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L’Ordine dei Giornalisti è legittimo perché tutela l’indipendenza degli iscritti - Legittima la riserva della professione giornalistica ai soli iscritti all'Ordine. La sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale.
SENTENZA n. 11/ 1968 LA CORTE COSTITUZIONALE ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi riuniti di legittimita' costituzionale degli artt. 24, 28 cpv., 29, 33, 34, 35, 45, 46, 47, 51, lett. c e d, 54, 55, 63, terzo comma, della legge 3 febbraio 1963, n. 69 (ordinamento della professione di giornalista), promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 7 febbraio 1967 dal Tribunale di Torino sul ricorso di Ricciardi Maria, iscritta al n. 135 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 190 del 29 luglio 1967; 2) ordinanza emessa il 5 giugno 1967 dal pretore di Catania nel procedimento penale a carico di Settinori Giuseppe e Longhitano Giuseppe, iscritta al n. 210 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 271 del 28 ottobre 1967. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Lenghitano Giuseppe e dell'Ordine del giornalisti di Sicilia; udita nell'udienza pubblica del 14 febbraio 1968 la relazione del Giudice Francesco Paolo Bonifacio; uditi gli avvocati Arturo Carlo Jemolo e Paolo Barile, per Longhitano Giuseppe, gli avvocati Massimo Severo Giannini e Nino Gaeta, per l'Ordine del giornalisti di Sicilia, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Piero Peronaci, per il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritenuto in fatto - Con ordinanza del 5 giugno 1967, emessa nel procedimento penale a carico di Giuseppe Settineri e Giuseppe Longhitano, il pretore di Catania ha sollevato varie questioni di legittimita' costituzionali concernenti numerose disposizioni della legge 3 febbraio 1963, n. 69, relativa all'ordinamento della professione di giornalista. Dopo aver osservato che nel giudizio innanzi a lui pendente vanno applicate norme che, imponendo l'iscrizione obbligatoria nell'albo, costituiscono una limitazione assoluta della liberta' di stampa e dopo aver messo in evidenza che la sopravvenuta amnistia del reato ascritto agli imputati non esclude la rilevanza della questione sulla legittimita' costituzionale delle norme che lo configurano, il pretore enuncia le ragioni che gli fanno ritenere non manifestamente infondati i dubbi sulla costituzionalita' delle disposizioni impugnate e che possono cosi' riassumersi: 1) l'art. 29 della legge condiziona l'iscrizione nell'elenco del professionisti alla previa iscrizione nel registro del praticanti ed all'esercizio continuativo della pratica per almeno 18 mesi: con il che la possibilita' di intraprendere l'attivita' giornalistica viene fatta dipendere dalla completa discrezionalita' - artt. 33 e 34 - degli editori, del direttori del giornali e, attraverso l'Ordine, del giornalisti gia' iscritti; 2) l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti - art. 35 - e' condizionata alla dimostrazione di aver svolto attivita' retribuita per almeno due anni, alla certificazione del direttori delle pubblicazioni ed alla valutazione del singoli Consigli dell'Ordine: e cio' col pericolo di una possibile forma di censura ideologica. A proposito di queste prime due censure il pretore, rilevato che alla discrezionalita' altrui le suddette norme rimettono la possibilita' di esercitare un diritto di liberta' costituzionalmente garantito e da valutare anche in riferimento all'art. 3 della Costituzione, esclude ogni possibilita' di raffronto tra l'istituzione dell'albo del giornalisti e gli albi relativi ad altre attivita' professionali che non riguardano l'esercizio di diritti pubblici soggettivi, ed osserva che la liberta' di manifestare il proprio pensiero non tollera limitazioni che non trovino fondamento negli stessi principi costituzionali; 3) gli artt. 46 e 47, nelle parti in cui prescrivono l'obbligo di iscrizione all'albo per i direttori e i vice direttori responsabili dei quotidiani, dei periodici e delle agenzie contrastano sia con l'art. 21 che con gli artt. 18, 19 e 33 della Costituzione, perche' possono compromettere la liberta' di stampa, la liberta' religiosa, la liberta' di associazione e la liberta' della cultura; 4) l'art. 36 condiziona l'iscrizione di uno straniero ad un trattamento di reciprocita', laddove l'art. 21 della Costituzione garantisce a "tutti" la libera manifestazione del pensiero; ed inoltre la limitazione dell'iscrizione - v. art. 33 reg. - a chi abbia esercitato la professione in conformita' alle leggi dello Stato di appartenenza soffoca la libera voce di chi e' cittadino di un paese che non conosca la liberta' di stampa; 5) l'art. 63, comma terzo, prevede la partecipazione di giornalisti designati dal Consiglio dell'ordine ai collegi giudiziari di primo e secondo grado, ma, in quanto non prevede le garanzie necessarie ad assicurarne l'indipendenza, viola l'art. 108 della Costituzione; 6) la struttura di corporazione chiusa, propria dell'Ordine, fa apparire costituzionalmente illegittimi: a) l'art. 28 (v. anche art. 32 reg.), che affida alla decisione irrevocabile del Consiglio la valutazione della natura delle pubblicazioni a carattere tecnico, professionale e scientifico; b) l'art. 47, comma primo, che attribuisce al Consiglio il compito di accertare se determinate pubblicazioni siano organi di partiti o di movimenti politici o di organizzazioni sindacali, e cio' col pericolo che siano limitati i diritti riconosciuti dagli artt. 39 e 49 della Costituzione; c) gli artt. 51, c e d, 54 e 55, relativi alla sospensione ed alla radiazione, perche' queste misure colpiscono non solo il singolo, ma anche il periodico, al quale vien meno uno del requisiti richiesti per la registrazione; d) l'art. 24, che attribuisce al Ministro di grazia e giustizia poteri che possono incidere sulla liberta' di stampa. L'ordinanza mette in evidenza che, pur essendo strettamente rilevanti per il giudizio in corso solo le questioni relative agli artt. 45, 29, 33, 34 e 35, vengono rimesse alla Corte anche le altre disposizioni di cui si e' fatto cenno perche' la Corte ne pronunzi la caducazione in forza dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Il pretore conclude col rilievo che molte delle norme impugnate non sarebbero forse incostituzionali se l'alto non avesse carattere di obbligatorieta', e a tal proposito ricorda sia le norme fasciste che proprio attraverso la regolamentazione dell'attivita' giornalistica attentarono alla liberta' di stampa, sia le opinioni nettamente contrarie all'istituzione dell'albo espresse, durante la Costituente e dopo, da eminenti personalita' del mondo democratico. - L'ordinanza, regolarmente notificata alle parti, al pubblico ministero ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 271 del 28 ottobre 1967. Nel presente giudizio si sono costituiti il sig. Giuseppe Longhitano, l'Ordine del giornalisti di Sicilia ed il Presidente del Consiglio dei Ministri. La difesa del Longhitano, dopo aver rilevato che l'attivita' svolta dal giornalista professionista e' in sostanza attivita' di lavoro subordinato e che percio' la legge in esame applica la normativa generale concepita per i liberi professionisti a persone che a tale categoria non appartengono, denuncia il pieno contrasto fra la legge che riserva l'attivita' giornalistica solo a chi sia iscritto in un albo ed il principio costituzionale che a tutti garantisce il diritto di manifestare il proprio pensiero con lo scritto o con ogni altro mezzo di diffusione e, dunque, anche attraverso il giornale, che e' il piu' antico e piu' usato strumento di propaganda delle idee: contrasto ancor piu' evidente se si considera che la stampa non puo' essere soggetta ad autorizzazioni, mentre la legge consente la redazione del giornale solo a chi abbia ricevuto il crisma di un apparato in vario modo agganciato ad organi statali. Ne' varrebbe, secondo la difesa, far richiamo a norme le quali impongono prove di capacita' per l'esercizio di determinate attivita', perche' esse presuppongono la necessita' di accertare doti tecniche a tutela di interessi del terzi, laddove pretendere che il giornale sia ben fatto significa imprimergli un carattere di ufficiosita': il giornalismo si avvicina all'arte e non tollera altro giudizio che quello del pubblico del lettori, men che mai un giudizio (ad es. perfino sull'obbligo del rispetto della verita' sostanziale del fatti) che l'art. 2 finisce con l'affidare addirittura ai Tribunali dello Stato. La legge, continua la difesa, puo' divenire, ad un primo avvento di governo autoritario, pericoloso mezzo di pressione e contrasta altresi' con l'art. 3, secondo comma, della Costituzione, perche', pretendendo titoli di cultura, impedisce a soggetti che non li posseggano o non possano sottoporsi alla pratica, di dar vita ad un giornale; con gli artt. 18, 19, 39 e 49 della Costituzione perche' la pubblicazione di un giornale puo' essere il fine di un'associazione, puo' servire allo scopo di promuovere un risveglio religioso, puo' avere finalita' sindacali o politiche; con l'art. 33 perche' il campo prossimo al giornalismo e' quello della cultura e dell'arte; infine con l'art. 108 della Costituzione perche' e' la maggioranza del Consiglio dell'ordine, che quasi sempre ha colorazione politica, a designare i componenti del collegio giudicante e perche' questa designazione e' fatta dallo stesso organo contro le cui deliberazioni si ricorre. Tutte queste ragioni - cosi' conclude la difesa - dimostrano l'incostituzionalita' della legge, ma non pregiudicano la possibilita' di contratti collettivi di categoria e anche di leggi che in materia di concorsi, di previdenza ecc. dovessero operare distinzioni tra categorie e categorie di giornalisti, secondo il criterio dell'importanza del giornale, dell'intensita' di opera prestatavi e cosi' via. - Opposte sono le conclusioni alle quali perviene la difesa dell'Ordine del giornalisti di Sicilia (atto di deduzioni depositato il 16 novembre 1967) la quale, dopo una breve ricostruzione delle circostanze di fatto che diedero origine al processo di merito, osserva che lo stesso pretore ha dichiarato irrilevanti le questioni concernenti alcuni articoli della legge sicche' l'oggetto del giudizio di costituzionalita', in base ai principi, deve riguardare solo gli artt. 45, 29, 33, 34 e 35 in riferimento agli artt. 21 e 3 della Costituzione. Cio' premesso, la difesa contesta la fondatezza dei dubbi prospettati dal giudice a quo: ed infatti, a suo avviso, e' da escludere che da parte degli