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La Stampa Sabato 13 Maggio 2023 Pagina 29 - il riconoscimento - LA SFIDA DEI GIORNALI NELL'ERA DEGLI ESTREMISMI. GIANNINI: SI RACCONTA DAL CAMPO, MAI DALLE CURVE. DAGLI SPECIALI DEDICATI ALL'IRAN E ALL'UCRAINA ALLE PRIME PAGINE SUL COVID. Tre motivazioni per il "Premio Montale Fuori di casa" assegnato al direttore della Stampa: la raccolta firme sull'Iran, la difesa della scienza durante il Covid e l'impegno per la pace.
di FRANCESCO SPINI
Milano - L'«intransigenza» durante la pandemia a difesa dei «vaccini, i green pass e i lockdown da tutte le superstizioni e le pulsioni antiscientifiche esplose sul web». La «linea rigorosa» seguita nella guerra in Ucraina «raccontando con sincerità i crimini di Putin, ma rilanciando sempre la via della pace». La difesa «con rigore» del diritto di informazione dei cittadini «facendo sì che ogni notizia che possa essere di pubblico interesse venga trasmessa nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza delle fonti». E ancora: l'impegno civile con la raccolta delle 300 mila firme per l'appello affinché il governo iraniano rilasciasse Fahimeh Karimi, l'allenatrice di pallavolo e madre di tre bambini piccoli detenuta e condannata a morte, simbolo dell'oppressione del regime degli ayatollah sulle donne. Sono tra le motivazioni del "Premio Montale Fuori di casa" per la sezione Giornalismo - Direttori di quotidiani consegnato ieri dalla presidente Adriana Beverini a Massimo Giannini. «Un riconoscimento - afferma il direttore di questo giornale - al lavoro di tutti i giornalisti e i collaboratori de La Stampa, perché il giornale è un'opera viva e soprattutto collettiva. Ci accompagna nelle nostre giornate, è la hegeliana preghiera laica del mattino, ma ci fermiamo poco a pensare a quanto, per un prezzo così piccolo, ogni giorno offriamo alla nostra comunità di lettori: 40 pagine e più, frutto del lavoro immane di tanta gente, in un rilevante esercizio di passione e sforzo di pensiero». E un premio come quello dedicato al poliedrico intellettuale, poeta ma anche critico e giornalista - in passato andato a direttori come Paolo Mieli, Ferruccio de Bortoli, Luciano Fontana e Marco Tarquinio - inevitabilmente porta al dibattito sul giornalismo di oggi, in cui la verità, sempre più spesso, come nota Mariangela Guandalini, consulente culturale del Premio durante l'intervista pubblica a Giannini alla Biblioteca Sormani di Milano, sovente appare stravolta o maneggiata a seconda di chi la scrive. «È un problema da un lato del potere economico e soprattutto politico che, da sempre, tenta di manipolare l'informazione: lo vediamo oggi con la Rai, lo abbiamo visto in passato. Ma dall'altro è anche il problema di un giornalismo che troppo spesso si lascia manipolare», risponde Giannini. La categoria non può essere esente da critiche: «Man mano che nel tempo in Italia la politica ha accentuato i profili di radicalizzazione in ottica bipolare, sempre più troviamo giornalisti che decidono di non piazzarsi in mezzo al campo per capire e raccontare con i fatti ciò che accade, ma che prendono posto nelle curve: chi a destra, chi a sinistra. Un errore madornale a cui molti colleghi si sono prestati e che ha contribuito a delegittimare il ruolo di noi giornalisti, non più interpretati come strumenti di mediazione tra il lettore e il potere, ma diventati giocatori». E questa, afferma, «è la malattia del giornalismo: nuoce alla professione e intacca la qualità della democrazia». La politica si divide, la verità risulta sempre più opinabile, l'informazione rischia di perdere autorevolezza. «Tutto ciò rende oggi più che mai necessario un giornalismo serio e responsabile». Un problema che c'è in Italia ma coinvolge i Paesi dove aumenta il tasso di autoritarismo dei governi, senza escludere l'Occidente. «Abbiamo visto Trump negli Stati Uniti, vediamo Orban in Ungheria, Morawiecki in Polonia, per non parlare di Erdogan in Turchia. La prima cosa che fa chi va al governo è comprare o chiudere televisioni, comprare o chiudere giornali». Non parliamo del precariato da cui anche il giornalismo non è esente, che «in un futuro corre il rischio di trasformare i giornalisti in nuovi schiavi, anche del potere». E nel tempo poteri più o meno forti hanno imparato come alzare la pressione sull'informazione. «Un tempo il giornalista che criticava questo o quel potentato riceveva una querela per diffamazione, si difendeva e quasi mai andava in carcere. Oggi il potere ha capito che soprattutto i gruppi più deboli, quelli che hanno le spalle meno larghe, sono più vulnerabili e condizionabili di fronte a una causa civile, con richieste abnormi di risarcimento danni. Di fronte a cui gli editori con meno mezzi si vedono talvolta costretti a chiamare i direttori, invitandoli a richiamare i cronisti a darsi una calmata su questa o quella vicenda. È un pericolo mortale». Che porta la discussione al rapporto tra direttori ed editori. «Non ho remore a parlarne anche perché se non posso lavorare nelle giuste condizioni, lascio serenamente. E posso dire di essere fortunato. A Repubblica, dove ho passato 34 anni della mia vita lavorativa, ho avuto prima un editore-direttore-maestro come Eugenio Scalfari a cui poi si è aggiunto Carlo De Benedetti, che aveva interessi estesi ma ha sempre rispettato il patto di ferro siglato con Scalfari: mai mi è stato chiesto qualcosa. Alla Stampa, dove il 24 aprile ho festeggiato i 3 anni di direzione, con John Elkann ci sentiamo spesso e ci incontriamo con regolarità. Ma mai ha pronunciato una sola parola per condizionarmi. Sono fortunato. Ma credo di sapermi meritare sul campo il rispetto anche di chi mi paga lo stipendio»..
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