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Stampa

La7. Antonello Piroso:
“Walter Tobagi. Giornalista”


Walter Tobagi. Giornalista. Si intitola così lo Speciale di Omnibus - andato in onda venerdì 4 settembre – dedicato all'omicidio dell'inviato del Corriere della Sera avvenuta in una fredda mattina del maggio 1980. Antonello Piroso torna ad occuparsi di una drammatica vicenda del nostro passato, quella di un uomo linciato moralmente per le sue idee innovative sul sindacato dei giornalisti e giustiziato per la sua analisi impeccabile del terrorismo rosso negli anni di piombo. «Fu il primo a parlarne - ricorda Piroso - già addirittura nel ‘72 quando tutti preferivano parlare di “sedicenti” Br». Piroso ammette di avere il «vizio della memoria»: «È diventato un vizio - dice - da quando questo Paese preferisce vivere senza conoscere il suo passato». Così è nata questa sorta di trilogia: «Calabresi, Tortora e Tobagi sono tre casi di vittime di un linciaggio in vita, uomini rimasti soli, cui fu fatto il vuoto intorno. Storie emblematiche del clima d’intolleranza di quegli anni, che è importante non dimenticare perchè ci parla anche dell’oggi. Come diceva proprio Tobagi, «il giornalismo democratico non è soltanto quello che scrive ciò che pensiamo”».  La trasmissione è suddivisa in 5 parti….


I parte - http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=specialiomnibus&video=30099


II parte- http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=specialiomnibus&video=30375


III parte – http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=specialiomnibus&video=30376


IV parte – http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=specialiomnibus&video=30377


V parte - http://www.la7.it/approfondimento/dettaglio.asp?prop=specialiomnibus&video=30378


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Fnsi e Ordine nazionale propongano che la trasmissione di Antonello Piroso, dedicata a Walter Tobagi, sia  diffusa in tutte le scuole italiane. Per non dimenticare.


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(Antonello Piroso, direttore del Tg di La7, è un ex-allievo dell'Istituto "Carlo De Martino" per la Formazione al Giornalismo)


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Perché rivango la storia di Tobagi e del Corrierone


Non pensavo che l’annuncio della ricostruzione


che sto per fare dell’omicidio suscitasse tanto allarme


di Antonello Piroso - per "Il Riformista" del 28 agosto 2009


Strano. Non pensavo che l’annuncio della ricostruzione che mi accingo a fare dell’omicidio di Walter Tobagi (a Dro, nell’ambito delle giornate di studio che vanno sotto il nome di “VeDrò”, e che La7 trasmetterà venerdì 4 settembre in prima serata) potesse suscitare tanto interesse… in chiave negativa.


Mi è arrivato più di un segnale in tal senso. E, ca va sans dire, in modo obliquo. Esisterebbero soggetti che avrebbero esternato dubbi di tal fatta: «Ma perché andare a rivangare una storia di quasi trent’anni fa?». «Il trentennale cade l’anno prossimo, perché non aspettare le celebrazioni ufficiali?». «Ma non si vorrà tirare fuori di nuovo la storia dei mandanti, che si sarebbero annidati dentro al Corriere della Sera?». «Non è che Piroso vuole togliersi qualche sassolino nei confronti del sindacato dei giornalisti?». Eccetera.


Ah, che meravigliosa corporazione è quella a cui appartengo (sono iscritto all’Albo, ma non al sindacato: un cretinetto voleva chiedere la mia espulsione dal medesimo non avendo io versato le quote annuali dal 2004, non sfiorandolo nemmeno il sospetto che se uno non rinnova l’iscrizione ad un club evidentemente è perché non vuole più farne parte). Ci si preoccupa “a prescindere”, come avrebbe detto Totò. Dimostrando che si può avere ancora paura dell’esempio morale e professionale di Tobagi.


Allora, vi sottopongo qualche chiarimento di carattere generale.


1. Non intendo emulare né Paolini né Celestini nè Lucarelli: sono attori, scrittori, artisti che hanno una “cifra” a me purtroppo ignota. Sono un giornalista: mi limito a leggere documenti, atti, saggi e a mettere in fila i miei dubbi e le mie perplessità. Sul caso Tobagi ne ho parecchie.


2. Non ho mai inteso, con queste narrazioni, prendere posizione in quanto “direttore di testata”, o di usare spazi di riflessione su vicende vergognose del nostro passato prossimo per saldare eventuali conti personali (con chi, poi?). È vero: nel 1998, quando fui licenziato in tronco dal settimanale mondadoriano Panorama per aver rifiutato un trasferimento “punitivo”, né il sindacato interno né quello esterno proclamarono un minuto di sciopero nè fu indetta la canonica, inutile assemblea. Ma, grazie a Dio, non so cosa sia il risentimento: sono uscito dal sindacato 6 anni dopo, un po’ troppi per definire la mia decisione una miserevole vendetta “a posteriori”.


3. La storia di Tobagi interseca necessariamente quelle del Corrierone e degli anni di piombo, con il carico di segreti, veleni, bugie, ambiguità e mezze verità che esse si portano dietro.