editori, dei direttori e degli stessi Ordini possa essere esercitata una qualsiasi discrezionalita' in ordine ai vari momenti del procedimento di iscrizione nell'albo; e' certo che tutti i giornali ospitano scritti di non giornalisti, e la stessa legge, disponendo che chi chiede di essere incluso nell'elenco del pubblicisti esibisca giornali e periodici contenenti suoi scritti, conferma che e' ben possibile esprimere il proprio pensiero attraverso i giornali senza avere qualifiche professionali; in definitiva la legge impugnata e' congegnata in modo da salvaguardare rigorosamente la liberta' ed ha a solo fine la tutela del giornalista contro l'imprenditore, affidata ad un ordine a struttura democratica. La difesa dell'Ordine, per completezza di esposizione, esamina anche le altre questioni che, per quanto in precedenza esposto, a suo parere, devono essere ritenute irrilevanti. In particolare essa sostiene: a) gli artt. 46 e 47 sono incensurabili, perche' se sul direttore e vice direttore gravano particolari responsabilita', non si puo' non richiedere che tali cariche siano ricoperte da persone qualificate attraverso l'iscrizione nell'albo; b) la disciplina relativa all'iscrizione del giornalista straniero e' infondata, perche' l'iscrizione in un elenco non viola la liberta' di manifestazione del pensiero; c) la particolare composizione dei collegi giudicanti di primo e secondo grado e' legittima' alla stregua della stessa giurisprudenza di questa Corte che si e' gia' occupata di collegi aventi quali componenti soggetti estranei alla magistratura; d) il giudizio del Consiglio sulla natura tecnica, professionale o scientifica di pubblicazioni non e' libero, ma ha il carattere di discrezionalita' tecnica; e) per quanto concerne le eccezioni stabilite per i periodici di partito politico o di sindacato, si tratta di una circostanza obbiettiva che qualunque giudice puo' accertare; f) che la sospensione o radiazione dall'albo del direttore di giornali faccia venir meno uno dei requisiti richiesti per la registrazione del periodico e' cosa del tutto logica e inevitabile; g) i poteri conferiti al Ministro sono gli stessi che spettano nei confronti di qualsiasi ordine professionale e non si vede quale norma costituzionale sia violata. La difesa conclude chiedendo che tutte le questioni sollevate dal pretore vengano dichiarate non fondate. - Secondo l'Avvocatura dello Stato - v. atto di deduzioni depositato il 17 novembre 1967 - la stessa civilta' contemporanea, allargando l'orizzonte sul quale la collettivita' porta la sua attenzione e accrescendo le possibilita' tecniche dell'informazione, imprime all'attivita' giornalistica uno spiccato carattere di professionalita' che non poteva lasciare insensibile il legislatore. In questa premessa va inquadrata la legge in esame, che non appare in contrasto con la Costituzione. Gia' la Corte, infatti, ha riconosciuto (sent. n. 38 del 1961) che il legislatore ha potesta' di stabilire adeguata disciplina all'esercizio della manifestazione del pensiero attraverso la stampa, ed e' da escludere che l'art. 21 della Costituzione richieda che il diritto ivi consacrato debba necessariamente esercitarsi attraverso la professione di giornalista. La legge in esame non nega che chi non voglia intraprendere la professione giornalistica possa limitarsi ad un'attivita' giornalistica occasionale, e di conseguenza e' erroneo ritenere che per poter manifestare il proprio pensiero sia indispensabile esercitare la professione di giornalista: sicche' la questione di costituzionalita' e' totalmente infondata. Tale essa appare anche per quanto riguarda le norme che disciplinano le modalita' dell'iscrizione, tutte intese all'accertamento di requisiti che hanno natura specializzante: e non e' dato vedere come la conoscenza delle cognizioni richiesta dalla legge nonche' l'esercizio della pratica o l'esibizione di scritti possano in qualche modo limitare la liberta' del soggetto. Circa le altre questioni sollevate dal pretore, anche l'Avvocatura mette in evidenza che la stessa ordinanza le dichiara irrilevanti: esse comunque sono infondate perche' le disposizioni impugnate sono tutte in armonia con le caratteristiche proprie di un albo professionale e coi poteri di autogoverno dell'Ordine, il cui esercizio e' sempre sindacabile in via giurisdizionale. - Tutte le parti hanno depositato memorie illustrative delle tesi gia' sostenute negli atti di costituzione. La difesa del Longhitano sottolinea, anzitutto, il contrasto fra l'albo dei giornalisti, disciplinato dalla legge impugnata, col sistema generale degli albi professionali: i giornalisti, infatti, non sono liberi professionisti, ma impiegati; la disciplina delle classi professionali in ordini o collegi ha sempre lo scopo di tutelare un interesse sociale, e presuppone che gia' ci sia una delimitazione degli appartenenti alla categoria attraverso la qualificazione di un titolo di studio, laddove, come e' logico, l'ordine dei giornalisti prescinde da tale requisito; gli ordini non sono creati per perseguire interessi sindacali, sicche' lo scopo attribuito alla legge, e, cioe', la tutela della categoria, e' insussistente, come e' dimostrato dalla concomitante presenza di contratti collettivi stipulati dalle associazioni. Dopo aver definito come atto di ammissione l'iscrizione nell'albo, la difesa osserva che rilevante ai fini della valutazione della violazione dell'art. 21 della Costituzione e' il controllo amministrativo che si svolge nei confronti del giornalisti al momento dell'ammissione (artt. 31, 34, 35), nel corso dell'esercizio professionale (procedimento disciplinare in relazione a fatti non conformi al decoro ed alla dignita'; azione giudiziaria ex art. 63 ma con collegi integrati da un giornalista professionista e da un pubblicista) ed esercitato anche dal Ministro della giustizia. Fatta questa ampia premessa, la memoria prosegue affermando che la disciplina dell'albo del giornalisti affievolisce il diritto soggettivo perfetto nascente dell'art. 21 della Costituzione, e cio' a causa del conferimento di una potesta' discrezionale che da' luogo anche a disparita' di trattamento: richiamando quanto gia' detto, la difesa conduce un analitico esame delle norme che tale discrezionalita' affidano all'ordine e conclude che siffatto regime integra una prima violazione degli artt. 21 e 3 della Costituzione, dalla quale deriva la illegittimita' non solo di singole norme ma dell'intera legge: tuttavia anche le ulteriori censure mosse dall'ordinanza di rimessione ad altre disposizioni del provvedimento sono pienamente fondate. Ad avviso della difesa dell'Ordine del giornalisti di Sicilia invece, la tesi della incostituzionalita' della legge non poggia su alcuna argomentazione giuridica, ma nasce dalla confusione fra due fenomeni nettamente distinti, vale a dire l'esercizio della professione giornalistica e la liberta' di manifestazione del pensiero a mezzo della collaborazione a giornali. Quest'ultima e' e puo' essere esercitata da chiunque, come e' dimostrato dalla realta' dei fatti che trova pieno riscontro nelle norme in esame: l'art. 35 della legge infatti presuppone ovviamente la possibilita' di collaborazione giornalistica, regolarmente retribuita, da parte di chi giornalista non e'. Cio' e' sufficiente, secondo la difesa, a dimostrare che la legge non pone alcuno ostacolo a chi voglia scrivere sui giornali e non viola la liberta' sancita dall'art. 21 della Costituzione: tuttavia va anche aggiunto che la tesi avversaria, secondo la quale non si potrebbe rinvenire giustificazione alcuna all'istituzione dell'Ordine del giornalisti, e' inesatta perche' non tiene conto della mutata realta' in cui gli ordini professionali oggi si muovono, portandoli ad interessarsi sempre piu' ai professionisti impiegati. L'Ordine del giornalisti si inserisce in questa problematica contemporanea, regola una realta' assai complessa, e la sua istituzione - che, tuttavia, non impone la iscrizione nell'albo quale presupposto della collaborazione ai giornali - risponde all'esigenza di apprestare una garanzia di serieta' di preparazione professionale, attua una tutela della professione, garantisce i giornalisti nei confronti delle imprese. L'Avvocatura dello Stato a sua volta richiama le trasformazioni sociali che giustificano il carattere di professionalita' del giornalismo e mette in evidenza che la legge non impone affatto l'esercizio della professione a chi voglia manifestare il proprio pensiero a mezzo della stampa: l'eventualita' che il giornale rifiuti di ospitare scritti di un non giornalista e' irrilevante, perche' anche il giornalista professionista puo' non ottenere di essere assunto presso un giornale. Quanto alle norme ritenute dallo stesso pretore irrilevanti, l'Avvocatura osserva che l'ordinanza invoca l'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, non a proposito, perche' tale disposizione puo' essere applicabile solo nei limiti dell'impugnazione e non nel caso di questioni costituzionali totalmente diverse. - Nel corso di un procedimento civile, promosso dalla signora Maria Ricciardi Cuniberti per impugnare la deliberazione del 22 settembre 1966 con la quale il Consiglio nazionale dell'ordine del giornalisti aveva respinto il suo ricorso avverso il provvedimento di cancellazione dall'albo emanato dal Consiglio interregionale Piemonte - Valle d'Aosta, il Tribunale di Torino ha sollevato di ufficio una questione di legittimita' costituzionale dell'art. 63, comma terzo, della legge 3 febbraio 1963, n. 69, in riferimento agli artt. 102, secondo comma, e 108 cpv. della Costituzione. L'ordinanza, affermata la rilevanza della questione, osserva che l'ordinamento costituzionale, ispirato al principio dell'unita' della giurisdizione, autorizza le sezioni specializzate, ma solo a patto che queste non si trasformino in veri e propri giudici speciali: ipotesi che si verifica quando vien meno l'indipendenza del membri laici del collegio. Dopo aver richiamato i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 108 del 1962 relativa alle sezioni specializzate agrarie, il Tribunale di Torino rileva che nella norma in esame - la quale prevede l'integrazione del collegio con la partecipazione di un giornalista e di un pubblicista nominati in numero doppio dal Presidente della Corte di appello su designazione del Consiglio nazionale dell'ordine - si riscontrano le stesse deficienze che in quella occasione la Corte ritenne costituissero motivo di illegittimita' costituzionale: da una parte, infatti, manca una sufficiente specificazione del requisiti di idoneita' e