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IL SOLE 24 ORE 13/5/2009
Diritti dell'uomo. Tutela
per la libertà d'espressione.
Giornalisti mai in carcere

Per la Corte europea, il carcere, previsto nei casi di diffamazione negli ordinamenti interni, ha un effetto deterrente sulla libertà del giornalista di informare, con effetti negativi sulla collettività che ha, a sua volta, il diritto di ricevere informazioni.

di Marina Castellaneta


No al carcere per i giornalisti perché le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione garantita dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Anche quando, nella prassi, il carcere è convertito in ammende pecuniarie e la pena è sospesa. Lo ha affermato la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza del 2 aprile 2009 (ricorso n. 2444/07, Kydonis), con la quale la Corte ha condannato la Grecia per violazione dell'articolo 10 della Convenzione che garantisce la libertà di espressione, obbligandola a risarcire i danni materiali e morali al giornalista ritenuto colpevole di diffamazione. Per la Corte europea, il carcere, previsto nei casi di diffamazione negli ordinamenti interni, ha un effetto deterrente sulla libertà del giornalista di informare, con effetti negativi sulla collettività che ha, a sua volta, il diritto di ricevere informazioni.


La detenzione – precisa la Corte – può essere ammessa solo in casi eccezionali, quando il giornalista incita alla violenza o all'odio. Negli altri casi, fa capire Strasburgo, la previsione del carcere, seppure solo a livello legislativo, senza un'applicazione diffusa della misura detentiva, «è suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa», impedendo «la partecipazione alla discussione su questioni che hanno un interesse generale legittimo». In pratica, se nell'ordinamento interno è stabilito il carcere nei casi di diffamazione, come avviene in Grecia che ha una norma analoga all'articolo 595 del codice penale italiano, è certa la violazione della Convenzione perché la misura è sproporzionata.


Alla Corte europea si era rivolto un giornalista greco condannato per diffamazione dai tribunali nazionali a una pena di cinque mesi, poi convertita in un'ammenda, per aver scritto alcuni articoli critici su un uomo politico. Una condanna ingiustificata e contraria alla Convenzione europea. Prima di tutto – hanno osservato i giudici internazionali – perché gli articoli non contenevano insulti personali e riguardavano questioni di grande interesse per la società locale, su un uomo politico che è una persona pubblica e deve quindi tollerare articoli anche critici. Al giornalista poi deve essere concessa «una certa dose di esagerazione e di provocazione», soprattutto nei giudizi di valore.


Ma c'è di più. Per Strasburgo, i giudici nazionali hanno sbagliato perché non solo non hanno preso in considerazione l'interesse a diffondere informazioni anche scomode, ma «in modo sorprendente», hanno riversato l'onere della prova sul giornalista e sull'editore che, secondo i tribunali nazionali, dovevano dimostrare l'interesse alla pubblicazione dell'articolo incriminato e invocare espressamente la libertà di espressione.


La Corte ha anche bocciato l'operato dei colleghi greci che non hanno valutato l'assoluzione dal reato di calunnia pronunciata da altri tribunali nei confronti di una persona che aveva riferito questioni analoghe a quelle poi scritte dal giornalista considerato colpevole.


 


 


 





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