica circostanza di fatto da cui possa desumersi la sua impossibilità di svolgere ulteriore attività professionale considerato, peraltro, che il danno consistente nel mancato esercizio dell’attività di lavoro è appunto risarcito dall’importo pari alle retribuzioni non percepite.


Né appare determinante la circostanza che il ricorrente sia prossimo alla età pensionabile posto che, quando sarà raggiunto tale limite, in ogni caso egli, salvo ovviamente lo svolgimento di attività di lavoro in forma autonoma, dovrebbe cessare l’attività di lavoratore dipendente.


Infine, è parimenti carente l’allegazione di circostanze di fatto da cui dovrebbe desumersi che il licenziamento abbia provocato una progressiva compromissione dei suoi rapporti familiari, avendo il ricorrente soltanto affermato che si sarebbe verificato ciò a causa della difficile situazione economica in cui è venuto a trovarsi ed alla perdita di prestigio sociale conseguente alla esclusione dal mondo giornalistico.


Le spese di lite, liquidate come in dispositivo in favore del procuratore antistatario e comprensive del rimborso delle spese generali ex art. 14 della Tariffa forense, in considerazione del parziale accoglimento del ricorso, possono essere compensate in ragione di un terzo ponendosi la restane parte a carico della convenuta.


P.Q.M.


Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Giuseppe RIGIDO, con ricorso depositato il 17 settembre 2009, così provvede:


1. -       dichiara inefficace il licenziamento intimato dalla soc. Secolo d’Italia S.r.l. a Giuseppe RIGIDO con lettera del 29 gennaio 2009;


2. -       condanna la società convenuta alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro;


3. -       condanna la soc. Secolo d’Italia S.r.l. al risarcimento del danno in favore di Giuseppe RIGIDO, in misura pari ad €6.009,64# mensili, per tredici mensilità all’anno, dal 31 gennaio 2009 fino alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle frazioni di capitale via via annualmente rivalutate dalle singole scadenze al soddisfo;


4. -       condanna la soc. Secolo d’Italia S.r.l. al versamento in favore del ricorrente, sulle somme dovute a titolo risarcitorio, dei contributi assistenziali e previdenziali;


5. -       rigetta la domanda di risarcimento di ulteriori danni di cui ai capi c) e d) delle conclusioni del ricorso;


6. -       condanna la soc. Secolo d’Italia S.r.l. al pagamento, in favore di Giuseppe RIGIDO, dei due terzi delle spese di giudizio che liquida per l’intero in complessivi €3.144,00#, di cui €349,00# per esborsi, €795,00# per diritti ed €2.000,00# per onorari di avvocato, dichiarando compensata la restante parte sull’intero sopra determinato.


Roma, 18 gennaio 2011


                                                                                          Il Giudice


                                                        Antonio Maria Luna


 


sentenza depositata in cancelleria il 18/1/2011


 





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