capacita' del membro laico, tale non potendo ritenersi la mera qualifica di giornalista; dall'altra non viene assicurata la necessaria indipendenza nei confronti dell'organizzazione di provenienza, ne' la norma accenna ai casi di ricusazione o di astensione o a quelli di sostituzioni e supplenza, con la conseguente impossibilita' di dare applicazione agli artt. 51 e 52 del Codice di procedura civile. - L'ordinanza, emessa il 7 febbraio 1967, ritualmente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 190 del 29 luglio 1967. Nel precedente giudizio si e' costituita - atto depositato l'8 maggio 1967 - la sola Avvocatura dello Stato in rappresentanza e difesa del Presidente del Consiglio. Nelle deduzioni ed in una successiva memoria essa sostiene che proprio alla stregua della giurisprudenza di questa Corte - sent. n. 76 del 1961 e n. 108 del 1962 - la questione sollevata dal Tribunale di Torino appare non fondata: ed infatti, nella specie, l'idoneita' del membro laico e' inerente alla stessa appartenenza alla categoria professionale disciplinata per legge dall'Ordine e l'indipendenza - che nelle norme costituzionali sembra peraltro doversi riferire all'indipendenza "esterna" - e' assicurata pienamente perche', una volta nominati, gli esperti sono sottratti ad ogni ingerenza dell'Ordine. L'Avvocatura conclude osservando che il Consiglio nazionale, su designazione del quale la nomina viene effettuata, non ha alcun potere ne' sul professionista ne' sull'Ordine regionale al quale questo e' iscritto; la nomina in numero doppio assicura, infine, l'osservanza del principio della precostituzione del giudice e l'applicazione degli istituti dell'astensione e della ricusazione. - Nell'udienza pubblica i difensori delle parti hanno ampiamente illustrato le rispettive tesi e conclusioni. Considerato in diritto - Le ordinanze del pretore di Catania e del Tribunale di Torino propongono questioni di legittimita' costituzionale concernenti disposizioni contenute tutte nella legge 3 febbraio 1963, n. 69, e pertanto i relativi giudizi, congiuntamente discussi nell'udienza pubblica, possono essere riuniti e decisi con unica sentenza. - Il pretore di Catania esplicitamente afferma che rilevanti per la decisione della causa innanzi a lui pendente sono solo le questioni riguardanti gli artt. 45, 29, 33, 34 e 35, che vengono impugnati in riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione. Egli ritiene, tuttavia, di poter sottoporre al controllo della Corte, in forza dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, numerose altre disposizioni della stessa legge, e precisamente gli artt. 46, 47 e 63, terzo comma, 28 cpv., 51, lett. c e d, 54, 55 e 24. Questo secondo gruppo di questioni - formulate anche in rapporto a norme costituzionali diverse da quelle in relazione alle quali vengono denunziati gli articoli ritenuti rilevanti - non puo' formare oggetto del presente giudizio. Ed infatti la norma procedurale invocata dal pretore attribuisce solo alla Corte costituzionale la competenza ad accertare ed a dichiarare se e quali disposizioni legislative siano illegittime a causa dell'annullamento di quelle ritualmente sottoposte al suo esame, ma non consente affatto che il giudice a quo estenda l'impugnativa al di la' delle norme applicabili alla controversia e proponga in questa guisa - contro il disposto dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - questioni del tutto irrilevanti per la decisione del giudizio principale. Da cio' consegue che l'esame della Corte deve essere portato esclusivamente sugli artt. 45, 29, 33, 34 e 35 della legge, nonche' sull'art. 63, terzo comma, che forma oggetto della questione sollevata dal Tribunale di Torino. Va peraltro aggiunto che il contenuto di altre disposizioni della legge sara' tenuto presente dalla Corte, come innanzi si dira', in funzione di una compiuta valutazione della legittimita' costituzionale dell'art. 45. - La legge 3 febbraio 1963, n. 69, ha istituito l'Ordine del giornalisti, gli ha affidato la tenuta dell'albo, ne ha disciplinato la struttura e il funzionamento: l'art. 45 ha condizionato all'iscrizione nell'albo l'uso del titolo e l'esercizio della professione di giornalista, sanzionando penalmente i corrispondenti divieti a norma degli artt. 348 e 498 del Codice penale. Non spetta alla Corte valutare l'opportunità della creazione dell'Ordine, perché l'apprezzamento delle ragioni di pubblico interesse che possano giustificarlo appartiene alla sfera di discrezionalità riservata al legislatore. Compete invece alla Corte accertare se la riserva della professione giornalistica ai soli iscritti all'Ordine ed il modo in cui la legge ha disciplinato il regime dell'albo comportino la violazione del principio costituzionale - art. 21 - che a tutti riconosce il "diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione": un diritto, come altre volte è stato detto (cfr. sent. n. 9 del 1965), coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione, inconciliabile con qualsiasi disciplina che direttamente o indirettamente apra la via a pericolosi attentati, e di fronte al quale non v'è pubblico interesse che possa giustificare limitazioni che non siano consentite dalla stessa Carta costituzionale. - Cio' posto, la Corte osserva che per un'esatta valutazione