Isotta, una donna.
E’ morta a 81 anni la collega Isotta Gaeta. Dopo trent’anni di incontri, progetti e divisioni ci sembra che la sua vita sia stata più complessa di quanto le commemorazioni ufficiali (ineluttabilmente) rammentino. Per quel che serve, con uno sguardo “interno” al nostro comune essere donne, ma esterno rispetto alle irrigidite identità di componente, vorremmo aggiungere qualcosa. Parlando a nome di molte e di molti. Riandando indietro sino agli anni Settanta quando fra organizzazioni femminili, politiche e sindacali ancora non erano nati (troppi) distinguo. Ciao Isotta, un saluto affettuoso da donne a donna, da militanti a militante, in nome della condivisa passione civile che ha contrassegnato l’intera tua vita: personale, professionale, politica. Molti ricordano il tuo impegno nella Resistenza, nelle istituzioni di categoria, nella tua componente sindacale. Vorremmo aggiungere altri tasselli alla memoria condivisa e ricordare sia il tuo impegno nell’Udi e nelle reti internazionali delle donne, europea e del Mediterraneo, sia le battaglie di nuova resistenza entro la fondazione Roberto Franceschi o per la dignità dei carcerati. La tua eredità in verità sta proprio nella testimonianza che il “come” viene sempre prima del “cosa” e che con spirito giovane e carattere indomito – inteso secondo la lectio di Sandro Pertini – si può scalare qualsiasi montagna. Una testimonianza preziosa in particolare nei tempi che stiamo vivendo. Ciao Isotta, a nome delle “ragazze di Milano”.
Marina Cosi (in www.nuovainformazione.it)
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Addio a Isotta Gaeta, giornalista e partigiana. Pubblichiamo il suo racconto sulla Resistenza al Convegno di Montecatini dedicato a Giovanni Amendola.
Roma, 21 dicembre 2009 - (Velino) - "Ieri è scomparsa a Nizza Isotta Gaeta. Aveva 82 anni. Partigiana, giornalista, la sua vita è stata una testimonianza di impegno per la democrazia, la libera informazione e i diritti civili. La Fnsi - di cui si legge la nota stampa - la ricorda con affetto e
riconoscenza e ne affida il ricordo della sua esperienza di ragazza militante nella 107esima Brigata Garibaldi (Partigiana della 107esima Brigata Garibaldi, 'Aldo Porro' (Lepre) per Divisione Italia - Operante nel Monferrato) alle sue stesse parole, quelle del suo intervento in occasione del convegno dedicato a Giovanni Amendola, promosso proprio dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, il 26 maggio 2005 a Montecatini Terme. L'intervento di Isotta Gaeta è raccolto e pubblicato, con altre testimonianze di giornalisti della lotta di liberazione (Murialdi, Bocca, Gallesio Girola, Giovannini, Lepri, Bedeschi, De Grada) nel libro 'La Conquista della libertà, il giornalismo italiano da Amendola alla Liberazione', curato da Franco Siddi e edito da Memori in occasione del centenario della Fnsi (2008)".
"La mia partecipazione alla Resistenza è stata la naturale conseguenza dell'educazione ricevuta in una famiglia antifascista provata dal carcere, dal confino, dalle privazioni - diceva . Isotta Gaeta - Un percorso che mi ha fatto scegliere da che parte stare con convinzione. Mio padre, che era stato arrestato tre mesi prima della mia nascita, condannato a 12 anni dal Tribunale speciale fascista da poco istituito, era il mio punto di riferimento. Ma non solo: tutta la mia famiglia era impegnata. A Torino, nel mio Borgo San Paolo, altri esempi di rivolta contro il fascismo mi venivano da altre famiglie con i Paletta, i Montagnana, i Longo. Mi ritrovai per la prima volta in strada a manifestare
il 25 luglio del '43, durante un corteo che si dirigeva alle carceri "Nuove" per liberare i prigionieri politici. Ero più che motivata, perché avevo appena saputo che mio padre era di nuovo in carcere a Milano per l'organizzazione degli scioperi del marzo, che tanto avevano contribuito
alla caduta di Mussolini". "C'erano molti giovani nel corteo - diceva ancora
Isotta Gaeta -. Studenti come me, operai, studenti lavoratori. Tutti erano
animati dal desiderio di farla finita con quel fascismo, che pure li aveva
formati nelle sue scuole; ma che con la guerra, le distruzioni,
l'imposizione di tanti sacrifici, aveva cominciato a mostrare il suo vero
volto. Formammo un gruppo e, in breve, scoprimmo le cose che ci univano. Ci
guidava un giovane operaio della Fiat, un vero intellettuale proletariato
che era già impegnato nel soccorso alle famiglie dei prigionieri politici.
