CORRIERE DELLA SERA. Il cronista. Paolo Borrometi, vita sotto scorta. «Paura? Sì, ma non mi fermo».
13.2.2019 - L'ultimo libro di Paolo Borrometi , Un morto ogni tanto (Edizioni Solferino), il giornalista che vive sotto scorta per le minacce della criminalità, si chiude con un appello ai ragazzi. «Le mafie si combattono con l'educazione alla legalità, partendo dalle scuole» dice presentando il volume a Milano, nella Sala Buzzati del Corriere della Sera . È un punto condiviso anche dagli altri che intervengono. Lo fa Alessandra Dolci, coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia alla Procura di Milano, spiegando come senta il dovere di accompagnare le inchieste sulle infiltrazioni mafiose nel tessuto lombardo all' impegno di spiegare agli studenti la realtà che ci circonda. Lo ribadisce il prefetto Filippo Dispenza, attuale commissario a Vittoria, ricordando come ha dovuto incredibilmente sfidare alcuni presidi del centro ragusano per invitarli a portare i propri ragazzi a teatro. Il sociologo Nando Dalla Chiesa constata invece che le «lezioni di legalità» hanno prodotto scarsi risultati e prova a capirne le ragioni. «Non serve una visione spettacolare dell' educazione, organizzare un incontro e poi nulla più, serve dare continuità ai messaggi da trasmettere ai ragazzi». Borrometi ricorda un episodio ricostruito anche nel libro. «Andai a parlare in una scuola ad Avola e feci il nome del capomafia locale che era in carcere. Il giorno dopo i familiari e il suo avvocato chiesero al preside di poter spiegare anche loro le ragioni per cui era detenuto, invocando una sorta di par condicio». Una richiesta che svela bene l' ambiente della provincia di Ragusa che lui racconta. «Il merito della sua attività giornalistica è quello di avere mostrato il livello di condizionamento mafioso in luoghi dove molti ritenevano che la mafia non fosse così radicata» ricorda il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana introducendo il dibattito. Borrometi sta pagando pesantemente quello che rifiuta di chiamare eroismo ma «dovere civico di descrivere con nomi e fatti ciò che vedo attorno a me». Ha subito minacce e violenze fisiche. «Ho paura, sì ho paura» ammette. E si commuove quando ringrazia «i ragazzi della scorta, che rischiano anche loro la vita per garantire che io possa continuare a fare il giornalista. E soprattutto per assicurare la libertà di questo Paese, la cosa più importante che ci sia». (Corriere della Sera)
|