di Franco Abruzzo*
La libertà di stampa in Italia e nei Paesi del Continente europeo è vigilata dalla legge. Non esiste il diritto di pubblicare quello che si vuole. Lo stesso articolo 21 (sesto comma) della Costituzione “vieta le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume” e annuncia “provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”. Buon costume significa comune sentimento della morale. I limiti all’esercizio del diritto di cronaca e di critica sono sostanzialmente due e sono racchiusi nell’articolo 2 della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica: il rispetto della dignità della persona e il rispetto della verità sostanziale dei fatti. Questi principi riflettono norme costituzionali e valori affermati in diverse sentenze della Corte costituzionale e in particolare nella sentenza 112/1993: “Sotto il primo profilo, questa Corte ha da tempo affermato che il “diritto all'informazione” va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale. Di qui deriva l'imperativo costituzionale che il “diritto all'informazione” garantito dall'art. 21 sia qualificato e caratterizzato: a) dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie...; b) dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti; c) dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata; d) dal rispetto della dignità umana, dell'ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori”.
L’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa punisce, con la pena della reclusione da tre mesi a tre anni, la pubblicazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Questo principio vale per tutti i media. L’articolo 15 è stato esteso al sistema televisivo pubblico e privato dall’articolo 30 (comma 2) della legge n. 223/1990 (o “legge Mammì”).
L’articolo 15 della legge sulla stampa è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293/2000. In sostanza il divieto di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante non contrasta con la Costituzione perché è diretto a tutelare la dignità umana. “Quello della dignità della persona umana – ha affermato la Corte - è valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale”. Bisogna intendersi sul concetto di raccapricciante e impressionante. Ci aiuta la giurisprudenza. I giudici hanno ritenuto che fossero raccapriccianti e impressionanti le foto del cadavere di Aldo Moro, quelle del corpo in decomposizione di Alfredino (il piccolo finito nel pozzo di Vermicino); le immagini della contessa Alberica Filo della Torre; le foto delle piccole vittime della pedofilia. “L’articolo 15 della legge sulla stampa del 1948.... non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando - ha scritto la Corte costituzionale - vieta gli stampati idonei a “turbare il comune sentimento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’articolo 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata. Solo quando la soglia dell’attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività, scatta la reazione dell’ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell’uso prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità di un’attenta valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana”.
La Cassazione (Sezione Terza Penale, sentenza n. 23356/2001), richiamando l’indirizzo della Consulta, ha affermato - nella vicenda che vedeva coinvolti il direttore e due redattori di un settimanale milanese (condannati dalla Corte d’Appello di Milano alla pena di tre mesi di reclusione e di lire trecentomila di multa ) - che “l’esercizio del diritto di cronaca, pur pienamente legittimo in una società democratica ed aperta, deve salvaguardare come valori fondamentali il comune sentimento della morale e la dignità umana tutelate dall’articolo 2 della Costituzione. I giudici di appello - ha osservato la Suprema Corte - hanno correttamente motivato la loro decisione rilevando che le immagini della vittima dell’omicidio "sono tali da destare impressione e raccapriccio nell’osservatore di normale emotività, improntata ad impulsi di solidarietà umana, pietà per la defunta, rispetto per la sua spoglia, repulsione istintiva verso le ferite efferatamente impresse, salvaguardia della dignità della persona già uccisa in quel modo ed ulteriormente oltraggiata dalla pubblica ostensione del suo corpo, naturale esigenza di riservatezza verso l’intimità fisica personale rinforzata dalla condizione mortale del soggetto".
Il terrorismo si può combattere, come diceva Mc Luhan, anche staccando la spina. Consiglio che la stragrande maggioranza della stampa italiana ha fatto proprio nel caso del filmato orribile sulla decapitazione di Nick Berg.
Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e il Consiglio nazionale dell’Ordine hanno fatto proprio l’indirizzo della Corte costituzionale sul piano deontologico nella vicenda di “Libero”, conclusasi con la sanzione della censura per il direttore del quotidiano (radiato dall’Albo in primo grado). “Libero” aveva pubblicato il 28 settembre 2000 otto immagini raccapriccianti di bambini violentati. Il direttore ha patteggiato due mesi di reclusione per questi fatti e ha poi dichiarato al “Foglio” che non avrebbe mai in futuro ripetuto l’errore.
Come corollario finale possiamo dire che le violazioni dell’ordinamento penale implicano anche un attentato alla legalità deontologica della professione giornalistica.
*presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia