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Il Fatto Quotidiano Venerdì 9 Giugno 2023 Pagina 16 - LA MORTE DEL MIO AMICO WALTER: LA LAMA DELLA VERITÀ.

DI MASSIMO FINI

Ho ascoltato tardivamente lo ‘speciale’ che Minoli ha dedicato qualche giorno fa a Walter Tobagi, assassinato nel maggio di 43 anni fa dalla Brigata XXVIII Marzo.Minoli non gode di buona stampa presso Il Fatto che non gli perdona, credo, di esser stato craxiano e forse, e ancor più, di essere sposato con Matilde, la figlia di Ettore Bernabei che è stato il miglior dirigente della Rai. Certo la sua era una conduzione ‘dirigista’ ma di alto livello, poi venne il “pluralismo”, col saccheggio della Rai a opera dei partiti e le tv di Berlusconi a dimostrazione che la concorrenza non migliora il prodotto. Minoli ha quindi usufruito di corsie preferenziali, ma ciò non toglie che sia un ottimo giornalista, che fa inchieste non talk, come dimostra anche questo suo speciale su Tobagi che in alcuni passaggi è, oso dire, commovente. Io ho attraversato con Tobagi quella stagione di sangue e di criminali idiozie. Quando arrivai all’Avanti Tobagi se n’era già andato all’Avvenire, per lui non era una incongruenza perché Walter era uno strano incrocio catto-socialista. Conobbi quindi Tobagi quando lavorava per l’Avvenire e poi in seguito quando entrò nel Corriere d’Informazione e quindi approdò come cronista ed editorialista al Corriere. Ciò che ci univa è che eravamo diversissimi di carattere. Io ero inquieto, irrequieto, spavaldo, sbruffone. Walter era quieto, riflessivo, prudente. C’è una bella foto, dove non so in quale riunione, io indosso un maglione guatemalteco, tipo Tupamaros, e lui è impeccabile in giacca e cravatta. Quante volte, la notte, mai sazi di chiacchiere salivo a casa sua a svaligiare il frigo per la disperazione di Stella, la moglie. Con Tobagi eravamo uniti anche nell’attività sindacale. Nell’Associazione lombarda dominavano i giornalisti filocomunisti del Corriere, i Fiengo, i Pantucci, i Morganti. Noi, Tobagi, io e Ciccio Abruzzo, pensammo di costituire una corrente alternativa, “stampa democratica”. Due erano i nostri obiettivi. Ridare il sindacato ai giornalisti che facevano i giornalisti sottraendolo ai professionisti del sindacato. L’altra era quella di togliere il potere ai giornalisti filocomunisti del Corriere. Preparammo una mozione che sfiduciava il presidente della Associazione lombarda dei giornalisti, Fioramonti, socialista anche lui ma alleato con i comunisti. La sera di quella sfiducia che prevedeva un’alleanza con i “fascisti” di Autonomia, Walter girava e rigirava la mozione tra le sue mani grassocce. Tentennava. Si rendeva conto che quell’atto implicava delle conseguenze, anche piuttosto gravi. Come minimo ci avrebbero dato dei “fascisti” come poi avvenne. Finché io, stufo, gli strappai il foglietto dalle mani e dissi: “Presidente, c’è una mozione mia e di Tobagi”. E così Tobagi divenne presidente dell’Associazione lombarda e quindi nel suo doppio ruolo di editorialista del Corriere e di presidente della Lombarda era doppiamente esposto ai terroristi. Poco dopo in un covo di Prima Linea furono trovati i nomi di Tobagi, mio e di Ciccio. A Tobagi, il più esposto, fu proposta una scorta che rifiutò. La sera del 27 maggio ci trovavamo insieme, Tobagi e io, a un dibattito al Circolo della Stampa sul tema dal titolo molto attuale: “Libertà di stampa e segreto istruttorio”. Poi, poiché abitavamo vicini e oltretutto a Walter non piaceva guidare, lo riaccompagnai a casa come avevo fatto tante altre volte. Sono stato l’ultimo a veder vivo Tobagi a parte la moglie Stella. Mai sazi restammo