Tra i pregiudizi di cui non si verrà probabilmente mai a capo, continua ad andare per la maggiore quello secondo cui il divario del Sud rispetto al Nord risalirebbe al saccheggio delle risorse del Mezzogiorno dopo il 1861 per mano della classe dirigente sabauda e dei suoi sodali. Poiché il Regno delle Due Sicilie sarebbe stato più ricco e progredito delle regioni settentrionali. II Meridione avrebbe perciò subìto un vero e proprio sfruttamento coloniale tale da condannarlo a uno stato di degrado.
Si tratta di un teorema tanto più suggestivo quanto di facile maneggio che ha alimentato così, fra numerose persone in buona fede del Mezzogiorno, una sindrome vittimistica e autoconsolatoria. E che, a onta di tante analisi circostanziate sulle reali condizioni del Sud a quell'epoca, si è riaffacciata, nel corso del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, con l'apologia del brigantaggio, dipinto alla stregua di una sacrosanta sollevazione popolare contro la "conquista piemontese": come se la gente del Sud avesse vissuto fino ad allora felicemente, invece che sotto una monarchia dispotica e in balia, nelle campagne, di un regime semifeudale.
Non è che con questo, naturalmente, ci si dimentichi che l'unificazione della Penisola è avvenuta in capo a una sanguinosa "guerra civile"; e neppure s'intende sorvolare sul fatto che Napoli diventò italiana più per opportunismo che per convinzione, in quanto era stata scarsa, nel Mezzogiorno continentale, l'adesione agli ideali patriottici (salvo quella di una pattuglia di uomini di cultura esuli a Torino o all'estero).
Sappiamo infatti che la conquista della libertà e dell'indipendenza fu un evento complesso e travagliato, con risvolti contraddittori e non esente da episodi drammatici o poco edificanti.
Ma una cosa è una valutazione realistica e spassionata dell'annessione del Mezzogiorno; altro è darne una rappresentazione distorta e fuorviante, riesumando certi vetusti e rancorosi anatemi del legittimismo reazionario e del clericalismo settario contro l'avvento dello Stato liberale italiano. Che è quanto si evince anche da una rievocazione artificiosa del trattamento riservato ai soldati di Francesco II catturati durante la campagna militare al Sud, quale è stata costruita sulla base per lo più di una denuncia dei misfatti che sarebbero stati commessi nei loro confronti, formulata nel gennaio 1861 da «Civiltà Cattolica», ripresa dalla pubblicistica filoborbonica e riesumata, ingigantendola, in tempi recenti da alcuni gruppi neoborbonici. Tant'è che essi sono giunti a sostenere che gran parte dei giovani dell'esercito delle Due Sicilie vennero pressoché interamente sterminati, una volta deportati al Nord.
In particolare, il forte di Fenestrelle, in val Chisone, sarebbe stato l'epicentro di un eccidio di massa, giacché, secondo la rivista dei Gesuiti, nelle sue gelide "casematte" vennero segregati, «peggio dei negri schiavi» per aver rifiutato di essere arruolati sotto la bandiera tricolore, migliaia di prigionieri meridionali per poi essere lasciati deliberatamente morire di fame e di stenti. Al punto che la loro sorte è stata paragonata - da quanti nel luglio 2008 apposero una lapide alle mura di quel famigerato forte, in memoria delle vittime che vi sarebbero state sepolte, gettate nella calce viva - all'orrenda tragedia degli ebrei annientati nei lager nazisti.
Alessandro Barbero ha voluto accertare se fosse realmente accaduto un simile genocidio. E l'ha fatto mediante una vasta ricerca documentaria (talmente scrupolosa da essere talora eccessivamente minuziosa) nell'Archivio di Stato di Torino e in quello dello Stato Maggiore dell'esercito a Roma. Da questa sua ricognizione risulta che non venne perpetrato alcuno sterminio come si è favoleggiato, ma che si registrarono vari decessi per cause naturali o fortuite. Certo, nel clima convulso di quel periodo, non mancò, fra le autorità militari, chi trattò i "vinti" con disprezzo e alterigia; e chi calcò la mano per costringerli a prestare giuramento di fedeltà al nuovo sovrano: come, del resto, si sapeva dagli studi degli storici che hanno analizzato le misure assunte da Cavour e dai suoi successori nei riguardi degli ex militari borbonici che, dopo il loro trasferimento coatto in Piemonte e in Lombardia, non accettarono di venire arruolati.
Quanto al complotto che alcuni di loro, inquadrati nel Corpo dei Cacciatori Franchi, avrebbero ordito con l'intento di impadronirsi della fortezza di Fenestrelle e di marciare poi con altri commilitoni su Torino, si trattò di un'altra delle favole messe allora in giro dai giornali clericali. I soldati, meno di una decina, che vennero arrestati nell'agosto 1861, con l'accusa di ammutinamento e incitamento alla diserzione, furono infatti assolti nel gennaio 1862 dal Tribunale militare per «deficienza di sufficienti indizi».
Si è eccepito a Barbero, in quanto medievista, di essersi occupato di un argomento che non rientra nella sfera della sua disciplina: come se non contassero le prove documentarie da lui addotte per sfatare una leggenda sulle vicende dei prigionieri borbonici, frutto di una mistificazione. D'altronde, essa era rispuntata negli ultimi tempi sulla scia di eclatanti exploit pubblicistico-mediatici sul cosiddetto "lager dei Savoia", e non tanto in sede storiografica.
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Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza, pagg. 370, € 18,00