del fondamento della questione sottoposta al suo esame occorre tener presente che la legge impugnata, realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero: sicché è esatto quanto sostengono sia la difesa dell'Ordine di Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato, che essa non tocca il diritto che a "tutti" l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo sarebbe certo violato se solo gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma è da escludere che una siffatta conseguenza derivi dalla legge. Ne costituisce riprova, oltre l'oggetto stesso del provvedimento, l'esplicita disposizione contenuta nell'art. 35: il quale, in quanto subordina l'iscrizione nell'elenco del pubblicisti alla prova che il soggetto interessato abbia svolto un'"attivita' pubblicistica regolarmente retribuita per almeno due anni", dimostra che la stessa legge considera pienamente lecita anche la collaborazione ai giornali che non sia ne' occasionale ne' gratuita. Senza che ci sia bisogno di affrontare questioni di interpretazione non essenziali per la presente decisione, appare certo che l'art. 35 circoscrive la portata del divieto sancito nell'art. 45, limita l'estensione dell'obbligo di iscrizione all'albo e, in definitiva, conferma che l'appartenenza all'Ordine non e' condizione necessaria per lo svolgimento di un'attivita' giornalistica che non abbia la rigorosa caratteristica della professionalita'. - Questa conclusione, tuttavia, non esaurisce la questione sottoposta alla Corte. L'esperienza dimostra che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana del professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua volta è condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali. E nessuno puo' negare che una legge la quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o discriminazioni all'accesso alla professione giornalistica ovvero sottoponesse i professionisti a misure limitative o coercitive della loro liberta', porterebbe un grave e pericoloso attentato all'art. 21 della Costituzione. Sotto questo secondo profilo della questione, che di certo e' il piu' delicato, la Corte deve in primo luogo accertare se l'istituzione stessa di un Ordine giornalistico e l'obbligatorieta' della iscrizione nell'albo non costituiscano di per se' una violazione della sfera di liberta' di chi al giornalismo voglia professionalmente dedicarsi. La Corte ritiene che a tale interrogativo si debba dare una risposta negativa. Chi tenga presente il complesso mondo della stampa nel quale il giornalista si trova ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di lavoro, non può sottovalutare il rischio al quale è esposto la sua libertà né può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla. Per la decisione della presente questione - alla quale, per quanto si è detto al n. 3, resta estranea la rilevanza degli ulteriori profili di pubblico interesse (fra i quali quello inerente all'osservanza del canoni della deontologia professionale) soddisfatti dalla legge - è in vista di tale finalita' che va valutata la funzione che l'Ordine puo' svolgere. Il fatto che il giornalista esplica la sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro subordinato non rivela la superfluità di un apparato che secondo l'avviso della difesa del Longhitano si giustificherebbe solo in presenza di una libera professione, tale il senso tradizionale. Quella circostanza, al contrario, mette in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano associati in un organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico del datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto della loro personalità e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che percio' puo' essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblicovigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla liberta' di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla. Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione positiva e' valida solo se le norme che disciplinano l'Ordine assicurino a tutti il diritto di accedervi e non attribuiscano ai suoi organi poteri di tale ampiezza da costituire minaccia alla liberta' dei soggetti. E in questa ulteriore direzione va ora rivolta l'indagine affidata alla Corte. 6 - Il divieto posto nell'art. 45, come si e' detto, condiziona all'iscrizione nell'albo il legittimo esercizio della professione giornalistica, ed esso, a causa del disposto contenuto nell'art. 36, si risolve in un divieto assoluto per gli stranieri che siano cittadini di uno Stato che non pratichi il trattamento di reciprocita'. Da cio' scaturisce la necessita' di accertare se esso non sia in contrasto con l'art. 21 della Costituzione che a tutti, e non ai soli cittadini, garantisce il fondamentale diritto di esprimere liberamente e con ogni mezzo il proprio pensiero. La Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4 - ritiene che, in se' considerato, il presupposto del trattamento di reciprocita' per l'accesso alla professione giornalistica non sia illegittimamente stabilito, e cio' perche' e' ragionevole che in tanto lo straniero sia ammesso ad un'attivita' lavorativa in quanto al cittadino italiano venga assicurata una pari possibilita' nello Stato al quale il primo appartiene. Questa