per più di un’ora a chiacchierare davanti a casa sua. Walter mi disse che da un mese aveva rallentato le sue inchieste sul terrorismo. “Sai, non voglio morire per questi qua”, intendendo il direttore del Corriere, Franco Di Bella, e Gaspare Barbiellini Amidei. Cadeva una pioggerellina leggera. Pensai che eravamo davvero imprudenti a restare immobili, bersagli fissi, davanti a casa sua, di notte. Ebbi l’impulso di voltarmi e di scrutare se c’era qualcuno. Ma non lo feci per non spaventarlo e non spaventarmi. L’ultima immagine che ho di lui è che armeggia con le chiavi davanti al bel portone di legno di via Solari 5. Poi andai a dormire. Ero in uno dei miei periodi di disoccupazione. Mi svegliò la telefonata di un amico, Gianfranco Vené, che mi ringraziava per un piccolo favore. Aggiunse: ma con quel che è successo queste sono davvero piccole cose. “Che cos’è successo? ”, chiesi stupito. “Ma come non lo sai? Hanno ucciso Walter”. Uscii e mi precipitai verso la casa di Tobagi e qui vidi una delle scene più inguardabili. I giornalisti che più gli erano stati avversi lacrimavano come fontane mostrando le occhiaie rosse di pianto. Ma il peggio avvenne ai funerali, in pompa magna, barocchi, con Rolls Royce, così contrari alla pudicizia di Walter. Oriana Fallaci, che non aveva mai visto Tobagi in vita sua, si stringeva al braccio di Tassan Din per sottrarre al morto la parte di protagonista. Quindi venne l’insopportabile retorica del “cronista buono”. Tobagi era un buon cronista che è cosa diversa, aveva anche lui i suoi bravi artigli e all’Avvenire era chiamato il “viperotto” in contrapposizione a Corrado Incerti, la “mangusta”. Al Corriere si era sempre respirato un clima di odio verso Tobagi e, in Rizzoli, verso di me. Nacque la tesi – sposata anche da Minoli – che Barbone e Morandini avevano coperto i mandanti che andavano cercati fra i giornalisti pseudo-comunisti del Corriere. Tesi insostenibile. Innanzitutto in linea logica perché in regime di legislazione premiale Barbone e Morandini avevano tutto l’interesse a denunciare dei mandanti, se ci fossero stati. In secondo luogo è vero che al Corriere c’era quel clima d’odio verso Tobagi, ma i Fiengo and Company erano delle tali amebe che mai si sarebbero implicati in un omicidio. Fu soprattutto Craxi a cavalcare questa tesi. L’anno seguente la morte di Tobagi mi trovavo al Circolo della Stampa per onorare la memoria di Walter. Incrociai sulla stretta porta di uscita Craxi, che mi disse: “Sbagli a scrivere quello che scrivi”. “No, sei tu che sbagli”. Scendemmo nel cortile del Circolo e continuammo a parlare della morte di Tobagi e dei possibili mandanti. La piccola folla di seguaci di Craxi se ne stava a rispettosa distanza. Chiesi a Bettino che cosa avesse in mano. Una fumosissima confidenza del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Insomma fuffa. Quando lasciai Bettino accadde una cosa curiosa. Socialisti che non mi salutavano da anni mi si fecero incontro con attuzzi e moine, nella loro mente di servi pensavano che fossi tornato nelle grazie del Capo. In seguito la polemica con Craxi divenne rovente, non solo per quella storia di Tobagi, ma perché aveva finito per circondarsi di yesman e “nani e ballerine” come le definì compagno Formica, che gli avevano tolto quel contatto con la realtà e quell’istinto politico che era stata la sua forza. Dall’America Craxi mi definì un “giornalista ignobile che scrive cose ignobili”. Ma qui inizia un’altra storia che riguarda la decadenza di Bettino, i miei rapporti con la figlia Stefania, che vi racconterò un’altra volta.


 





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