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Stampa

«L’ultima notizia»
di Massimo Gaggi
e Marco Bardazzi

Senza giornalisti
che giornalismo è?

Una professione chiamata a reinventarsi per sopravvivere. Il 2010 è l’anno della svolta. Così, è la tesi di Gaggi e Bardazzi, ci dovremo abituare all’idea, in un futuro remoto, di pagare una «bolletta delle news» a fine mese, come ci siamo abituati a pagare quelle del telefonino o della tv satellitare (che prima non esistevano) perché ne abbiamo riconosciuto l’utilità. Navigheremo nell’informazione digitale con una sorta di Telepass, senza fermarci ai caselli. O su piattaforme sempre più intelligenti e avvincenti come l’iPad. Ma il presupposto è che la qualità dell’informazione ha un suo costo. Io non sono convinto che le notizie su Internet si possano semplicemente far pagare, perché ciò accada bisogna creare una vera informazione multimediale che sappia mettere insieme approfondimento e accuratezza dello scritto con grafici, video e audio. Per sopravvivere occorre tenere presente la regola delle «3 C» introdotte dal web: «Condivisione, comunità, conversazione» e sapere aprirsi ogni giorno di più. A queste, il giornalismo porta in dote le sue «3 C» storiche e irrinunciabili: «Contenuti, credibilità, creatività».

di MARIO CALABRESI
per La Stampa del 17/2/2010

L’anno delle opportunità per il giornalismo è cominciato con quasi quattro settimane di ritardo: il 27 gennaio. Quel giorno il boss della Apple Steve Jobs ha svelato la sua tavoletta digitale, quella via di mezzo tra un computer e un telefono che prende il nome di iPad, indicando una possibile strada per l’informazione del futuro. Come per l’economia, anche per i giornali con il 2009 i peggiori incubi si sono materializzati: crollo della pubblicità, diminuzione dei lettori, fallimenti e riduzione di organici.


Molte sentenze di morte del giornalismo, della carta e della professione di chi scrive queste righe sono state pronunciate negli ultimi mesi: sono convinto siano ingenerose e sbagliate, così come non penso che l’iPad sarà la soluzione di tutti i problemi. Ma il genio di Steve Jobs ha avuto ancora una volta un merito fondamentale, quello di rimettere in circolo speranza, creatività e voglia di parlare di futuro.


Ogni crisi impone di ripensarsi, di mettere in un angolo le «certezze» e di coltivare dubbi: questo è certamente doloroso ma anche affascinante e oggi nel mondo, in Occidente soprattutto, c’è una quantità di discussione sul futuro dell’informazione che non ha paragoni con nessuna stagione del passato. Ho appena finito di leggere un libro che uscirà questa mattina, lo hanno scritto due giornalisti che hanno osservato da vicino, per anni, lo sbriciolamento dei quotidiani americani. Per parecchio tempo mi è capitato di incontrarli negli Stati Uniti intenti in un’indagine ansiosa sul futuro della carta stampata. Non facevano altro che interrogarsi su come sarebbe andata a finire. Non sapevo stessero preparando un libro ma ero colpito dalla passione con cui seguivano ogni possibile pista di uscita dalla crisi e così li usavo come termometri per misurare la febbre del nostro mestiere.


Massimo Gaggi è inviato del Corriere della Sera a New York, Marco Bardazzi lo era per l’Ansa a Washington prima di approdare pochi mesi fa qui alla Stampa. A quattro mani hanno scritto per Rizzoli L’ultima notizia che ha come primo merito la capacità di fotografare un fenomeno che fino a ora era noto solo a frammenti e andava rimesso insieme: la crisi degli «imperi di carta», la svolta epocale che la rivoluzione digitale sta portando nelle nostre vite, la possibilità che nascano nuove modalità di raccontare le storie del mondo, nuovi percorsi di lettura, nuove modalità di apprendimento. Potremmo essere in un momento storico, sostengono non senza ragione, che in futuro verrà visto come la fine di un percorso secolare cominciato con Gutenberg, e l’inizio di qualcosa di nuovo.


Gaggi e Bardazzi però non si sono lasciati conquistare da un «nuovismo» in nome del quale tutto l’esistente è da gettare e neppure da una sterile difesa della categoria e delle sue tradizioni, ma hanno fatto un’inchiesta giornalistica, anche per dimostrare che il metodo di racconto della realtà sviluppato nel corso degli ultimi 150 anni dal giornalismo ha ancora il suo valore.


