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Stampa

Libero, 5 maggio 2008
LE CONFESSIONI
DI PAOLO MIELI

di Barbara Romano

Giornali, zero. Libri, a non finire nello studiolo del Pontifex Rcs Maximus Paulus Secundus: così Massimo Giannelli ha vignettizzato Paolo Mieli. Più che l'ufficio del due volte direttore del Corriere della Sera, sembra la Biblioteca Ambrosiana. Volumi di ogni foggia, spessore ed età torreggiano sulla sua scrivania, dietro la quale si staglia il tradizionale armamentario enciclopedico di via Solferino: la Treccani dal 1938 a oggi. Di lato, il computer, fisso sull'homepage di Dagospia.


C'è persino un'edizione del 1564 delle "Opere Morali" di Cicerone avuta in dono dalla Fallaci, che lui tiene sotto chiave nel cassetto. Assieme a un tomo di Hermann Rauschning, "Hitler mi ha detto..." (Edizioni delle Catacombe), datato 1944: altro regalo di Oriana. Mieli è così: (poco) direttore e (molto) prof. «Sarà un retaggio di mio padre», spiega, «ma mi sta molto a cuore la doppia identità: se una cade l'altra va avanti. Ecco perché considero fondamentale avere due lavori».


Oltre a dirigere il Corriere, da cinque anni tiene un corso di Storia contemporanea alla Statale di Milano. «È lì che mi sento veramente arrivato», confessa. «Il giornalismo, invece, è relativo. È quando sto in cattedra o correggo una tesi e ho a che fare con gli studenti, che mi sento veramente un padreterno». Non che non gli piaccia fare il direttore. L'unica foto nell'ufficio è quella che lo ritrae assieme ai padri fondatori del Corriere, accanto a un manifesto di Mao.


Ce l'ha messa tutta a risalire la china dopo l'emorragia di copie provocata dal suo editoriale dell'8 marzo 2006 in cui invitava i lettori a votare Prodi. Ora i dati Audipress lo premiano. Nell'ultima rilevazione il Corriere segna un +4,1%, contro il +1,6% di Repubblica. E addirittura un +5,6 rispetto all'autunno 2006. Letto ogni giorno da 2.722.000 persone, il quotidiano diretto da Mieli è quello che cresce di più in Italia (dopo Libero: +4,5%).


Pensa di aver riparato al danno prodotto con il suo endorsement in favore di Prodi? «Certo. Anzi, quel 5% di lettori del Corriere che reagirono male all'endorsement li abbiamo ripresi e sono anche cresciuti di numero. Perché hanno avuto modo di interpretare il senso di quella scelta».


Lei suggerì loro di votare Prodi, non c'è molto da interpretare.


«La mia non era una scelta di schieramento. L'endorsement, per come lo intendevo io, era di tipo anglosassone: ci lasciava anche liberi di criticare il governo quando andava criticato».


Quanti elettori fece perdere al Corriere?


«In quella primavera-estate ci fu uno scostamento di qualche decina di migliaia di copie».


Il suo vicedirettore Massimo Mucchetti, nel libro "Il Baco del Corriere", racconta che furono 40mila le copie perse.


«Confermo».


Quando decise di schierare il Corriere aveva previsto simili effetti?


«Quando uno fa una scelta di quel tipo mette in conto che le conseguenze possano essere complesse. Ma quei lettori, col tempo, sono rientrati».


Sì, ma allora creò il panico in azienda. Nel Cda del 14 luglio 2006, l'ex ad di Rcs, Vittorio Colao, denunciò che il bilancio risultava gravato da 12 milioni di oneri aggiuntivi necessari per tamponare la perdita di 40 mila copie prodotta dal suo editoriale.


«In effetti, la mia scelta creò dei problemi. Ma penso di aver fatto bene».


Quindi lo rifarebbe?


«No, col senno di poi non lo rifarei».


Si è pentito dell'endorsement?


«No, perché ho fatto una scelta che rientra nei canoni del giornalismo più moderno. Ovviamente mi brucia ancora il bailamme che ne scaturì. Ma pur rimanendo una cicatrice sulla mia immagine, alla lunga sono convinto che il mio sarà considerato un precedente positivo».


Se non si è pentito, perché dice che non lo rifarebbe?


«Se tutti i lettori fossero in grado di capirne il senso, lo rifarei. Ma se c'è anche una piccola minoranza che fraintende, non ne vale la pena. I direttori degli altri grandi giornali fanno continuamente l'endorsement, ma con la mano sotto il tavolo».


I dati sulle vendite del Corriere spesso vengono contestati. Nel computo rientrano solo le copie vendute o anche quelle distribuite sugli aerei e quelle regalate?


«I dati sulle copie vendute sono forniti mese per mese dalle aziende editoriali che valutano le copie all'ingrosso, mettendoci dentro tutto: copie vendute in edicola, porta a porta, in tandem con altri giornali e quelle regalate».


Tutti hanno visto i camion distribuire gratis il Corriere...


«Tutti i giornali distribuiscono copie gratis, Libero compreso. Non è che sugli aerei non c'è Libero».


Non più. Ma è possibile sapere quante sono le copie del Corriere effettivamente vendute?


«Ogni giornale ha il suo dato sulle copie diffuse, ma quello sulle copie effettivamente vendute non è scomponibile da quello delle copie regalate».


Nell'editoriale dell'8 marzo lei si schierò con l'Unione e Berlusconi disse: «Sapete che prima delle elezioni, gli azionisti del Corriere prima e Paolo Mieli poi, vennero da me a garantirmi l'appoggio al voto?". Andò veramente così?


«Incontrai Berlusconi prima del voto e parlammo della situazione politica in generale, ma non gli garantii assolutamente nulla».


A Capri, al congresso dei giovani di Confindustria di ottobre, lei fu durissimo contro il governo: «Le cose fatele, non limitatevi a dirle». Se non è una retromarcia questa...


«Prodi ha dato una buona prova di governo. Ma la sua maggioranza si è comportata in maniera veramente disdicevole. Siccome il mio endorsement l'ho fatto nei confronti del governo Prodi e della possibilità di questa maggioranza di dimostrarsi all'altezza della prova, penso che almeno uno dei due termini del mio editoriale fosse radicalmente sbagliato».


Chi voterà questa volta?


«Devo ancora decidere se rifarò o no l'endorsement. Siccome probabilmente non lo rifarò, o almeno non nei termini in cui l'ho fatto nel 2006, se dicessi chi voto è come se lo rifacessi».


Ma non l'ha già rifatto con il suo editoriale dell'8 febbraio scorso, che benediceva la corsa solitaria di Veltroni?


«No, tant'è vero che non ha avuto l'effetto dell'endorsement. Quell'editoriale voleva essere una constatazione, che di lì a poche ore si è rivelata giusta».


Quale?


«Veltroni, con la sua scelta di andare da solo, ha messo in moto un processo virtuoso e per il centrosinistra e per il centrodestra. Quindi do un giudizio positivo di tutte e due le forze ai nastri di partenza».


Chi vincerà le elezioni?


«Mi sembra una partita tutta da giocare. Ma se fossi uno scommettitore inglese punterei tutto su Berlusconi»


Lei è stato due volte direttore del Corriere, dopo aver diretto la Stampa, passando per Repubblica e l'Espresso. Quando va a dormire la sera si sente Dio onnipotente o un uomo a corto di desideri?


«Io ho un sacco di desideri e quando vado a dormire ho un sacco di pensieri. Molti di lavoro, ma anche pensieri lieti».


Come ha fatto a inanellare una carriera così strepitosa?


«Ho cominciato a lavorare molto giovane in un'Italia che era molto diversa. Nel 1967, un diciottenne appena uscito dal liceo poteva essere assunto in un giornale prestigioso come l'Espresso, allora diretto da Eugenio Scalfari. Tutto un altro mondo il giornalismo a quei tempi. Pensi: si poteva persino licenziare. Tant'è che quattro anni dopo io fui licenziato».


Perché Scalfari la licenziò?


«Perché l'azienda viveva un momento di difficoltà economica. Ma mi tennero con un contratto di collaborazione e due anni dopo mi riassunsero».


Cosa fece nel frattempo?


