di ALBERTO ARRIGONI
pubblicista e dottore commercialista
Il rapporto sia formale che sostanziale tra i giornalisti pubblicisti ed il fisco ha sempre vissuto una generica reciproca indifferenza, con conseguenze certamente negative e da rimediare al più presto.
Cominciamo dall’inizio, senza pretendere di ripercorrere tutta la storia tributaria d‘Italia e partiamo quindi dal 1973 l’anno cardine della riforma tributaria con cui abbiamo ancora a che fare.
Nasce l’IRPEF definisce in genere le attività rilevanti e quando deve occuparsi dei giornalisti non contrattualizzati in genere invece di richiamarsi ai pubblicisti usa queste parole: “ …. Sono inoltre redditi di lavoro autonomo…….quelli derivanti dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili”. (art. 49 D.P.R.597/73).
Questa dizione viene sempre ripetuta sino al 2000, quando pur mantenendo la stessa struttura letterale la categoria collaborazioni giornalistiche viene trasferita dal macro mondo del lavoro autonomo al macro mondo del lavoro dipendente.
E fin qui tranne che talune particolarità operative che interessano sostanzialmente solo i commercialisti potremmo ritenere, pur nell’imprecisione lessicale, accettabile l’inquadramento del legislatore, se non fosse che in una delle poche volte, e la più recente, in cui il ministero si è occupato di fiscalità nel giornalismo (C.M. 108/1996) troviamo una sorta di interpretazione autentica della dizione “collaborazione a giornali e riviste” in cui viene specificato che tali termini si riferiscono tipicamente al correttore di bozze od alle persone che si limitano a fornire alla redazione del giornale notizie utili alla redazione dell’articolo.
Rimane la curiosità, mai soddisfatta, di comprendere la necessità della differenza tra giornali e riviste, e la portata della dizione simili, ma con queste precisazioni si deve concludere che il reddito del pubblicista, fiscalmente, non era fino a 2001 reddito assimilato a quello professionale con le relative semplificazioni, e non potrebbe essere ora assimilato al reddito di lavoro dipendente; data la portata della circolare ministeriale si tratta di lavoro autonomo proprio.
Ma per comprendere meglio il percorso andiamo a vedere le definizioni letterali delle due categorie di ambiti che di interessano:
- secondo la legge professionale del 1963 sono pubblicisti “coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi…..” (art.1 L.69/93);
- secondo la legge fiscale è lavoratore autonomo “ chi esercita per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo….” (art.53 D.P.R.917/86)
Anche da una lettura non specialistica di questi due articoli di legge si avverte una differenza di portata delle due collocazioni, e questo riguarda squisitamente il presupposto dell’attività pubblicistica come inquadrata e regolamentata dall’Ordine: un pubblicista abitualmente fa altro, magari dirigente della P.A. o avvocato ecc. e svolge anche attività giornalistica retribuita, mentre un lavoratore autonomo fiscalmente esercita abitualmente quell’attività e forse fa anche altro.
Pretendere dal pubblicista per il suo reddito giornalistico i requisiti e le formalità della attività professionale propria (contabilità, posizione IVA, emissione di documenti, ritenute fiscali spesso esorbitanti ecc) è una vera e propria stortura.
Questa stortura diventa poi vessazione quando si pretende di attribuire a questi colleghi pubblicisti anche la perversa normativa della determinazione “automatica” del reddito imponibile come si ricava dall’applicazione dei parametri.
Questi elementi tecnici sono strumenti diabolici che sulla base di talune quantificazioni di costi determinano automaticamente il reddito imponibile ribaltando sul contribuente la prova negativa comunemente definita “diabolica” (come si ricava dalla costruzione: premesso che affermo automaticamente che hai prodotto XXX di reddito dimostrami il contrario).
Ebbene al n. 92.40.A i parametri codificano i giornalisti; al n. 92.40.B vengono inseriti i pubblicisti e assimilati, con gli identici coefficienti quantitativi.
Ecco che quella categoria prima ignorata, i pubblicisti iscritti all’Ordine, diviene ora specificamente nominata e importante ai fini della determinazione dell’imponibile, e viene addirittura parificata per quanto riguarda il valore dei vari coefficienti al giornalista professionista, assimilando a questo anche i c.d. assimilati!
Ma questo reddito, che deriva da una attività probabilmente non prevalente altrimenti avremmo un giornalista professionista, “pesa” come un reddito principale e mette il nostro collega nella sostanziale impossibilità di difendersi dalle pretese eccessive del fisco, che ha dalla sua l’automatismo della applicazione dei parametri.
Un circolo perverso che deve essere finalmente rotto, affermando la specificità della nostra condizione di pubblicisti esercenti una attività professionale collaterale ad un'altra attività produttrice di reddito imponibile, e questa specificità deve rideterminare una dimensione esclusiva per il pubblicista, con eventuali limiti quantitativi e con una semplificazione anche contabile come avveniva con la precedente classificazione del reddito come reddito specifico assimilato al reddito di lavoro autonomo; per definizione, inoltre, i redditi assimilati non sono soggetti a parametri!
Questo potrebbe anche produrre, con un opportuno coordinamento, l’esclusione di questa attività dagli obblighi dettati dalla disciplina antiriciclaggio, obblighi che non hanno molto senso per una attività non principale e che comportano nuovi adempimenti formali e sanzioni spropositate in caso di violazione.