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La Repubblica Sabato 27 Maggio 2023 Pagina 30 - A cento anni dalla nascita PERCHÉ DOBBIAMO IMPARARE ANCORA DA DON MILANI.

DI VANESSA ROGHI

Se volessimo trovare dei momenti che hanno segnato la storia della scuola e di come se n’è parlato, uno di questi sarebbe, senza dubbio, la pubblicazione di Lettera a una professoressa (LEF, 1967). Il libro di don Lorenzo Milani, che nasceva il 27 maggio di cento anni fa, e dei suoi allievi di Barbiana agì sulla lingua di chi si occupava di scuola come pochi altri testi prima di allora. Forse soltanto Pinocchio o Cuore erano paragonabili alla Lettera per le categorie e i personaggi che avevano fatto precipitare, allo stesso tempo, nel gergo degli studiosi e nella cultura di massa. Al pari di Lucignolo o Franti, i protagonisti della Lettera, Gianni figlio di contadini e Pierino figlio del dottore, diventarono figure a cui riferirsi in ogni intervento sulla scuola, progressista o reazionario che fosse. Di Gianni e Pierino parlavano la televisione, i giornali, le ricerche di filologi e sociologi e persino gli psichiatri. Gianni Rodari rese omaggio alla Lettera quando in Grammatica della fantasia (1973) scrisse: «tutti gli usi della parola a tutti, mi sembra un bel motto dal bel suono democratico non perché tutti siano artisti ma nessuno sia schiavo» riecheggiando, così, l’idea milaniana che l’istruzione non serva a far diventare tutti “dottori” ma cittadini sovrani. Per questa disseminazione lessicale si poté pensare che l’effetto Barbiana avesse modificato la scuola in modo strutturale. In realtà la scuola sarebbe cambiata nel complesso assai poco fra il 1967 e il 1977, come dimostrano le indagini sociologiche dei tardi anni Settanta. Furono semmai l’abolizione del voto numerico e delle classi differenziali del 1977 e poi la riforma del 1979 e quella del 1985 a rinnovare l’insegnamento e dare una risposta ai tanti problemi incontrati da docenti preparati a insegnare a pochi e che si erano trovati di fronte la scuola di massa alla quale avevano reagito, spesso, con l’unico strumento che avevano a disposizione, bocciando. Lettera a una professoressa lo metteva in luce e anche per questo suo essere risposta contingente a un problema reale, e non manifesto astratto, influenzò molti insegnanti che decisero di fare scuola («c’erano i grafici, e i dati, cose immaginate erano ora tangibili» ricorda Vittoria Gallina, già professoressa al Liceo Tasso di Roma). Ci furono certo letture meno raffinate, chi prese il testo di don Milani come un manuale su “come fare scuola” da un lato, e chi lo lesse come un manuale su come non farla, dall’altro. I secondi sono ancora fra noi. Intellettuali, studiosi, insegnanti, impegnati a ricordare, da decenni ormai 1) che don Milani era un prete, per giunta burbero, che non disdegnava i metodi autoritari, e diceva pure le parolacce. Come poteva essere un modello per la scuola democratica? 2) che per colpa del “donmilanismo” la scuola italiana aveva smesso di bocciare e addirittura di insegnare i classici della letteratura e quindi il danno scolastico di oggi viene proprio da lì, complice Tullio De Mauro, esecutore del progetto milaniano di demolizione della scuola “seria”. Una scuola vagheggiata che non sappiamo bene dove si colloca nel tempo (prima della riforma delle scuole medie nel 1962, prima del Sessantotto, prima della riforma Berlinguer), età dell’oro, perduta per sempre. Per gli entusiasti, così come per i critici, la Lettera era ed è da accogliere o rifiutare in blocco. Sugli entusiasti il ritratto di Domenico Starnone in Ex cattedra (1987). «Avevo smesso da poco d’essere ragazzo e perciò sapevo come sono i ragazzi: malvagi. Ma avevo letto don Milani e progettavo di essere non come la professoressa della Lettera, bensì come lui: però prete no. Solo rivoluzionario ed esperto in nomi degli alberi (mai dire: sali su quell’albero: sempre determinare: sali su quel ciliegio), in modo da fare bella figura con i miei allievi di campagna». Starnone si riferiva al passaggio di Lettera a una professoressa nel quale i ragazzi scrivevano che gli insegnanti ignoravano la loro cultura, la cultura contadina. Mentre il protagonista del libro di Starnone non vedeva l’ora di chiedere loro i nomi degli alberi per dimostrare la sua competenza in materia, salvo poi scoprire che a quei ragazzi dei nomi degli alberi non importava niente, perché cambiando i ragazzi cambiavano anche le loro domande e quindi le risposte. Non che nella Lettera questo non fosse detto chiaramente: «la pedagogia così com’è io la leverei. Ma non ne son sicuro. Forse se ne faceste di più si scoprirebbe che ha qualcosa da dirci. Poi forse si scoprirà che ha da dirci una cosa sola. Che i ragazzi son tutti diversi, son diversi i momenti storici e ogni momento dello stesso ragazzo, son diversi i paesi, le famiglie. Allora di tutto il libro basterebbe una paginetta che dicesse questo e il resto si potrebbe buttar via. A Barbiana non passava giorno che non s’entrasse in problemi pedagogici. Ma non con questo nome. Per noi avevano sempre il nome preciso di un ragazzo. Caso per caso, ora per ora». Non un manifesto ma una forte indicazione di metodo da tenere a mente insieme a un’altra che rende comprensibile oggi l’opera di don Milani che era un prete e quando parlava di recuperare gli ultimi attraverso la parola sapeva bene di solcare una tradizione antica quanto il Vangelo. Recuperare gli ultimi alla polis era, da cristiano, il suo obiettivo più importante. Sul come farlo possiamo ancora discutere, sulla necessità di farlo, no. E questo rimane il suo lascito più radicale, ieri come oggi.


 





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