Cominciamo a raccogliere e distribuire i primi giornali usciti dalla
clandestinità e le migliaia di volantini che i partiti antifascisti
producevano nelle sedi improvvisate. C'era un grande fermento, una grande
attesa, una sorte di libertà vigilata con il controllo di Badoglio che
faceva arrestare gli operai in sciopero, imponeva il coprifuoco e lasciava
in circolazione i militi fascisti. L'8 settembre ci colse di sorpresa mentre
eravamo raccolti nella sede del Partito comunista con alcuni dei vecchi
compagni di mio padre: Ermes Bazzanini, Luigi Capriolo, Cesare Balossino e
tanti altri che si preparavano ad entrare nella clandestinità, e tutti
divennero resistenti. Noi giovani ci interrogammo su cosa fare, su come
organizzarci, con chi stabilire altri collegamenti. Non sapevamo che stava
per nascere il movimento partigiano delle ceneri della disfatta del nostro
esercito e dalla rivolta popolare. Pensavamo alle armi che avremmo voluto
trovare per combattere. Eravamo ragazzi ma, in pochi giorni, diventammo
ribelli. Antonio teneva i collegamenti e distributiva i compiti a ciascuno
di noi. Con lui partecipai alla mia prima azione: raccogliere nei boschi,
vicino a Rivoli, un pacco di dinamite che dovevamo portare oltre il posto di
blocco dell'Aeronautica e consegnarlo. Il pacco era stato sistemato sulla
mia bicicletta perché, essendo una ragazza, potevo evitare più facilmente i
controlli. Era il giorno del mio compleanno, compivo 16 anni e quello fu il
mio apprendistato di resistente"."Intanto - osservava Isotta Gaeta - la
storia incalzava, Mussolini era stato liberato, i tedeschi imperversavano
seminando terrore e morte per rispondere ai primi attacchi partigiani.
Nasceva la Repubblica di Salò con quei famosi ragazzi e ragazze che
sembravano usciti da un'operetta; ma che ben presto imparammo a conoscere
come stupratori, torturatori che terrorizzavano la gente, requisivano il
bestiame e incendiavano le case dei contadini sospettati di dare rifugio ai
partigiani. Era un momento che richiedeva una svolta e che imponeva una
scelta per tutti noi. Per me decisero i fascisti. Una notte del dicembre '43
un gruppo della GNR si fermò sotto casa con l'intento di arrestare me e mia
madre. Volevano mio padre che, liberato dal carcere di Sondrio, aveva
raggiunto Asti, la sua città, per dar vita insieme con un gruppo di operai
di catturarci come ostaggi per costringere mio padre a consegnarsi. Per
fortuna non riuscirono ad entrare così, all'alba, riuscimmo a fuggire per
raggiungere l'alessandrino dove amici e compagni si erano già rifugiati. Ci
aspettavano e ci inserirono subito nel progetto di costituzione di una
brigata che doveva aprire una zona già territorio della 78° Garibaldi, che
non reggeva più tutta la situazione. A Quargnento, piccolo paese ai piedi
delle coline, dove esistevano una fornace e una polveriera in mezzo a una
distesa di vigneti e dove alcuni cortili delle cascine erano affrescati da
Carlo Carrà, nacque la 107° Brigata Garibaldi che prese poi il nome di uno
dei nostri caduti, Aldo Porro (Lepre). L'impulso per la costruzione della
nostra formazione lo diede Walter Audisio (il colonnello Valerio), poco