4. Che negli anni Settanta il Corriere fosse come “cogestito” dalla Direzione e dalla rappresentanza sindacale non è una novità né una bestemmia. Basterebbe ricordare cosa è successo quando esplose il “caso Passanisi” (lo so, vorreste saperne di più, ma dovrete vedere il programma per capire questo riferimento). O quando il Corriere non pubblicò la foto del terrorista che spara a mani giunte in via De Amicis a Milano, nel pomeriggio in cui morì il vicebrigadiere della Celere Antonino Custra (foto che, mi ha raccontato Angelo Rizzoli, all’epoca editore della testata, pubblicò invece il Corinf, come veniva chiamato dai giornalisti il Corriere d’Informazione, in cui transitò Tobagi tra il 1972 e il 1976, e lo stesso attuale direttore del Corriere, Ferruccio De Bortoli). Oppure, basterebbe evocare il famoso Statuto Ottone, che accordava una serie di diritti ai singoli e alle redazioni, che naturalmente si aggiungevano a quelli già previsti da leggi e contratti. O ancora, il titolo del Corriere della Sera del 3 giugno 1977, il giorno dopo la gambizzazione di Indro Montanelli, il cui nome va cercato con il lanternino.


5. Il sindacato al Corriere (sì, lo so, dovrei dire: il “comitato di redazione”, ma – da giornalista – posso confessare che l’assonanza dell’espressione con quella di “comitato di fabbrica” ha sempre avuto, per me, un vago sapore parasovietico? Del resto Eugenio Montale, collaboratore del Corriere e non proprio un reazionario, nel riferirsi a via Solferino sentenziava: «C’è un soviet, là dentro») ha avuto un nome e cognome: Raffaele Fiengo, che i giornalisti del Corriere hanno scelto a loro rappresentante per quasi trent’anni. Ma nemmeno questa è una notizia, mi pare. Semmai, la novità è stato apprendere quanti articoli avesse scritto Fiengo negli anni in cui si radicava il “fienghismo” (con l’obiettivo di tutelare i diritti dei colleghi, ovvio). Massimo Fini, amico di Tobagi e di Franco Abruzzo – insieme diedero vita alla corrente di Stampa Democratica che spaccò il sindacato, insieme i loro nomi furono trovati nei covi dei terroristi, che li avevano scelti a loro bersaglio – azzardò un numero: «Nemmeno una riga». Si beccò una querela da Fiengo, che vinse in giudizio perché potè agevolmente dimostrare di aver scritto ben più di una riga e ben più di un articolo nella sua onorata carriera. Per la precisione, 53 (l’ho scoperto leggendo il bel libro di Michele Brambilla, “Sempre meglio che lavorare”, sul mestiere di giornalista; Brambilla ha per me anche il merito di aver scritto nel 1991 “L’eskimo in redazione”, un libello sul conformismo della corporazione che si ostinava a definire le Brigate Rosse “sedicenti”, ritenendole composte da fascisti sotto mentite spoglie; rare le eccezioni: Tobagi, per l’appunto, e Giampaolo Pansa). 53, dunque. In quasi trent’anni.


Scusate, ma quanti articoli avrebbe scritto Tobagi, quali brillanti analisi se non lo avessero giustiziato sparandogli alle spalle? (in: http://www.ilriformista.it/stories/Italia/80416/)


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La Stampa del 6/9/2009


Tobagi, il giornalismo, i giornalisti


di Alessandra Comazzi


Antonello Piroso su La7 ha ricordato Walter Tobagi, giornalista. E lo ha fatto con uno speciale, il terzo di una «trilogia» le cui prime parti sono state dedicate a Enzo Tortora e Luigi Calabresi. Uno speciale che era nello stesso tempo giornalismo e affabulazione, ricostruzione e interpretazione. E a Piroso, solo in scena per due ore, neanche fosse Paolini, bisogna riconoscere la capacità di raccontare con vivacità un pezzo d'Italia. L'Italia di allora (Tobagi fu ucciso nel maggio 1980), ma anche l'Italia di oggi. Parlando di giornalismo. Nella consapevolezza che sia difficile parlarne seriamente. Interessano odi e folclore, ma è come se del lavoro vero non importasse niente a nessuno. E i giovani che lo vogliono fare, credono che sia un'altra cosa. Persino le fiction con i giornalisti non vanno bene. Né, d'altronde, sappiamo girare «Tutti gli uomini del presidente» o «State of Play». Così Piroso ha parlato dell'assassinio di Tobagi, anche sindacalista (era presidente dell'Associazione Lombarda) in modo molto schietto, aperto, descrivendo l'ambiente di allora (mica tanto formidabili, quegli anni) e anche quello di adesso. Un programma così non poteva non tenere conto degli ultimi fatti. Pur dichiarando di non voler entrare nel merito delle polemiche, nel merito del nostro mestiere Piroso è entrato, con molte letture e nolte citazioni: un mestiere che non dovrebbe essere «la prosecuzione della lotta politica», che non dovrebbe aver paura di andare controcorrente. Tobagi rivendicava soprattutto autonomia: e la necessità di non portare paraocchi né avere idee precostituite.  (in http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/giornalisti/hrubrica.asp?ID_blog=94)


 



 







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