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Chi era Marcello Staglieno? Un doge del giornalismo. Primi appunti per un profilo bio-bibliografico. Un estratto del saggio pubblicato in “Gli Staglieno. Origini, ritratti e protagonisti di una storica famiglia patrizia genovese” .

di Diego Divano*

Se si fosse costretti a ridurre l’analisi della prosa, in particolare autobiografica, di Marcello Staglieno all’enumerazione di poche, semplici e immediate chiavi di lettura tali da offrirne un’iconica rappresentazione, la considerazione per la propria ascendenza familiare – che lo stesso scrittore soleva ricondurre, citando un vecchio articolo di una delle sue firme più amate, il concittadino Giovanni Ansaldo, addirittura alla figura del geografo Caio Elio Staglieno, tribuno della plebe vissuto nel I sec a. C – rientrerebbe senz’altro tra i primissimi elementi degni di menzione. Un orgoglio vivo e ponderato, non stancamente risolto in una narcisistica vanteria salottiera, ma sempre accompagnato dal senso di responsabilità di chi, erede di una lunga tradizione, sa di essere chiamato a impegnare tutto se stesso per ricordarla, tramandarla e, se possibile, nobilitarla attraverso la propria opera di uomo di cultura, di intellettuale, di cittadino.


Staglieno ha avvertito come pochi suoi contemporanei la potente fascinazione del passato, eleggendo la vena memorialistica a cifra complessiva e forse totalizzante del proprio esercizio letterario: scrittore di “memorie” e di “memoria” aveva preso coscienza dell’inestimabile valore della tradizione fin dai primi anni della sua giovinezza, lasciandosi attrarre e permeare dall’influenza esercitata dalle molte e importanti personalità che componevano il suo ricco e variegato universo familiare.


E proprio Genova, nella sua bellezza nascosta e inespugnabile, nell’austerità delle sue dimore signorili d’altri tempi, nella sdegnosa ostinazione che gli antichi quartieri sembravano opporre alle incursioni del progresso urbanistico e architettonico negli anni della ricostruzione postbellica, non poteva che rappresentare il punto di partenza ineludibile della riflessione memorialistica di Marcello Staglieno, nato il 17 dicembre 1938.


Come molti grandi genovesi del passato, dunque, anche Staglieno ha vissuto altrove – e prevalentemente a Milano – i momenti apicali del suo percorso esistenziale e professionale, e come loro ha conservato un ricordo geloso e nel contempo tenero dell’infanzia “ligure”.


Alla stregua di un rito d’iniziazione, torna sovente alla memoria dello scrittore quella Mattinata alla Spezia del 15 giugno 1955 – per citare Giovanni Ansaldo, che sul «Borghese» del 1° luglio seguente pubblicava sotto quel titolo il resoconto della sua chiacchierata con Ernst Jünger avvenuta in tale circostanza –, nel corso della quale, introdotto da un amico del padre, il pittore e critico d’arte Antonio Fornari, faceva la conoscenza, oltre che del giornalista genovese e del filosofo tedesco, di Henry Furst e Orsola Nemi, avvicinandosi non ancora diciottenne al gruppo di intellettuali allora raccolti sotto le insegne del periodico fondato e diretto da Leo Longanesi.


Non si trattava di un’intrusione occasionale, dal momento che Staglieno si era a buon diritto guadagnata la conoscenza con Jünger essendosi impegnato tra il 1950 e il 1951, insieme al padre Aldo Luigi e allo stesso Fornari, nella ricerca delle spoglie di Ernstel – il figlio primogenito dello scrittore tedesco caduto diciannovenne il 29 novembre 1944 a Codena, sulla linea Gotica, dove combatteva con i gradi di sottotenente –, rinvenute nel cimitero di Turigliano presso Carrara-Avenza, raccolte in una piccola cassetta di legno e traslate da Henry Furst in Germania per essere definitivamente deposte a Wilflingen.


