Prefazione di Sergio Romano
Da due secoli la Germania è un enigma che continua a sollecitare la nostra curiosità e a provocare le nostre apprensioni. Fra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo è stata uno straordinario cantiere filosofico e una bussola per chiunque cercasse di dare un significato alla vita dell’uomo. Ma nello stesso periodo è stata anche la patria del Romanticismo e un Paese straordinariamente operoso, protagonista,grazie alle sue imprese e ai suoi tecnici, di una grande rivoluzione industriale di cui abbiamo tutti approfittato. E nel Novecento, dopo la fine della Grande guerra, è stata uno scandaloso e brillante atelier per tutte le avanguardie europee.
Sapevamo, e ne avemmo la prova fra il 1914 e il 1918, che la Germania era anche, sin dall’epoca napoleonica, uno Stato guerriero e un nemico temibile, ma non privo di una nobile casta militare e di un severo codice delle armi. Nel Ventesimo secolo, tuttavia, questo Paese così ricco di virtù e di talenti è stato responsabile di un genocidio programmato e realizzato con glaciale freddezza, una terrificante combinazione di crudeltà e cinismo che ha coinvolto una larga parte della sua società.
Alla fine della Seconda guerra mondiale la Germania non fu punita e cancellata dalla carta geografica, come sarebbe accaduto in altri tempi, per due motivi. In primo luogo, perché era ancora vivo il ricordo dei danni provocati da alcune decisioni territoriali prese dal Trattato di Versailles nel 1919 e, in secondo luogo, perché i vincitori la divisero facendone due Stati, ciascuno dei quali sarebbe stato modellato con le caratteristiche del suo principale tutore. La Germania Occidentale sarebbe stata una democrazia federale con un’economia fondata sulle regole della libera iniziativa e del libero mercato.
La Germania Orientale sarebbe stata una repubblica popolare ispirata dalle teorie di due tedeschi: Karl Marx e Friedrich Engels. Questa spartizione, insieme alle armi nucleari, ebbe il merito di garantire la pace per quarantaquattro anni, dal 1945 al 1989. Non è difficile comprendere perché quasi tutti i maggiori leader europei abbiano reagito con molte preoccupazioni alla caduta del Muro e alle prospettive di una Germania riunificata. Per salvaguardare lo status quo, Margaret Thatcher avrebbe persino accettato non soltanto la sopravvivenza dell’URSS, ma anche quella del Patto di Varsavia.
Quando si erano chiesti come affrontare il problema tedesco, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i leader politici del tempo erano giunti alla conclusione che la Germania era indispensabile al continente, ma a una condizione: la sua partecipazione a un processo che si sarebbe concluso con la creazione di un’Europa federale in cui i tedeschi sarebbero stati i nostri concittadini. Tutto era diventato più difficile quando gli Stati Uniti, durante la Guerra fredda, avevano fatto della Germania la loro principale base territoriale sul continente, permettendole così di avere due interlocutori: quello atlantico di Washington e quello europeo di Bruxelles. Il quadro si sarebbe ulteriormente complicato dopo la caduta del Muro e la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Quando fu necessario decidere che cosa fare della Repubblica Democratica Tedesca, avremmo dovuto insistere per la creazione di una Confederazione Germanica in cui ciascuna delle due Germanie avrebbe conservato il proprio sistema economico e sociale. Una confederazione avrebbe risparmiato al Paese il disappunto e il malumore di una parte della popolazione. Ma Helmut Kohl comprò la riunificazione garantendo ai cittadini della Repubblica Democratica Tedesca che i loro marchi avrebbero avuto lo stesso valore di quelli che erano nelle tasche dei tedeschi dell’Ovest.
Il risultato dell’unificazione fu la nascita di una potenza dell’Europa centrale che divenne ancora più mitteleuropea quando, nel dicembre del 1991, il governo tedesco cancellò la Jugoslavia dalla carta d’Europa riconoscendo l’indipendenza di Slovenia e Croazia. Ancora più grave, soprattutto per la sorte dell’Unione Europea, fu l’insistenza tedesca per ottenere che gli ex satelliti dell’URSS divenissero membri dell’Unione. Il risultato per chi voleva l’unità dell’Europa fu doppiamente negativo. La Germania da quel momento, pur continuando ad avere leader europei nella tradizione di Konrad Adenauer, sarebbe stata molto più nazionale, con interessi e ambizioni che non sempre avrebbero coinciso con quelli della UE. E l’Unione Europea, grazie alla sua insistenza, avrebbe avuto nuovi soci per cui il rapporto con Washington è più importante di quello con Bruxelles.
Il libro di Massimo Nava è una guida preziosa per i lettori che vogliono sapere quali siano stati i passaggi decisivi della storia tedesca negli ultimi decenni e quali siano le prospettive future. Ma ha alcune caratteristiche che i libri di geopolitica generalmente non hanno. È l’opera di uno scrittore che conosce le regole del cronista, ma ha anche la sensibilità dello storico e del narratore. Era a Berlino per il «Corriere della Sera» nella «notte del Muro», quando un alto funzionario del regime comunista annunciò ai suoi connazionali che i viaggi all’Ovest sarebbero stati permessi. Fu la notte in cui la storia d’Europa, nel bene e nel male, avrebbe preso una nuova piega; e queste sono le pagine più belle di un libro che ne ha molte.