Leggendo il loro racconto, la descrizione dell’evoluzione di Internet, dei blog, dei mille canali di informazione specializzata e dei «social network», i siti su cui si socializza e si scambiano in tempo reale parole e immagini, emerge con chiarezza come il mondo in cui viviamo sia caratterizzato da un notevole rumore di fondo. Nella frammentazione caotica e nel mare di messaggi a cui siamo sottoposti penso ci sia ancora il desiderio di avere approfondimenti, chiavi di lettura e contesti. La gente continuerà ad avere bisogno di informazioni di cui fidarsi per le scelte di tutti i giorni, dal lavoro agli investimenti, dalla salute all’educazione dei figli. Questo non significa pensare che i giornalisti siano i depositari della verità, ma riconoscere che - pur con tutti i loro limiti - le redazioni «tradizionali» restano luoghi dove si sviluppa una narrativa comune per la società. Se svaniscono, se scompare il giornalismo, è a rischio la democrazia stessa. Può sembrare un’affermazione eccessiva perché la rete digitale appare sempre più caratterizzata da trasparenza e apertura: una grande casa di vetro. «Ma la casa di vetro - mettono in guardia Gaggi e Bardazzi - è anche molto fragile, tanto più che viviamo in un’epoca nella quale i professionisti della manipolazione dell’opinione pubblica sono pagati assai meglio di quelli dell’investigazione giornalistica». E a confermare come la stampa possa ancora avere un ruolo di cane da guardia basti raccontare che i deputati delle città degli Stati Uniti in cui non c’è più un giornale locale sono i più assenteisti e svogliati.


Ma nel momento in cui ci troviamo a ripensare l’informazione del futuro, alle nuove piattaforme su cui diffonderlo, dobbiamo fare prima di tutto i conti con l’idea diffusa che l’informazione debba essere gratis. In molti lettori, soprattutto i più giovani che sono cresciuti con Internet e con la «free press», manca la percezione che alla base della catena alimentare dell’ecosistema dell’informazione occorre un «plancton» che qualcuno deve produrre, altrimenti tutto il sistema muore. Uno studio del Pew Research Center, reso pubblico quando il libro era già stato scritto, rivela che il 95% dell’informazione che circola su tutti i media, inclusi Internet e i blog, ha origine dalla carta stampata: insomma i «vecchi» quotidiani di carta restano la fonte preponderante di tutte le notizie. Se domani tutti i giornalisti del mondo scendessero in sciopero - come minacciano di fare gli immigrati per dimostrare il peso del loro lavoro - improvvisamente la rete e il mondo non saprebbero più di cosa discutere, se non dello sciopero dei giornalisti.


Così, è la tesi di Gaggi e Bardazzi, ci dovremo abituare all’idea, in un futuro remoto, di pagare una «bolletta delle news» a fine mese, come ci siamo abituati a pagare quelle del telefonino o della tv satellitare (che prima non esistevano) perché ne abbiamo riconosciuto l’utilità. Navigheremo nell’informazione digitale con una sorta di Telepass, senza fermarci ai caselli. O su piattaforme sempre più intelligenti e avvincenti come l’iPad. Ma il presupposto è che la qualità dell’informazione ha un suo costo. Io non sono convinto che le notizie su Internet si possano semplicemente far pagare, perché ciò accada bisogna creare una vera informazione multimediale che sappia mettere insieme approfondimento e accuratezza dello scritto con grafici, video e audio. Per sopravvivere occorre tenere presente la regola delle «3 C» introdotte dal web: «Condivisione, comunità, conversazione» e sapere aprirsi ogni giorno di più. A queste, il giornalismo porta in dote le sue «3 C» storiche e irrinunciabili: «Contenuti, credibilità, creatività».


E questa carta su cui mi state leggendo? Non scomparirà, a patto che sia capace di continuare a convincervi. Per farlo deve smettere di inseguire l’intrattenimento della televisione o la velocità della rete e darvi il senso compiuto di quanto è accaduto ogni giorno, conquistandosi il diritto di continuare a essere una persona di famiglia.


 


L’editoria ai tempi dell’iPad


Come saranno giornali e riviste per l’iPad? Luke Hayman, cui si deve tra l’altro il restyling di Time e New York, suggerisce cinque linee guida, che riassumiamo di seguito.


 


1. Dopo anni di giornali sempre più piccoli per adattarsi ai telefonini, oggi quotidiani e riviste possono essere più grandi


2. Le cadenze consuete non avranno più senso: quotidiani, settimanali, mensili potranno essere aggiornati in ogni momento.


3. Anche la pubblicità cambierà volto: niente più banner da cliccare, ma una comunicazione interattiva


4. Gli articoli potranno essere più lunghi dal momento che l’iPad (ma anche il Kindle) sono pensati apposta per leggere libri


5. Un passo avanti per i media tradizionali: dovranno essere più ricchi graficamente per giustificare la propria esistenza


…………..


Massimo Gaggi e Marco Bardazzi, L’ultima notizia. Dalla crisi degli imperi di carta al paradosso dell’era di vetro, Milano 2010, Rizzoli, pp. 276, euro 18


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Testo in http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=5210


In «L’ultima notizia»


Massimo Gaggi


e Marco Bardazzi


delineano


il futuro delle news


 


LE TRE C


DELLA NUOVA


INFORMAZIONE


 


Condivisione, comunità e conversazione: così cambia l’universo dei media. Anche per i giornalisti, niente è più come prima. Non tanto per il mito del citizen journalism (l’utente che, grazie alle moderne tecnologie, si trasforma in informatore) che può funzionare bene nei casi di cronaca, negli incidenti, nelle tragedie, ma che rivela tutta la sua fragilità quando si sale di livello e si passa a quello dell’interpretazione. Con la rete, il giornalista deve reinventare le sue competenze, capire che la convergenza comporta un uso simultaneo di più media (la scrittura, ma anche la radio, il video, eventualmente i social network).


 


di Aldo Grasso per il Corriere della Sera 17/2/2010


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