giustificazione, pero', non puo' estendersi all'ipotesi dello straniero che sia cittadino di uno Stato che non garantisca l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche e, quindi, della piu' eminente manifestazione di queste. In tal caso, atteso che ad un regime siffatto puo' essere connaturale l'esclusione del non cittadino dalla professione giornalistica, il presupposto di reciprocita' rischia di tradursi in una grave menomazione della liberta' di quei soggetti ai quali la Costituzione - art. 10, terzo comma - ha voluto offrire asilo politico e che devono poter godere almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che non siano strettamente inerenti allo status civitatis. Limitatamente a questa parte, dunque, l'art. 45 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo. - Passando all'esame delle norme che disciplinano l'accesso all'albo, devono essere presi in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e 35 della legge, che formano oggetto dell'impugnativa ritualmente proposta dal pretore di Catania. Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalita' manifestati dal giudice a quo non appaiono fondati. L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco del professionisti, fra l'altro, l'iscrizione nel registro del praticanti e l'esercizio della pratica per almeno diciotto mesi: dal combinato disposto di questa norma e degli artt. 33 e 34 discende, secondo il pretore, che l'accesso al registro del praticanti e, mediatamente, all'albo e' rimesso alla completa discrezionalita' degli editori, del direttori e degli altri giornalisti gia' iscritti. La Corte osserva che, se è vero che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma come praticante egli non potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, e' altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto può svolgere la sua attivita' professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale la non discriminazione puo' essere assicurata soltanto dalla concorrenza della molteplicita' delle iniziative giornalistiche. Neppure puo' dirsi che il secondo comma dell'art. 34, in quanto richiede che lo svolgimento della pratica sia comprovata da una dichiarazione motivata del direttore del giornale, all'arbitrio di questi rimetta la valutazione di un presupposto per l'iscrizione nell'elenco del giornalisti. In effetti, poiche' non risulta che l'Ordine abbia il potere di esprimere un giudizio di ammissibilita' basato sull'apprezzamento del modo in cui l'interessato ha esercitato la pratica, si deve concludere che la motivazione del direttore deve avere ad oggetto solo gli elementi formali del rapporto (durata, continuita') e non puo' mai tradursi in un sindacato sul pensiero espresso dal praticante. Non si vede, infine, in che modo il Consiglio dell'Ordine possa esercitare poteri arbitrari in ordine all'iscrizione nell'albo: chiamato a verificare la sussistenza di elementi tassativamente indicati dalla legge ed a prendere atto del giudizio positivo delle prove di esame predisposte per un accertamento tecnico, il Consiglio non puo' neppure liberamente valutare la buona condotta (art. 31, secondo comma) del richiedente, ma deve accertarla sulla base di fatti, secondo canoni elaborati in base ad una consolidata tradizione e con l'esclusione di ogni apprezzamento di atteggiamenti che costituiscano estrinsecazione delle liberta' garantite dalla Costituzione. Val la pena di aggiungere che la legge impone che i provvedimenti di rigetto della domanda siano motivati (art. 30) e predispone su di essi il controllo giurisdizionale (art. 63), assicurando in tal modo la repressione di ogni abuso. Del pari non fondata e' la questione relativa al primo comma dell'art. 35, impugnato nella parte in cui stabilisce che al fine dell'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti il richiedente deve offrire la dimostrazione di aver svolto attivita' retribuita da almeno due anni. Il timore espresso dal giudice a quo che questa norma consenta un sindacato sulle pubblicazioni non ha ragione di essere, perche' la certificazione dei direttori e la esibizione degli scritti sono elementi richiesti solo al fine di consentire che venga accertato se l'attivita' sia stata esercitata ne' occasionalmente ne' gratuitamente e per il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo scopo di imporre o di permettere una valutazione di merito capace di risolversi, come afferma l'ordinanza, in "una forma larvata di censura ideologica". - Poiche' l'ordinanza denunzia che l'obbligatorieta' dell'iscrizione nell'albo, sancita dal denunziato art. 45, rimette alla piena "discrezionalita' altrui" l'esercizio del diritto riconosciuto dall'art. 21 della Costituzione, con conseguente violazione anche dell'art. 3, la Corte non puo' sottrarsi al compito di esaminare altre disposizioni della legge che possano incidere sul diritto all'iscrizione nell'albo, e cio' non per esercitare un controllo su norme che, per quanto si e' detto al n. 2, non sono state ritualmente impugnate, ma solo per accertare se il loro contenuto sia tale da determinare l'illegittimita' dell'art. 45. Sotto questo profilo ed a questi limitati effetti vengono in esame l'art. 24, che attribuisce al Ministro per la grazia e giustizia l'alta sorveglianza sui Consigli dell'Ordine, e