L‘1 dicembre di 16 anni fa moriva monsignor Andrea Spada, 96 anni, storico direttore per 51 anni del quotidiano ’l’Eco di Bergamo’. La morte avveniva a Schilpario, suo paese natale. A Bergamo, commemorazione martedì 1 dicembre nella Chiesa delle Grazie.
Andrea Spada, mito del giornalismo a detta di molti colleghi, leggenda vissuta nella realtà per chi, come il sottoscritto, gli è stato accanto per lunghi anni a ‘L’Eco di Bergamo’, la creatura tanto amata. Ricordandone le singolarità umane e professionali, devo sottolinearne - al di là della nitida e scultorea scrittura, di rara sensibilità, chiarezza e armoniosa bellezza di stile negli editoriali - l’impegno forte e generoso nell’assicurare certezza di continuità al giornale.
Furono anni duri quelli fra il ’60 e il’70, dei quali seppe tenere per sé – neanche la redazione ne fu mai informata - l’enorme sforzo personale segnato, nel silenzio operoso, da fondati timori di non farcela: confidando nella Provvidenza, che non gli mancò mai, e dedicandosi ad avvicinare al quotidiano persone giuste, capaci di dare fiato e spinta efficace in momenti critici, fece uscire ‘l’Eco’ dalle secche di una condizione preoccupante; e avviò ai successi nell’incremento costante degli abbonamenti e delle copie vendute. Rinacque un ‘Eco’ ad alto livello, anche grazie alle tecnologie offset.
Era tale il carisma da consentirgli non solo di essere il numero uno del ’suo’ giornale – lo era in modo indiscutibile, riconosciuto Maestro da colleghi autorevoli, in primis Indro Montanelli - ma da essere atteso dai lettori nel tradizionale appuntamento domenicale in prima pagina. Scriveva gli editoriali il pomeriggio del sabato, nel suo ufficio in fondo al lungo corridoio, nel silenzio totale della redazione; i suoi commenti avevano il dono del graffio cristiano-umano sulla realtà senza mai essere né tiepidi né confessionali. Così come gli elzeviri di terza pagina, preparatori - mirabili - della riforma liturgica e della Messa in italiano dopo il Concilio.
Un pizzico di ‘ bergamaschità’ convinta e mai nascosta e un animo sereno gli permettevano di entrare nel gusto della gente, con affetto. Sapeva come ‘fare il giornale’, badava ai titoli e alla qualità espressiva dei testi: raccomandava, negli incontri con i redattori e nelle lettere che ci inviava circa il comportamento sulla notizia, regina della informazione: ‘articoli secchi, scritti bene, completi, senza trionfalismi, fronzoli o astruserie pseudo letterarie’. Precisava: ‘come si fosse seduti al bar con amici e si narrasse un episodio di cui si è stati testimoni’. Il titolo, vera vetrin? Occorreva sentirlo dentro di sé ‘nel linguaggio semplice possibilmente solo con sostantivi’.
Si faceva accompagnare tutte le mattine da mio fratello Renato, capocronista, passeggiando in viale Roma con l’Eco sottobraccio ed evitando quanti lo riverivano (ne era infastidito) o lo complimentavano ( tagliava subito corto ) e da Renato si faceva raccontare la cronaca della vita cittadina, alla quale partecipava raramente, essendo riservato, da valligiano scalvino. Voleva bene a noi redattori, severo sul lavoro: a me è capitato più volte che mi telefonasse di mattino presto facendomi una risoluta (e meritata) ramanzina poiché aveva trovato articoli poco graditi o titoli non chiari nelle mie pagine. Poi mi invitava ad andare a pranzo con lui -‘a disnà - per sanare a tavola la situazione del rimarco.
Nell’oltre mezzo secolo di guida del giornale, recordman assoluto - dal 1938 (prima della guerra, durante la quale fu cappellano militare sommergibilista, lui nato in mntagna) sino al 1989 - ha lasciato testimonianze auree sulla professione del giornalista. Le esprimeva talvolta in dialetto: guardare, capire, scrivere senza enfasi, in buon italiano, essere testimoni mai protagonisti, leggere molto dei colleghi e rispettare tutti, lettori e notizia, con spirito cristiano. Quelle ‘regole’ restano ancora e sempre le mie.
AMANZIO POSSENTI