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L'immagine del fotoreporter che lascia la sua macchina per aiutare una profuga Rohingya in fuga dal Myanmar rilancia l'eterna questione dei giornalisti al bivio fra testimonianza e soccorso. SCATTARE O AIUTARE IL DILEMMA DEL FOTOGRAFO

di Michele Smargiassi/larepubblica


4.11.2017 - Quel momento arriva per tutti, non c' è fotoreporter che non abbia un doloroso racconto chiuso nel cuore, spesso intriso di rimorso. Il momento in cui devi scegliere se aiutare o fotografare. Ma in questa fotografia diramata ieri dalla Reuters, quel dilemma lacerante fra dovere professionale e dovere umano sembra risolversi in una sola immagine. È la foto di una donna che rischia di essere inghiottita dal fango. C'è una mano che sbuca dal bordo sinistro dell'inquadratura, la afferra, cerca di trascinarla in salvo. Sembra la mano di un fotografo: si vede la tracolla della sua Canon.  Sappiamo la storia, come è stata raccontata ai media dalla fotografa. Fiume Naf, al confine fra Myanmar e Bangladesh, guado della paura per migliaia di Rohingya in fuga dalle persecuzioni birmane. Hannah McKay è una giovane fotografa londinese al suo primo incarico all'estero.  Quattro del pomeriggio di due giorni fa, i fotografi si fanno largo fra le guardie bengalesi, davanti a loro la calca interminabile dei profughi che cercano di risalire un argine fangoso, esausti, stremati, quella donna scivola, chiede aiuto. Un altro fotografo Reuters, Adnan Abidi, allunga una mano. Un suo collega fa altrettanto. Anche Hannah, che intanto ha scattato, quando le arriva a portata le afferra una gamba. La tirano su. «Sei lì con la tua fotocamera e sai che devi fare il tuo mestiere. Poi improvvisamente il tuo cuore prende il sopravvento sulla tua mente».
La didascalia dell'agenzia dice "fotografi aiutano rifugiati Rohingya". Il fotografo è dentro la notizia. Uno strappo alla convenzione del testimone professionale, "occhio olimpico" e distaccato. Ma uno strappo anche alla maledizione del testimone impotente o cinico. Dunque si può sfuggire al rasoio affilato di una scelta etica che già quarant' anni fa l' implacabile Susan Sontag incise nel marmo del suo libro "Sulla fotografia": «Fotografare è essenzialmente un atto di non intervento. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire». In questo caso invece abbiamo la foto, e abbiamo anche l'aiuto. E non è la prima volta, se vogliamo: Sontag stessa avrebbe dovuto conoscere almeno un caso, molto famoso, quello della "Napalm Girl", la bambina nuda con la schiena bruciata in fuga da un villaggio sudvietnamita, nel 1972. Quella foto di Nick Ut vinse un premio Pulitzer, ma la piccola Kim Phuc sopravvisse anche per i soccorsi che Ut, e altri fotografi, le diedero subito, coprendola, dandole da bere, portandola in jeep a un ospedale. Fotografare o aiutare può non essere un dilemma atroce.
Ma non facciamoci illusioni, non è sempre così. I casi di coscienza, spesso confessati da fotografi angosciati dai ricordi, sono molti di più. Ian Berry, di Magnum, in Congo fotografò un linciaggio tribale: «Con mia vergogna non mi venne in mente di fare nulla». Greg Marinovich, coraggioso fotografo sudafricano anti-apartheid, al suo primo servizio documentò un pestaggio a morte in un sobborgo nero, «sono disgustato dal ricordo di quanto fui vigliacco, da allora mi ripromisi di intervenire ogni volta che potessi ». Forse lo strazio più irrimediabile fu quello di Kevin Carter, anche lui sudafricano: la sua foto di un avvoltoio in agguato dietro un bambino denutrito durante una carestia in Sudan vinse un Pulitzer nel 1993, ma i lettori americani vollero sapere che cosa era successo dopo, se Carter avesse o no salvato quel bambino. Carter non seppe dirlo così diedero a lui dell' avvoltoio: qualche mese dopo si suicidò. Il dilemma del fotoreporter esiste, e colpisce duro, quel dilemma che fra colleghi si esorcizza con macabre battute, «Sei un fotoreporter e vedi un famoso attore che annega in un canale, cosa scegli? Grandangolo o teleobiettivo?». Fotografare o aiutare? Cosa stabilisce dunque l' etica del mestiere? «Non esiste un' etica del fotografo», risponde abitualmente Ferdinando Scianna a questa domanda, «esiste l' etica dell' essere umano». È la coscienza del singolo che può decidere, in ogni situazione, cosa sia giusto, possibile, urgente. Ma se Donna Ferrato non avesse iniziato a scattare, per rabbia e disperazione, mentre una sua amica veniva picchiata dal marito, il suo lavoro di denuncia della violenza domestica contro le donne, diventato un possente manifesto femminista, non sarebbe mai esistito.
E poi, è davvero solo un dilemma del fotografo? Sull' occhio testimone si scarica spesso l' ipocrisia di una società mediatizzata, video-onnivora, che chiede ai fotografi di mostrare i mali del mondo, per poi accusarli di cinismo.
Capri espiatori della cattiva coscienza di un'intera opinione pubblica. Frank Fournier non poteva salvare la piccola Omayra Sanchez, 14 anni, rimasta incastrata nel 1985 fra le macerie della sua casa distrutta dall' eruzione del vulcano Nevado del Ruiz e morta dopo 60 ore di agonia.
Ne fotografò il volto dolcissimo e lo sguardo straziante. Fu accusato di sfruttamento del dolore. Ma senza quella fotografia quanti si sarebbero fatti domande su un governo troppo occupato a combattere una guerra civile per mandare aiuti alle vittime di una catastrofe annunciata? Davvero la fotografia del dolore non può essere altro che cinismo sfruttatore? Tra fotografare o aiutare, e fotografare e aiutare, può esistere anche l' opzione: fotografare è aiutare. Il mestiere del fotografo è fotografare: giudichiamolo per come lo fa, non perché non ha smesso di farlo. Per Joseph Conrad «un romanzo scritto bene è una buona azione ». Forse anche una fotografia fatta bene lo è.
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LO SCATTO Nell' immagine di Hannah McKay della Reuters, un collega della fotografa lascia la macchina per aiutare una profuga Rohingya in fuga al confine fra Myanmar e Bangladesh: a sinistra, la cinghia che sostiene la macchina fotografica è a terra.






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