«Ne approfittai per laurearmi in Storia contemporanea con Renzo De Felice, il grande storico del fascismo, e divenni suo assistente. Mi laureai nel 1972 con una tesi sul corporativismo fascista in pieno periodo di contestazione».


Come visse il '68?


«Dentro il movimento studentesco. Negli anni tra il '68 e il '72 io ero tre cose contemporaneamente. Primo: ero giornalista dell'Espresso, dove tenevo un diario sulla sinistra extraparlamentare. Secondo: militavo in un gruppo che precedette la costituzione di Potere Operaio, dove c'erano Oreste Scalzone, Franco Piperno, Toni Negri, con i quali rimanemmo amici anche negli anni successivi. Terzo: facevo lo studente applicato di De Felice».


Come mai un militante di Potere Operaio decide di fare una tesi sul fascismo?


«Perché successe la cosa più importante della mia vita: l'incontro con De Felice, la rivoluzione copernicana della mia esistenza giovanile. Me lo presentò mio padre: un ex comunista che aveva diretto l'Unità ed era poi uscito dal Pci nel '56, dopo la rivolta d'Ungheria. De Felice mi affascinò, convincendomi che il centro della vita di un individuo è interessarsi in profondità dell'altro da sé, di quella porzione di ragione che ha chi si trova nel campo opposto, politicamente e culturalmente, perché lì puoi scoprire un tesoro».


Lei è figlio d'arte. Crede che il suo destino sarebbe stato lo stesso se suo padre non fosse stato Renato Mieli?


«Mio padre era un ebreo di Alessandria d'Egitto che venne in Italia. Ma durante le leggi razziali si rifugiò in Medio Oriente. Rientrò cambiando identità, nei panni di un colonnello dell'esercito inglese di nome Ralph Merrill. Non considero mio padre un giornalista. Quindi non mi considero un figlio d'arte».


Suo padre fu anche il fondatore dell'Ansa.


«Fondò l'Ansa perché gli inglesi sapevano che era un intellettuale di spessore. Entrato nel Pci, divenne anche direttore dell'Unità nel '49, l'anno in cui nacqui io. Ma poi lasciò la direzione nel '54, per andare a Roma a dirigere la sezioni Esteri del Pci. Nei primi tempi, fummo ospitati da Maurizio e Marcella Ferrara, i genitori di Giuliano, che per me è stato un fratello per tutta l'infanzia e l'adolescenza».


Che rapporto ha lei con l'ebraismo?


«Io mi sento ebreo, anche se "tecnicamente" non lo sono, essendo figlio di padre e non di madre ebrea. Pur non professando alcuna religione, mi sento molto vicino al mondo ebraico».


Che rapporto aveva con suo padre?


«Molto forte. Anche se era più forte il rapporto con mia madre, perché da quando avevo sette anni, quando i miei si separarono, ho vissuto con lei».


 


Quando fu preso dal sacro fuoco del giornalismo?


«Nel 1967, l'anno in cui feci la maturità classica al Tasso, complice il papà della mia fidanzata dell'epoca, che era un giornalista dell'Espresso, Enrico Marussig. A settembre mi presentò, feci l'abusivo qualche mese e mi assunsero».


Cosa sognava di fare da bambino?


«Il professore universitario. Facevo attività politica. Mi iscrissi prestissimo alla federazione giovanile comunista. Ero dissidente da destra e poi fui travolto dal '68. Ma non sono mai stato maoista. Anche se per vezzo nel mio ufficio tengo un manifesto della rivoluzione culturale di Mao, come una citazione forzata di quello che sono stato».


Doveva essere un secchione...


«No. Fui anche rimandato in storia in quinta ginnasio. Ma ero stato malato, quindi sono giustificato. Anche all'esame di giornalista sono stato bocciato, all'orale».


Paolo Mieli bocciato all'esame di giornalista?


«Cominciarono a torchiarmi con delle domande giuridiche, ma io sapevo poco o niente perché avevo saltato quella parte del programma. Provai a bofonchiare qualcosa. Mi bocciarono».


Quando nell'85 Piero Ostellino volle assumerla al Corriere, lei disse no. Perché?


«Preferii andare a Repubblica, dove mi aveva chiamato Scalfari, con cui avevo lavorato 18 anni all'Espresso. Ma non mi trovai bene».