Ma di vero e proprio rapporto di amicizia, consolidatasi attraverso le periodiche visite rese al filosofo nel villaggio tedesco dell’Alta Svevia in cui avrebbe vissuto fino alla morte, sopraggiunta nel 1998, è possibile parlare soltanto a partire dal 27 giugno 1965, quando Staglieno ricevette da Furst e Ansaldo l’incarico di accogliere sulle banchine del porto di Genova l’illustre visitatore, che beneficiava di un breve scalo nel corso di un viaggio marittimo intrapreso con la seconda moglie Liselotte da Amburgo verso l’Oceano Indiano, e di accompagnarlo personalmente alla scoperta delle bellezze del capoluogo ligure.


Nel decennio che intercorre tra questi due emblematici episodi (risalenti rispettivamente al 1955 e al 1965) e in maniera più intermittente negli anni successivi (almeno fino al 1973, quando si può considerare definitiva la scelta di dedicarsi a tempo pieno all’attività intellettuale), il giovane studioso, pur non perdendo occasione per approfondire le sue ricerche erudite e coltivare i suoi interessi storici e letterari, pare rivolgere le sue aspirazioni professionali verso le più sicure attività imprenditoriali svolte in favore dell’azienda di famiglia, operante nel ramo del commercio internazionale di carne e di caffè.


Eppure gradualmente Staglieno si convince sempre più a indirizzare l’asse portante del proprio futuro verso altri lidi, cominciando ad affacciarsi a piccoli passi in quel panorama culturale che avrebbe costituito il suo habitat naturale per i quarant’anni successivi: da una parte il sostegno di Ernesto Fassio gli consente, a partire dal 1964, di iniziare una collaborazione con i giornali genovesi «Gazzetta del lunedì» e «Corriere mercantile» (testate di cui il prozio armatore fu proprietario fino alla morte, avvenuta nel 1968), protrattasi sino all’approdo nel 1974 alla redazione del «Giornale nuovo» di Indro Montanelli e contrassegnata da alcuni contributi d’interesse storiografico o riconducibili all’ambito dell’aneddotica e della critica letteraria, nonché da vere e proprie corrispondenze inviate dai Paesi extraeuropei nei quali si trovava occasionalmente a soggiornare per ragioni lavorative; dall’altra Orsola Nemi e Henry Furst, con i quali aveva stretto una profonda amicizia, gli procurano un impiego come redattore presso la casa editrice Mursia, dove tra il 1967 e il 1969, oltre a occuparsi della traduzione del romanzo Il fauno di marmo di Nathaniel Hawthorne[1], si dedica per la prima volta in modo stabile a un’occupazione di carattere editoriale.


Il decisivo rapporto con il poliedrico homme de lettres americano è sintomatico di un’esperienza umana che, pur nella sua brevità (l’infittirsi della relazione personale ed epistolare tra i due è attestato tra il 1965 e il 15 agosto 1967, quando Furst fu costretto ad arrendersi a una lunga malattia), non soltanto contribuisce allo sviluppo della personalità del giovane discepolo, ma è capace di diffondersi nel tempo attraverso il recupero postumo di concreti spunti di lavoro, in un’ideale prosecuzione dell’opera del maestro.Quasi a voler proseguire un discorso prematuramente e inopinatamente interrotto, il vuoto lasciato dalla scomparsa di Henry Furst viene presto colmato con il rafforzamento dei legami con nuovi maestri vicari, che dello scrittore americano erano stati amici, estimatori, profondi conoscitori. Si situa infatti in questo periodo il consolidamento del dialogo, epistolare e personale, da alcuni anni instaurato con Giuseppe Prezzolini, incontrato per la prima volta sul finire del 1958 e frequentato più assiduamente negli anni immediatamente successivi al suo ritorno in Europa nell’estate del 1962 (inizialmente a Ravello, poi stabilmente, a partire dal mese di settembre, a Vietri sul Mare, sempre sulla costiera amalfitana, infine a Lugano dal 1968). La lezione del padre della «Voce» – di cui Staglieno poté a buon diritto definirsi un «pronipote», ricordando l’abbonamento sottoscritto alla rivista dall’omonimo bisnonno nel 1908 –, impartita con quello stile schietto e asciutto caratteristico della sua prosa giornalistica, è assimilata fedelmente da Staglieno, avido lettore del «Borghese» e delle corrispondenze dello scrittore al «Tempo» e al «Resto del Carlino», e costituisce lo stimolo definitivo – una volta superato l’impatto di una tragica vicenda personale – per intensificare le collaborazioni ai quotidiani genovesi, fino a tentare il salto verso testate di maggiore importanza e diffusione: proprio su segnalazione di Prezzolini, verso la fine del 1973, Staglieno trova spazio sulle pagine del quotidiano bolognese diretto da Girolamo Modesti, mentre contributi più ampi, di carattere storiografico, vedono la luce sul periodico mensile «Storia illustrata» edito da Mondadori.


