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Quelle zone franche
al confine fra
pubblicità e giornalismo

Un primo sguardo sull’ ibrido mondo del pay-to-write, dove gli esempi di corretta convivenza fra business e buona informazione sono molto scarsi – A chi si lascia convincere a scrivere per questi siti c’è il miraggio di diventare un “giornalista”, anche se è chiaramente specificato in calce agli stessi siti, che non si tratta di testate giornalistiche, che l’attività svolta non ha periodicità e quindi non può essere considerata di tipo giornalistico

di Marco Renzi
per www.lsdi.it (12/10/2010)

Nel sempre più variegato e composito mondo dell’informazione on line, occupano uno spazio importante i siti-portali dedicati alle notizie pay-to write.


Si tratta di zone franche al confine fra pubblicità e giornalismo in cui sulla base di una presunta classifica di merito, si assegnano remunerazioni a chi vi scrive notizie.


Questi angoli di web in cui imprenditori o società – quasi mai editori, meno che meno editori puri -, “offrono” la possibilità ai citizen journalist di diventare “voci” più o meno accreditate della rete; e basano la loro fortuna sull’ ennesima trasformazione dell’ algoritmo che ha tributato il successo planetario al motore di ricerca Google.


Ad ogni pagina web di notizie pubblicate sui siti pay-per-click il software “Google Adsense” attribuisce alcuni banner pubblicitari.


Più la pagina-notizia viene letta più si presume che il pubblico in transito abbia la possibilità di  cliccare sui banner pubblicitari,  e quindi attivare i messaggi di advertising legati ai banner in questione. Ogni volta che un utente clicca su di uno di questi banner l’algoritmo  di Google Adsense  registra la visita e attribuisce alcuni centensimi di dollaro – si sa, i Signori di Google sono Americani – all’estensore della notizia collocata nella pagina in cui trova spazio il banner cliccato.


Come spesso accade quando l’ ipertecnologico meta-mondo della rete viene a patti con il mercato, leggi marketing, nascono ibridi arzigogolati e poco affascinanti.


Il caso dei siti di informazione basati sulla tecnologia pay-per-click ne è un esempio.


Intendiamoci si tratta di un mondo in divenire, quindi in continua trasformazione, e che forse potrebbe presto portare significativi contributi anche al mondo dell’editoria, ma al momento gli esempi di corretta convivenza fra business e buon giornalismo sono molto scarsi.


Probabilmente per avere indicazioni certe e maggiormente rassicuranti sull’evoluzione di un nuovo modello di business legato ai temi dell’informazione on line si dovranno attendere gli interventi massicci, in questo settore,  da parte delle majors dell’editoria.


Al momento quello che emerge da un’analisi preliminare di questa realtà sono il pressapochismo, la volontà dei soliti “furbetti” di riuscire a far quattrini in modo facile, sfruttando il variegato e disponibile popolo della rete. La mancanza di reali investimenti.


Come al solito, sebbene si lavori in campo giornalistico, è assai difficile, se non impossibile, trovare impiegati in queste aziende on line, professionisti dell’informazione.


Così come non si riscontra,  fra gli imprenditori che “investono” in tali siti,  la presenza di veri editori.


La compagine aziendale alla base di questa specifica attività on-line è spesso costituita da ditte individuali.


Gli imprenditori del caso non si occupano quasi mai dell’aspetto editoriale dell’iniziativa ma si limitano a realizzare,  o a far realizzare,  l’architettura del portale, registrano un dominio di rete, e si assicurano un buon posizionamento sui motori di ricerca.


Al resto pensano gli automatismi della rete stessa e in particolare le stringhe di Google Adsense.


Più il sito è ben posizionato, più è ricco di notizie, più sono le pagine di cui è composto, più sono i collaboratori di cui si avvale, più numerosi sono i banner che gli vengono  attribuiti da Google Adsense.


A chi si lascia convincere a scrivere per questi siti c’è il miraggio di diventare un “giornalista”, anche se è chiaramente specificato in calce agli stessi siti, che non si tratta di testate giornalistiche, che l’attività svolta non ha periodicità e quindi non può essere considerata di tipo giornalistico, insomma che non venga in mente a tutti quelli che scrivono di chiedere poi l’iscrizione all’albo dei pubblicisti perchè, nonostante la retribuzione,  mancherebbe la fondamentale figura del direttore responsabile per certificare l’effettiva validità del lavoro svolto.


(in: http://www.lsdi.it/2010/10/12/quelle-zone-franche-al-confine-fra-pubblicita-e-giornalismo/)


 





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