Perché?


«Perché il passaggio dal settimanale al quotidiano fu un trauma. Il caos e la competitività mi davano ansia e resistetti poco».


Se soffriva d'ansia, come ha fatto nel giro di pochi anni a diventare direttore di due quotidiani: prima della Stampa e poi del Corriere?


«Tutto cominciò con un'intervista che feci a Gianni Agnelli per Repubblica nell'85. Andai da lui a Torino e passammo una giornata intera insieme. Da allora mantenemmo un rapporto di amicizia. E tutte le volte che lui veniva a Roma mi invitava a cena. Ogni tanto andavamo anche in vacanza e a sciare insieme. Quando, nell'86, il direttore della Stampa, Gaetano Scardocchia, propose di assumermi, Agnelli si dichiarò molto contento e il nostro rapporto si intensificò. Nel maggio del '90, Scardocchia lasciò. E Agnelli mi chiamò a dirigere la Stampa, nonostante avessi 41 anni. Nell'autunno del '92, siccome la proprietà era la stessa, e l'Avvocato aveva grande voce in capitolo, mi mandarono a dirigere il Corriere».


Sul Corriere non compaiono quasi mai suoi editoriali. Non le piace scrivere?


«Mi piace. Non scrivo perché penso che il compito di un direttore sia di far scrivere gli altri. Io mi vedo più come direttore d'orchestra che come concertista».


Cosa pensa dei giornalisti?


«Secondo me, i direttori dei giornali fanno poco perché le persone eccezionali possano venir fuori e le meno eccezionali restino un passo indietro».


E lei cos'ha fatto per invertire la tendenza?


«Preferisco non parlare di me. Da osservatore - è un espediente retorico perché giudico anche me stesso - mi sembra che oggi i direttori abbiano le mani molto legate».


Non tutta la categoria stima il mielismo, ribattezzato "giornalismo con la minigonna".


«Come tutti i generi, il mielismo ha vissuto un momento felice all'inizio degli anni Novanta e poi un'orribile deformazione, in cui io sono il primo a non riconoscermi. Sono state messe sul mio conto cose con le quali io non c'entro nulla».


Lei fa un mestiere complicato: deve soddisfare i tanti lettori del Corriere senza contrariare una quindicina tra i più grandi centri di potere di questo Paese, tanti quanti sono i grandi azionisti del suo quotidiano. Quando si guarda allo specchio la mattina pensa di più ai lettori o ai suoi editori?


«In questo ultimo anno sono cresciuti i miei lettori, non i miei azionisti».


Quanto tempo dedica al Corriere e quanto al suo personaggio?


«Il mio tempo è interamente dedicato al giornale, alle mie letture e ai miei amici personali, gran parte dei quali non sono giornalisti».


I detrattori dicono che lei non fa giornalismo, ma politica.


«È vero. Un grande giornale che si impone con i suoi editoriali influenza la politica: è scritto per questo».


Pensa di scendere in campo prima o poi?


«Mai».


Le sarebbe piaciuto se l'avesse fatto Luca di Montezemolo?


«Sarebbe un buon presidente del Consiglio, ma siccome siamo amici non gli suggerirei mai di entrare in politica. Penso abbia fatto bene a chiarire che non intende farlo».


Che ne pensa della discesa in campo di esponenti di spicco di Confindustria, come Matteo Colaninno e Massimo Calearo, nelle file del Pd?


«Dal momento che non è sceso in campo Montezemolo, queste mi sembrano candidature fatte a titolo personale, che danno il senso dell'immagine che Veltroni vuole imprimere al Pd: un partito non delle barricate, ma delle compatibilità. Forse la candidatura più dirompente in questo senso è quella del nostro editorialista Piero Ichino. Del resto, a ogni campagna elettorale si arruola un editorialista del Corriere che poi diventerà ministro. È già successo con Tremonti e con Padoa Schioppa. Ora ricapita con Ichino».


È convinto che Ichino diventerà ministro?


«Di sicuro, se vincesse il centrosinistra, Ichino sarebbe un ottimo ministro».


Lo vedrebbe bene al ministero dell'Economia?


«Lo vedrei meglio al Welfare».