Le prime prove sulla ribalta del giornalismo nazionale, giunte al termine di questo lungo apprendistato condotto sottotraccia, coincidono non casualmente con il debutto in campo editoriale, anch’esso in qualche modo favorito da Prezzolini, che suggerisce a Indro Montanelli, direttore per Rizzoli della collana «Gli Italiani», di affidargli la stesura di una biografia di Nino Bixio in vista del centenario della sua scomparsa.


La circostanza è particolarmente feconda perché la stesura, la pubblicazione e il buon successo del volume, tra le “strenne” più ricercate del Natale 1973, vengono a sovrapporsi precisamente con i mesi in cui Montanelli – che Staglieno conosceva fin dal 1956, ancora una volta grazie all’intercessione di Antonio Fornari –, allontanatosi dal «Corriere della Sera» e accettata una temporanea collaborazione alla «Stampa», medita di dare forma a un nuovo progetto editoriale. È anzi proprio nel pomeriggio del 18 ottobre 1973, il giorno in cui si consuma il divorzio dal quotidiano di via Solferino, che l’acerbo autore si presenta in casa di Gaetano Greco Naccarato per consegnare a Montanelli il dattiloscritto del volume su Bixio.


 Del progetto di fondazione di un quotidiano destinato a mietere ampi consensi in quel novero di lettori della buona borghesia, lombarda ma non solo, indispettita per la progressiva svolta a sinistra impressa allo storico foglio meneghino dalla proprietà del giornale, in mano a Giulia Maria Crespi, e dal nuovo direttore Piero Ottone, si comincia a discutere con crescente insistenza tra la fine del 1973 e i primi mesi del 1974.


Quando il 25 giugno 1974 «il Giornale nuovo» compare nelle edicole, Staglieno si era già affermato come uno dei punti fermi del gruppo di lavoro che da qualche mese si adoperava per la realizzazione del coraggioso piano editoriale e si apprestava a imporsi come una delle colonne della redazione di cui avrebbe fatto parte, dapprima come responsabile culturale in seguito come inviato speciale, fino al marzo 1992.


Staglieno si conferma rapidamente come un riferimento ineludibile per i rappresentanti dell’industria editoriale non propriamente allineati alla temperie culturale dell’epoca, e si guadagna la fiducia e la stima di Montanelli che, nel corso degli anni successivi, gli affida la confezione di alcune miscellanee di articoli – Controcorrente (1976) e Controcorrente, II (1979), L’archivista. Tra cronaca e storia (1980)–, gli suggerisce l’elaborazione di un primo bilancio storico del posizionamento della sua “creatura” nel sistema giornalistico italiano – Il Giornale 1974-1980 (1980) –, lo sostiene, pur demandandogliene in gran parte l’onere, nella stesura dell’ancora oggi insostituibile monografia dedicata a Leo Longanesi, edita da Rizzoli nel 1984.


          L’inesausta attività profusa per il quotidiano di via Negri non esaurisce la vena scrittoria di Staglieno che, all’inizio degli anni Ottanta, si propone anche come narratore, in collaborazione con il collega Renato Besana, dando alla luce due romanzi di minuziosa ambientazione storica come Lili Marleen, il cui spunto originario richiamava alla memoria la parole dell’omonima canzone, musicata nel 1938 da Norbert Schultze e portata al successo nel 1944 da Marlene Dietrich, ma tratta da un poemetto, scritto prima della partenza per il fronte dal tedesco Hans Leip, conosciuto da Staglieno per la comune amicizia con Jünger, e Il crociato, ambientato nella Gerusalemme del 1187, pioneristiche immersioni in quel genere del romanzo storico che, con la sua avvincente fusione tra invenzione ed erudizione, avrebbe ritrovato il suo pieno vigore nella letteratura contemporanea.


