Roma, 21 settembre 2012. No al carcere per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, e sì al diritto alla libertà i informazione. A lanciare l'appello sono la Federazione Nazionale della Stampa e l'Ordine dei giornalisti, intervenuti dopo che questa mattina, sulla prima pagina del quotidiano, il titolo di apertura recitava 'Stanno per arrestare il direttore del Giornale', con un articolo a firma di Vittorio Feltri. Una sorta di autodenuncia per richiamare l'attenzione sulla vicenda che vede coinvolto Sallusti, condannato in primo grado a 5 mila euro di pena pecuniaria e in appello a 14 mesi di reclusione, senza condizionale - e senza che il suo legale fosse presente -, per diffamazione a mezzo stampa a causa di un articolo, il cui autore uso' uno pseudonimo, apparso nel febbraio 2007 su Libero. All'epoca Sallusti ne era direttore e dunque chiamato a rispondere di tutto cio' che veniva pubblicato. Mercoledi' prossimo, il 26, la Cassazione dovra' esaminare il caso, ma non entrera' nel merito, controllando solo la regolarita' formale del giudizio. Cio' vuol dire che se la Corte non avra' nulla da eccepire, la sentenza sarà immediatamente esecutiva e Sallusti finira' in carcere.
''E' inaccettabile che un giornalista per fare il suo lavoro e per le sue opinioni rischi la galera - si legge in una nota diffusa dall'Fnsi -. Non e' da Paese civile. Succede solo in Italia e questa e' una delle ragioni principali per cui siamo cosi' in basso nelle graduatorie mondiali sulla liberta' di stampa. La condanna al carcere, senza condizionale, per il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, e' mostruosa e non puo' essere accettata come atto di giustizia giusta, ancorché dovesse risultare coerente con il codice penale italiano''.
L'Ordine dei Giornalisti, dal canto suo, invoca l'intervento del ministro della Giustizia Paola Severino per capire come sia possibile che una sanzione passi nei due gradi di giudizio da 5.000 euro di multa al carcere e - si legge in un comunicato - ''viene da domandarsi se era davvero impossibile differire quell'udienza per riconoscere a Sallusti il sacrosanto diritto ad una difesa non rituale. In un mondo, quello della giustizia, che accumula ritardi di anni, che cosa ha impedito un rinvio?''.
La vicenda ha suscitato reazioni anche nel mondo politico. Per Alfonso Papa (Pdl) ''il carcere per un giornalista e' una vergogna. Ormai l'Italia e' il Paese delle condanne preventive ed esemplari. Come puo' definirsi liberale un Paese dove un giornalista viene condannato al carcere per un presunto reato d'opinione? Siamo l'unico Paese occidentale in cui i reati a mezzo stampa sono valutati dalla giustizia penale e non civile'.
Contrario al carcere per i giornalisti anche Giuseppe Giulietti (Pd): ''siamo contro I bavagli sempre e comunque, anche quando sotto giudizio finiscono persone e giornali, e' il caso di Alessandro Sallusti, dai quali ci separa tutto, ma proprio tutto, anche perche', in altre occasioni, diedero il loro appoggio ad ogni forma di 'editto bulgaro'''.
Bruno Murgia (Pdl), come componente della commissione Cultura della Camera, si impegna ''a studiare insieme ai colleghi di maggioranza ed opposizione una proposta di legge per modificare le norme penali vigenti in materia di diffamazione a mezzo stampa. E' arrivato il momento di modificare una normativa datata''. (ANSA)
Strasburgo - Corte dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali
Caso Kydonis v. Grecia (sentenza del 2 aprile 2009 – prima sezione, ricorso n. 2444/07). “No al carcere per il reato di diffamazione”.
Condannata la Grecia. Giornalisti mai in carcere. Per la Corte europea, il carcere, previsto nei casi di diffamazione negli ordinamenti interni, ha un effetto deterrente sulla libertà del giornalista di informare, con effetti negativi sulla collettività che ha, a sua volta, il diritto di ricevere informazioni.
articolo di Marina Castellaneta - Il Sole 24 Ore 13/5/2009
No al carcere per i giornalisti perché le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione garantita dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Anche quando, nella prassi, il carcere è convertito in ammende pecuniarie e la pena è sospesa. Lo ha affermato la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza del 2 aprile 2009 (ricorso n. 2444/07, Kydonis), con la quale la Corte ha condannato la Grecia per violazione dell'articolo 10 della Convenzione che garantisce la libertà di espressione, obbligandola a risarcire i danni materiali e morali al giornalista ritenuto colpevole di diffamazione. Per la Corte europea, il carcere, previsto nei casi di diffamazione negli ordinamenti interni, ha un effetto deterrente sulla libertà del giornalista di informare, con effetti negativi sulla collettività che ha, a sua volta, il diritto di ricevere informazioni.