A luglio, a Cortina, lei disse: «Bisogna vedere se quando Veltroni prenderà in mano lo scettro del Pd sarà rimasto qualcosa». È rimasto qualcosa?


«Io penso che il Pd possa prendere tra il 35% e il 40%. E se accadrà, le elezioni, anche se trionferà Berlusconi, le avranno vinte in due».


Riconosce meriti a Berlusconi?


«Enormi. Innanzitutto quello di aver fondato il centrodestra. È riuscito a mettere insieme una formazione politica che resisterà anche quando lui non ci sarà più. Berlusconi è sicuramente un grandissimo personaggio della politica. E se dovesse vincere le elezioni per la terza volta, dopo essere stato sulla scena politica per 15 anni, lo spazio a lui dedicato nei libri di storia non sarà limitato alle formulette che usiamo oggi. Ci vorrà una riflessione profonda su quest'uomo che ha segnato nel bene e nel male la storia recente di questo Paese. Il male è stato ampiamente dibattuto. Ma il bene merita di essere anch'esso esaminato».


Qual è l'aggettivo che connota meglio Berlusconi?


«Grande. Discusso. Ma, soprattutto, sorprendente. Berlusconi è un uomo che ha rotto gli schemi».


La chiama spesso?


«Non spessissimo. Però ci sentiamo. Ci incontriamo».


Che rapporto avete?


«Di grande cortesia. Il mio rapporto con Berlusconi è contrassegnato da due episodi nei quali il Corriere non è stato tenero con lui. Uno risale al 1994, quando pubblicammo la notizia dell'avviso di garanzia che diede uno scossone al suo governo, che di lì a poco sarebbe caduto. E l'altro è quello dell'endorsement. Mi ha sempre stupito che questi due fatti, dei quali per un politico normale uno basterebbe, in lui non abbiano lasciato il segno».


Sicuro? Berlusconi non perde mai occasione di sparare contro «la stampa nemica», Corriere compreso...


«Certo, a ridosso di quei fatti non mi ha parlato, ha avuto delle reazioni infastidite. Ma col tempo il nostro rapporto è sempre ripreso».


Con lei, in privato, il Cavaliere si lamenta molto del Corriere?


«Mai».


Da Prodi ha subito pressioni?


«Pressioni, no. Però da parte di Prodi non ho avuto neanche grandi attestati di simpatia».


Può sopravvivere il Corriere con tutti questi azionisti?


«Certo. È evidente che si tratta di forti personalità che la pensano una diversamente dall'altra, tutte con interessi diversi. Ma la cosa che mi dà più soddisfazione è quando il Corriere della Sera viene individuato, a torto o a ragione, come portatore di una politica dei poteri forti, perché vuol dire che è riuscito questo lavoro sottile di tessere un'identità comune. Il direttore io lo vedo come un regista, un punto di equilibrio tra identità diverse. Questo vale tanto per gli editorialisti quanto per gli azionisti».


Mucchetti, invece, dice che un giornale non può avere un board editoriale che somiglia a un campo da golf.


«Sono visioni diverse. Non è che ci voglia molto a mettere insieme tutti gli amici di Berlusconi o tutti gli amici di Veltroni. Ma è molto più interessante trovare un punto d'intesa dinamico».


Quanto "paraculismo" ci vuole per dirigere un giornale con quindici padroni diversi?


«Pochissimo. È un'idea semplicistica pensare che un problema così si possa risolvere con la furbizia».


Che rapporto aveva lei con Enzo Biagi?


«Molto affettuoso, ma adulto, senza smancerie. Negli ultimi giorni della sua malattia è stato molto più lui vicino a me che non io a lui. Mi telefonava e, poiché sapeva che anch'io sono cardiopatico, si informava lui del mio stato di salute e mi dava consigli».


Lei ha avuto diversi matrimoni. Questo vuol dire che è un uomo fedele?


«Sì, ho avuto più matrimoni e figli da ogni matrimonio. Io penso che significhi qualcosa della mia vita».


L'8 marzo il suo editoriale lo dedicherà alle donne o al voto?


«Né all'uno né all'altro. E poi, nel mondo succedono cose più importanti delle elezioni del 13 e 14 aprile».


 





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