Abile conferenziere, Staglieno diviene uno dei più importanti esponenti della cultura conservatrice italiana, consolidando un sistema di pensiero rigorosamente tradotto attraverso lo sviluppo di coerenti metodologie di ricerca e divulgazione. Staglieno si assume il compito, attraverso una personale rielaborazione della lezione di Renzo De Felice, di indagare anche le teorie meno ortodosse, premurandosi di dare voce e conferire il giusto peso anche alle ragioni dei “vinti”. Ascolta, registra le conversazioni, imbastisce con i suoi interlocutori una relazione rispettosa e amichevole, e nel frattempo riempie compulsivamente interi taccuini di appunti: hanno così origine le sue celebri interviste con Albert Speer, l’architetto del Reich; con il colonnello Eugen Dollman, capo dei servizi segreti nazisti in Italia; con Dino Grandi, promotore dell’ordine del giorno del 25 luglio 1943, incontrato in occasione del quarantesimo anniversario di quel decisivo avvenimento; con l’ex ministro franchista Ramón Serrano Súñer, raggiunto a Madrid alla vigilia del cinquantenario della conclusione della Guerra civile spagnola.


Non è raro che tali appuntamenti, aprendo sguardi inconsueti su un passato ancora inesplorato, finiscano per rappresentare un’occasione per rinverdire il dibattito su avvenimenti troppo frettolosamente archiviati dalla storiografia “ufficiale”: è il caso della lunga intervista a Matteo Matteotti, pubblicata su «Storia illustrata» nel novembre 1985, in cui il figlio del deputato rapito e assassinato il 10 giugno 1924 alleggeriva le colpe di Benito Mussolini, che pure quelle responsabilità politiche si era assunte con il discorso del 3 gennaio 1925, documentando un probabile complotto ordito da Vittorio Emanuele III, spaventato dalle possibili rivelazioni di Matteotti sui suoi poco trasparenti rapporti con la compagnia petrolifera americana Sinclair, e da alcuni gerarchi fascisti, tra i quali Emilio De Bono, contrari alla paventata apertura del Duce ai socialisti; o, ancora, dell’approfondimento delle indagini sull’effettivo esecutore delle uccisioni di Benito Mussolini e Claretta Petacci, quasi unanimemente attribuite dagli storici alla mano di Walter Audisio (alias «colonnello Valerio») coadiuvato da Mario Moretti e Aldo Lampredi: un mistero tuttora irrisolto di cui Staglieno, pur non potendo pervenire a una risoluzione definitiva del “caso”, ha seguito gli sviluppi con instancabile curiosità.


Staglieno non si limita a fare ricorso ai convenzionali canali di reperimento delle informazioni, predisponendo con dedizione e precisione di accademico le basi documentarie sottese ai propri scritti, soprattutto a quelli di maggior impegno – emblematico, a tale proposito, il robusto apparato di note che correda un’opera come Arnaldo e Benito. Due fratelli, edita da Mondadori nel 2003, vera e propria summa delle riflessioni maturate in decenni di studio del ventennio fascista.


          Un esame della produzione di Staglieno non può dunque prescindere dall’individuazione di tali fonti primarie, frutto di scoperte personali intercettate su piste colpevolmente ignorate dalla critica dominante. È questo certamente il caso del tenace lavoro condotto sull’immenso patrimonio archivistico e bibliografico lasciato da Giovanni Ansaldo, il grande giornalista genovese attivo per quasi cinquant’anni sulle pagine del «Lavoro», del «Telegrafo» e infine del «Mattino». L’affetto di Staglieno per colui che amava definire, su suggestione di Montanelli, il “princeps del giornalismo novecentesco”, è evento di lunga data, frutto di una conoscenza personale (risalente, come si è detto, addirittura al 1955), capace di sopravvivere alla sua scomparsa nel 1969 e di consolidarsi successivamente, intorno alla metà degli anni Settanta, in un impellente ancorché quasi esclusivo desiderio di esegesi critica.