La detenzione – precisa la Corte – può essere ammessa solo in casi eccezionali, quando il giornalista incita alla violenza o all'odio. Negli altri casi, fa capire Strasburgo, la previsione del carcere, seppure solo a livello legislativo, senza un'applicazione diffusa della misura detentiva, «è suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa», impedendo «la partecipazione alla discussione su questioni che hanno un interesse generale legittimo». In pratica, se nell'ordinamento interno è stabilito il carcere nei casi di diffamazione, come avviene in Grecia che ha una norma analoga all'articolo 595 del codice penale italiano, è certa la violazione della Convenzione perché la misura è sproporzionata.
Alla Corte europea si era rivolto un giornalista greco condannato per diffamazione dai tribunali nazionali a una pena di cinque mesi, poi convertita in un'ammenda, per aver scritto alcuni articoli critici su un uomo politico. Una condanna ingiustificata e contraria alla Convenzione europea. Prima di tutto – hanno osservato i giudici internazionali – perché gli articoli non contenevano insulti personali e riguardavano questioni di grande interesse per la società locale, su un uomo politico che è una persona pubblica e deve quindi tollerare articoli anche critici. Al giornalista poi deve essere concessa «una certa dose di esagerazione e di provocazione», soprattutto nei giudizi di valore.
Ma c'è di più. Per Strasburgo, i giudici nazionali hanno sbagliato perché non solo non hanno preso in considerazione l'interesse a diffondere informazioni anche scomode, ma «in modo sorprendente», hanno riversato l'onere della prova sul giornalista e sull'editore che, secondo i tribunali nazionali, dovevano dimostrare l'interesse alla pubblicazione dell'articolo incriminato e invocare espressamente la libertà di espressione.
La Corte ha anche bocciato l'operato dei colleghi greci che non hanno valutato l'assoluzione dal reato di calunnia pronunciata da altri tribunali nei confronti di una persona che aveva riferito questioni analoghe a quelle poi scritte dal giornalista considerato colpevole. (sentenza in http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?item=1&portal=hbkm&action=html&highlight=Kydonis&sessionid=72651948&skin=hudoc-fr)
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Il “peso” delle sentenze della Corte dei diritti dell’Uomo nell’ordinamento italiano
di Franco Abruzzo
Non solo gli articoli della Convenzione quant’anche le sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo, che della prima è diretta emanazione, sono vincolanti per gli Stati contraenti. «Le Alte Parti contraenti – dice l’articolo 46 della Convenzione – si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti». Va detto anche che gli articoli della Convenzione operano e incidono unitamente alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo ne dà attraverso le sentenze. Le sentenze formano quel diritto vivente al quale i giudici dei vari Stati contraenti sono chiamati ad adeguarsi sul modello della giustizia inglese. «La portata e il significato effettivo delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli non possono essere compresi adeguatamente senza far riferimento alla giurisprudenza. La giurisprudenza diviene dunque, come la Corte stessa ha precisato nel caso Irlanda contro Regno Unito (sentenza 18 gennaio 1978, serie A n. 25, § 154) fonte di parametri interpretativi che oltrepassano spesso i limiti del caso concreto e assurgono a criteri di valutazione del rispetto, in seno ai vari sistemi giuridici, degli obblighi derivanti dalla Convenzione….i criteri che hanno guidato la Corte in un dato caso possono trovare e hanno trovato applicazione, mutatis mutandis, anche in casi analoghi riguardanti altri Stati» (Antonio Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo: considerazioni introduttive, in Il Corriere giuridico, Ipsoa, n. 5/1999, pagina 650). D’altra parte, dice l’articolo 53 della Convenzione, «nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Paese contraente o in base ad ogni altro accordo al quale tale Parte contraente partecipi». Vale conseguentemente, con valore vincolante, l’interpretazione che della Convenzione dà esclusivamente la Corte europea di Strasburgo. Non a caso il Consiglio d’Europa, nella raccomandazione R(2000)7 sulla tutela delle fonti dei giornalisti, ha scritto testualmente: «L'articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo, s'impone a tutti gli Stati contraenti». Su questa linea si muove il principio affermato il 27 febbraio 2001 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: ”I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo” (in Fisco, 2001, 4684). Questo assunto è condiviso pienamente dalla Corte costituzionale: le sentenze di Strasburgo hanno un peso ineludibile nel sistema giudiziario italiano. Si legge nella sentenza 39/2008 della Consulta: “Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi…Gli Stati contraenti sono vincolati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo)”. Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19985 del 30 settembre 2011. Dal 1° dicembre 2009 la Carta dei diritti fondamentali della Ue e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) fanno parte della Costituzione europea (Trattato di Lisbona) e sono direttamente applicabili dai giudici e dalle autorità amministrative italiani.
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STRASBURGO – SENTENZE.
La Convenzione e la Corte
europea dei diritti dell’uomo
ampliano il diritto di cronaca
(“dare e ricevere notizie”)
e proteggono il segreto
professionale dei giornalisti.
No alle perquisizioni in redazione!
Il giudice nazionale deve tener conto
delle sentenze della Corte europea
dei diritti dell'uomo ai fini della
decisione, anche in corso di causa,
con effetti immediati e assimilabili
al giudicato: è quanto stabilito
dalla Corte di cassazione con la
sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
(In coda la raccomandazione
R7/2000 sul segreto
professionale dei giornalisti
approvata dal Consiglio d’Europa).
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7338
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