prima di raggiungere a Milano il comando del CVL. Lo ricordo con grande
affetto come uomo generoso e coraggioso, animato dai nostri stessi ideali di
libertà e di giustizia". "Nella brigata entrarono alcuni distaccamenti del
78° Garibaldi, un gruppo di universitari genovesi, diversi sfollati torinesi
e pochi contadini del luogo risparmiati dai richiami alle armi. Ben presto,
con i nuovi bandi di chiamata delle nuove leve, altri giovani che non
volevano imboscarsi e tanto meno chinare la testa, si aggiunsero a noi -
ricordava Isotta Gaeta -. Il nostro territorio comprendeva i molti comuni in
cima alle colline: Lu monferrato, Cuccaro, Viarigi, Fubine, Vignale,
Campagna, San Salvatore. Cominciammo coi distaccamenti nelle varie località
mentre si moltiplicavano le azioni sollecitate dalle altre formazioni già
impegnate negli scontri con il nemico. Io e mia madre ci spostammo a Lu
monferrato, un paese alto sulla collina, con una splendida villa sulla valle
che permetteva di individuare le colonne dei rastrellamenti. Quello divenne
il nostro distaccamento e io presi possesso di una cantina con grandi botti
di vino dove si nascondevano le armi e una macchina da scrivere Olivetti M40
che doveva servirmi a battere i volantini con gli appelli e i messaggi alla
popolazione. Mi insegnarono subito a sparare e mi consegnarono un moschetto
'91 lungo quasi quanto me, che non ho mai usato, e una Beretta calibro 9.
Cominciò cosi un'attività frenetica che mi coinvolse nel lavoro di
collegamento e di raccolta delle informazioni sui movimenti del nemico,
necessario per avviare i sabotaggi e gli interventi sulle colonne tedesche e
fasciste. Spesso mi spostavo in bicicletta, a volte conducevo un calesse
aiutata da due ragazze entrate nella brigata, figlie di contadini del luogo.
Potevamo trasportare armi e materiale vario e servire da supporto per gli
spostamenti dei combattimenti. Ogni volta che riuscivo a stabilire un
contatto o a passare un posto di blocco senza farmi prendere ero fiera e
felice perché ero riuscita a vincere la paura che, a volte, mi faceva
tremare i polsi. Dovevo trovare il coraggio in me stessa e non era facile.
Come dice una bella canzone di Italo Calvino 'l'eroismo non è sovrumano'. Ma
la speranza di un mondo più giusto, più libero e lieto mi sosteneva e mi
dava forza. Il cibo non ci mancava perché i contadini erano generosi con noi
che ricambiavamo proteggendoli e, a volte, aiutandoli nei lavori dei campi e
dei vigneti. Quello che mancava erano piuttosto le armi pesanti, i fucili
mitragliatori, le munizioni e le bombe a mano che riuscivamo a recuperare
assaltando caposaldi nemici o facendo irruzione nelle caserme. Nei momenti
difficili, durante i massicci rastrellamenti facevamo leva sull'unità
d'azione con diverse formazioni garibaldine ma anche delle Matteotti, di
Giustizia e Libertà; più complicato era collegarsi con gli Autonomi che si
defilavano nonostante i proclami del CLN e del CVL. Ma gli autonomi erano i
soli ad avere rapporti con la missione alleata nelle Langhe che poteva far
intervenire gli aerei per i lanci e per i bombardamenti che potevano
consentirci di rompere l'accerchiamento di tedeschi e fascisti durante i
conflitti. Quindi l'unità era essenziale".