È con questi propositi che Staglieno sollecita Giovanni Battista Ansaldo, figlio del giornalista e premuroso “curatore” dell’archivio familiare, a condividere un incalzante piano editoriale che ha inizio nel 1980 con la pubblicazione del Dizionario degli italiani illustri e meschini (nutrita raccolta delle brevi note biografiche trascelte dall’omonima rubrica tenuta sul «Borghese»), prosegue nel 1983 con la ristampa, sempre per Longanesi, del Vero signore. Guida pratica di belle maniere, per il quale redige una meditata postfazione, e giunge al culmine con l’edizione della corposa antologia di scritti L’Italia com’era. Nello stesso anno Staglieno è protagonista della pubblicazione per il Mulino della prima opera memorialistica del giornalista genovese – L’antifascista riluttante. Memorie del carcere e del confino (1926-1927), decisiva testimonianza della complessa esperienza di oppositore politico del regime già sul punto di incubare la futura “sterzata lenta” verso il fascismo –, alla quale antepone una imponente introduzione, contributo critico ancora oggi irrinunciabile.


Anno cruciale della recente storia d’Italia, il 1992 rappresenta una vero e proprio punto di svolta nella vita di Staglieno, non soltanto per la pubblicazione del consistente lavoro editoriale su Giovanni Ansaldo – che si pone significativamente a conclusione di un ciclo esistenziale –, ma soprattutto per la decisione, lungamente meditata, di gettarsi personalmente nell’agone politico. Una risoluzione tutt’altro che improvvisa, frutto delle riflessioni già da tempo formulate intorno alla necessità di trovare possibili soluzioni alla crisi del sistema partitocratico, che avevano trovato una plausibile risposta nel pensiero federalista dell’ideologo della Lega Nord, il costituzionalista Gianfranco Miglio, in collaborazione con il quale aveva dato alle stampe già nel 1990 il libro-intervista Una Costituzione per i prossimi trent’anni. Intervista sulla terza repubblica.


Esito coerente di una concezione militante dell’esercizio intellettuale, la scelta di Staglieno di accettare la proposta di inclusione nelle liste per il Senato del partito di Umberto Bossi per le elezioni politiche del 5-6 aprile 1992 incontra l’aperta opposizione di Indro Montanelli, il quale, non avendo mai nascosto la sua plateale e sarcastica ostilità verso il leghismo, estromette senza tanti complimenti il suo storico collaboratore dalla redazione del «Giornale». La brusca interruzione dei rapporti non impedirà a Staglieno. Riconciliatisi già nel 1996, i due torneranno presto a frequentarsi, e il giornalista genovese sarà il primo sul finire del 2001 a tributargli, a meno di sei mesi dalla scomparsa, i dovuti onori con l’instant book intitolato Montanelli. Novant’anni controcorrente edito da Rizzoli.


Sebbene una lettura a posteriori possa indurre ad annoverare questa nuova avventura come una testimonianza non certo isolata – e forse senza tempo – della sostanziale incomunicabilità tra il mondo della cultura, con il suo anelito intellettuale, i suoi valori ideali e il suo portato di conoscenze, e il panorama politico contemporaneo, la carriera politica di Staglieno, pur nella sua brevità – due elezioni al Senato per la XI e XII Legislatura, per un totale di circa quattro anni di servizio – appare comunque gravida di successi, al punto da essere coronata dalla nomina a Vicepresidente del Senato, tenuta tra il 21 aprile 1994 e l’8 maggio 1996. Il prestigioso incarico – capace di conferirgli quell’aura istituzionale che troverà il suo immediato riscontro bibliografico nella realizzazione, dieci anni più tardi, del volume dedicato alla vicende dei primi dieci inquilini del Quirinale nell’Italia repubblicana, edito con il titolo L’Italia del Colle. 1946-2006: sessant’anni di storia attraverso i dieci Presidenti presso la casa editrice Boroli – porta con sé l’assunzione di impegni pubblici di portata tale da ridurre al minimo le possibilità di trovare spazio per lo svolgimento di altre attività.


Se Staglieno non rinuncia ai contatti con la carta stampata, il nuovo ruolo prevede tuttavia che la sua penna si eserciti, con inclinazioni più militanti che prudentemente bipartisan, nelle forme prevalenti del commento politico – in particolare su «L’Italia» (1993-1994), «L’Indipendente» (1993-1994), «Il Tempo» (1995-1996) e sul «Roma» (1996-1997) –, una veste che spesso non rende giustizia alle sue fini qualità di scrittore, sacrificate sull’altare delle superiori esigenze della polemica quotidiana.