le disposizioni che conferiscono ai Consigli poteri disciplinari che sull'iscrizione all'albo possono incidere in via temporanea (art. 54) o definitiva (art. 55). La Corte osserva che il potere del Ministro, corollario del pubblico interesse al regolare funzionamento dei Consigli, ha per contenuto i provvedimenti indicati nel secondo e nel terzo comma dello stesso art. 24, sicche' nessuna ingerenza e' consentita all'esecutivo sulla attivita' amministrativa relativa agli iscritti, salva la implicita possibilita' di segnalare fatti che ai sensi dell'art. 48 possano giustificare il promovimento dell'azione disciplinare: nel che non si puo' riscontrare, in verita', nessun rischio di abuso. La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica del Consigli, che di per sé rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall'art. 21 sarebbe messa in pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l'esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare. - Con cio' la Corte ha esaurito l'esame delle questioni ritualmente proposte dal pretore di Catania. Non puo' essere affrontato, infatti, un ulteriore problema sul quale l'ordinanza di rinvio si e' soffermata, se cioe' la disciplina introdotta dalla legge limiti, ed in quale misura, il diritto di tutti di dar vita ad un giornale e di esprimere con questo mezzo il proprio pensiero. A questa tematica l'art. 45 e' del tutto estraneo, perche' gli oneri che in essa verrebbero in discussione non discendono dall'obbligatorieta' dell'albo, ma sono autonomamente posti dagli artt. 46 e 47: da disposizioni, dunque, che, per quanto si e' detto al n. 2, restano fuori dell'oggetto del presente giudizio. - Il Tribunale di Torino denuncia l'illegittimita' costituzionale, per violazione degli artt. 102 e 108 della Costituzione, del terzo comma dell'art. 63 della stessa legge, a tenore del quale presso il Tribunale e la Corte di appello competenti a decidere sull'azione promossa contro le deliberazioni del Consiglio nazionale dell'Ordine il collegio viene integrato da un giornalista professionista e da un pubblicista, nominati in numero doppio all'inizio di ogni anno dal presidente della Corte di appello su designazione del Consiglio stesso. Non tutti i rilievi che l'ordinanza espone con espresso richiamo ai principi affermati dalla Corte nella sentenza n. 108 del 1962 trovano esatto riscontro nel caso in esame. Tanto e' a dirsi sia del requisito della idoneita' dei due membri del Collegio, assicurata dalla circostanza che deve trattarsi di giornalisti professionisti e di pubblicisti tali qualificati in base alle norme della stessa legge, sia della possibilita' di rendere operanti le disposizioni relative alla astensione e ricusazione del giudice, sufficientemente garantita dalla nomina in numero doppio. La questione risulta invece fondata sotto il profilo che il meccanismo predisposto dalla legge non e' tale da conferire al giudice piena indipendenza nei confronti del Consiglio dal quale sostanzialmente egli deriva la sua nomina. Giova in proposito tener presente che all'esame del Tribunale e della Corte di appello, nella speciale composizione descritta, vengono portate (artt. 62 e 63) le impugnazioni promosse contro le deliberazioni di quello stesso organo che e' competente alla designazione dei due giudici estranei alla magistratura. Vero e' che siffatta circostanza, come si ricava dalla giurisprudenza della Corte (sentenza n. 1 del 1967), di per se' sola non costituirebbe ragione di illegittimita' costituzionale: tuttavia sarebbe stato necessario che la legge impedisse ogni forma di responsabilita', anche indiretta, nei confronti del Consiglio. Questa fondamentale garanzia, essenziale per il rispetto del principio di indipendenza, non e' invece assicurata, perche' la brevita' del termine di durata nell'ufficio e la possibilita' di una rinnovata designazione degli stessi soggetti non escludono che il Consiglio possa periodicamente esercitare un implicito sindacato sul modo col quale e' stata amministrata la giustizia in casi nei quali era in gioco un suo diretto interesse. Percio' e' da riconoscere che la norma impugnata contrasta con l'art. 108, secondo comma, della Costituzione. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE a) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 45 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, relativa all'ordinamento della professione giornalistica, limitatamente alla sua applicabilita' allo straniero al quale sia impedito nel paese di appartenenza l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche garantite dalla Costituzione italiana; b) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 63, comma terzo, della stessa legge; c) dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale concernenti gli artt. 29, 33, 34 e 35 sollevate dall'ordinanza 5 giugno 1967 del pretore di Catania in riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione; d) dichiara inammissibili le questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 24, 28 Cpv., 46, 47, 51, lett. c e d, 54 e 55 sollevate dalla stessa ordinanza in riferimento agli artt. 3, 21, 18, 19, 33, 39, 49 della Costituzione. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 1968.
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