"L'inverno del '44 fu il più duro, rigido e terribile - sottolineava Isotta
Gaeta -. Le armate nazifasciste si erano rafforzate e attaccavano con forza,
mentre veniva meno il sostegno alleato alla Resistenza: il generale
Alexander emise un proclama per invitarci a desistere momentaneamente dalla
lotta per aspettare tempi migliori. Sentimmo il messaggio diffuso da Radio
Londra ma non ci scoraggiammo e cosi avvenne per le altre formazioni con le
quali eravamo in contatto. La lotta continuava, le vecchie cascine che
avevano trasformato in caserme continuarono ad ospitarci e la gente continuò
ad aiutarci. Fu proprio in quel periodo che inventai una specie di rassegna
stampa. Avevo pensato di ricavare le notizie con gli echi della vita
partigiana e della guerra dai giornali clandestini che ricevevamo dalle
città e dalle formazioni e che riassumevo nelle pagine che battevo a
macchina e trasformavo in volantini da distribuire con l'aiuto del Fronte
della gioventù. Sono cominciate così, nel fuoco della lotta, le mie prime
esperienze di giornalista. I primi caduti vicini a noi furono i 27 fucilati
di Valenza. Erano i fratelli Lenti del distaccamento di Camagna che caddero
in un'imboscata e morirono tutti insieme. Altri morirono in azioni diverse,
altri riuscimmo a liberarli, ma dovevamo continuamente confrontarci con la
morte. L'esercito di Salò era implacabile e la feroce barbarie nazista non
ci dava tregua. Poi venne la liberazione. Quei luminosi giorni di aprile
erano il nostro riscatto, finalmente potevamo riprenderci la vita. Il nostro
comando si era trasferito a Montemagno dove si raggruppavano altre
formazioni e da lì scendemmo ad Alessandria dove occupammo una caserma,
circondati dai tedeschi asserragliati nei loro rifugi perché non volevano
arrendersi. Fino al 29 aprile furono giorni terribili, con la paura di
essere caduti in una trappola. I fascisti della divisione S. Marco si
arresero ma i tedeschi non mollavano mentre gli scontri a fuoco continuavano
alla periferia di Alessandria per bloccare la pericolosa ritirata delle
colonne tedesche verso il Brennero. Infine, con la trattativa guidata da
Giuseppe Longo Presidente del CLN, il generale tedesco Hildebrandt firmò la
resa. La guerra era finita, Alessandria si era liberata con le sue stesse
forse senza l'intervento straniero. Finiti gli eccidi, i massacri, le
fucilazioni, le deportazioni, le torture, i bombardamenti. In quei venti
mesi indimenticabili io ero cresciuta, avevo conosciuto il coraggio, il
sacrificio, la generosità, la solidarietà. Quei combattenti degli strani
nomi di battaglia erano diventati i miei amici più cari. A Torino non
ritrovai tutti quelli che avevo lasciato. Gaspare Paletta era caduto
combattendo nell'Ossola; Antonio Merlo era perito nel far saltare un ponte;
Luigi Capriolo, l'umile falegname antifascista, divenuto comandante
partigiano, fu impiccato dai nazisti; Vera e Libera Arduino erano state
stuprate, uccise e gettate nella Pellerina; a mio cugino Anselmo avevano
strappato le unghie, prima di fucilarlo nel cimitero di Asti. Altri erano
stati deportati e non tornarono. Mio padre, invece, liberato dal carcere di
Mantova dove attendeva di essere fucilato. Finalmente poteva fare i conti
con il fascismo. Si concludeva il nostro secondo Risorgimento, si aprivano
nuovi scenari nell'Italia liberata. Se ripenso a quella nostra storia, cosi
drammatica e cosi appassionata, cosi viva nel ricordo anche dopo tanti anni,
mi ripeto le parole che il giornalista francese Gabriel Peri pronunciò
mentre lo conducevano alla morte, sul Mont Valerian: 'E se fosse da rifare,
lo rifarei"'. (VELINO)