Eppure il giornalismo resta suo terreno d’elezione anche al termine dell’esperienza in Parlamento, tanto che dopo il passaggio dalle file della Lega Nord, abbandonata a seguito del “ribaltone” messo in atto da Umberto Bossi alla fine del 1994, a quelle del Gruppo misto (e poi della Lega Federalista Italiana) e dopo la successiva ricandidatura infruttuosa alle elezioni politiche del 21 aprile 1996 nelle liste del Polo per le Libertà (nelle quali aveva seguito il suo mentore politico Gianfranco Miglio), avvicinatosi al leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini – con il quale realizza l’intervista Un’Italia civile –, ottiene dietro sua indicazione l’incarico di condirettore dello storico quotidiano della destra italiana, il «Secolo d’Italia» (1998-1999), affiancando Gennaro Malgieri.


La conclusione della “parentesi” politica e il sostanziale ritiro a vita privata a partire dal 2000 (anno in cui tenta l’ultima sfida candidandosi alle elezioni amministrative per il Consiglio Regionale della Liguria nelle liste di Alleanza Nazionale) consentono a Staglieno di continuare le sue collaborazioni giornalistiche (dal «Roma» al «Corriere del Mezzogiorno», da «Libero» al «Foglio») e soprattutto di ritrovare la serenità smarrita dell’otium letterario. Anticipato da una lunga serie di profili sui principali protagonisti del Novecento redatti tra il 1997 e il 1998 per la rivista «Lo Stato» diretta dall’amico Marcello Veneziani, il ritorno all’attività filologica, critica e storiografica consente la ripresa e il recupero di molti lavori di ampio respiro in precedenza relegati all’accantonamento dalla tirannide degli impegni quotidiani.


È così che i tanti volumi di cui si è dato conto in queste pagine prendono progressivamente forma, delineando un percorso a ritroso che pare sempre riavvolgersi su se stesso per ritrovare nelle radici della memoria, personale e collettiva, e nella tradizione ideologica italiana ed europea di ispirazione conservatrice lo slancio per affrontare le complesse istanze di una società in continua evoluzione, in cui il mito di un malinteso progresso pare destinato a travolgere e gettare nell’oblio le ragioni stesse dell’esercizio intellettuale. Lo avevano preconizzato, in tempi non sospetti e ormai così remoti, Ansaldo, Prezzolini, Jünger, Furst, Montanelli: Staglieno li ha conosciuti, li ha ammirati, li ha eletti a suoi maestri, e si è battuto per metterne in luce il decisivo contributo allo sviluppo della cultura italiana del secolo scorso, proponendosi e affermandosi come degno successore di questa nobile tradizione.


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*Diego Divano (Novi Ligure, 1982), docente della scuola secondaria e dottore di ricerca dell’Università degli Studi di Genova, ha studiato l’opera di scrittori e giornalisti vissuti tra la fine dell’Ottocento e il Novecento. Ha pubblicato Alle origini della «Fiera letteraria» (1925-1926) (Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2009) e curato il Carteggio tra Camillo Sbarbaro e Enrico Falqui (Genova, San Marco dei Giustiniani, 2012). Si è occupato della sistemazione delle carte e dei libri di Edmondo De Amicis conservati presso la Biblioteca Civica «Leonardo Lagorio» di Imperia allestendo la coppia di cataloghi editi, sotto il titolo Edmondo De Amicis a Imperia, a Firenze dalla Società Editrice Fiorentina nel 2015.


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** La biblioteca  di Marcello Staglieno, insieme all’archivio in via di riordino, ha sede a Carro, in provincia di La Spezia, a  Palazzo Paganini e si compone di circa 7000 volumi.. La catalogazione e la riallocazione dei documenti è tutt’ora in corso e verrà ultimata per l’inaugurazione della struttura che avverrà in maggio 2021. La biblioteca  potrà essere consultabile su appuntamento. Responsabile della biblioteca è la dott.ssa Silvia Pinto che si è occupata della classificazione della raccolta e ha gestito anche la delicata fase dello spostamento della biblioteca da Milano alla nuova sede.


[1] La citata traduzione è compresa nel volume I capolavori di Hawthorne, a cura di Elio Chinol, Milano, Mursia, 1968.





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