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Stampa

www.ilfoglio.it
del 4 ottobre 2009

Usa, la stampa in bolletta.
Oggi i produttori di
notizie arrancano
sulla carta, mentre
i distributori web
fioriscono. Si cerca
un’ipotesi di compromesso.

Sono più di 13.600 i giornalisti della carta stampata licenziati dall’inizio del 2009 negli Stati Uniti. A questo ritmo è probabile che a fine dicembre si supererà il record del 2008, quando furono 16.000 i posti persi nel settore. Notizia dell'ultimissima ora: nuovi tagli al NYTimes, via100 redattori.

                                                 NYTIMES TAGLIA 100 POSTI IN REDAZIONE


New York, 19 ottobre 2009.  Il New York Times taglierà cento posti di lavoro nella sua redazione entro la fine del'anno, pari all'otto per cento del totale, offrendo scivoli al personale che decide di lasciare volontariamente e ricorrendo a licenziamenti qualora non si riesca a raggiungere il numero richiesto. Lo ha annunciato lo stesso New York Times. La ristrutturazione rispecchia quella messo in atto nella primavera del 2008 quando vennero tagliati altri cento posti di redazione anche se in quell'occasione vennero fatte alcune assunzioni. Nel 2008 vennero licenziati alcuni giornalisti - tra 15 e 20, il giornale non ha mai rivelato il numero esatto - per la prima volta nella storia della prestigiosa testata. Lavorano attualmente al New York Times 1.250 persone. Nessun altro giornale americano ha più di 750 dipendenti.(ANSA).



 


NEW YORK. Sono più di 13.600 i giornalisti della carta stampata licenziati dall’inizio del 2009 negli Stati Uniti. A questo ritmo è probabile che a fine dicembre si supererà il record del 2008, quando furono 16.000 i posti persi nel settore. Secondo un rapporto dell’associazione di giornalisti Unity, a partire dal collasso di Lehman Brothers il mondo dell’informazione ha visto diminuire il suo numero di addetti a una velocità tre volte superiore a quella media dell’economia. Quasi un bollettino di guerra, che si presta però a letture diverse. Da una parte quelli che spiegano tutto, o quasi, con la “crisi economica peggiore dal ’29 a oggi”. I dati di cui sopra andrebbero infatti letti di pari passo con quelli, anch’essi negativi, che riguardano gli investimenti pubblicitari: questi ultimi, nei primi sei mesi dell’anno, sono diminuiti negli Stati Uniti del 24,2 per cento rispetto al 2008. Anche in Italia, dove pure i giornali chiudono molto meno, il settore advertising sulla carta stampata ha subito, nei primi sette mesi del 2009, una contrazione del 24,6 per cento. Allo stesso tempo si fa strada un altro tipo di ragionamento, meno legato al panico indotto dalla recessione ma non per questo più rassicurante: le statistiche sulle chiusure delle redazioni e i licenziamenti dei loro inquilini, pur dicendo molto della situazione dei giornali, spiegherebbero sempre meno di quel che sta accadendo al giornalismo. E’ in tale ottica che vanno letti ad esempio i dati dell’ultima ricerca della Annenberg School of Communication presso la University of Southern California, secondo la quale gli utenti Internet americani passano sempre più tempo a leggere notizie on line: 53 minuti a settimana nel 2008, contro i 41 minuti del 2007.


Il 22 per cento dello stesso campione dichiara inoltre di aver rinunciato all’abbonamento a una rivista cartacea perché in grado di accedere agli stessi contenuti on line. A partire dagli Stati Uniti, il ciclo classico dell’informazione (dall’editore all’edicolante, passando per la redazione di professionisti) è in crisi, ma la materia prima da cui tutto scaturisce – la notizia, appunto – è ancora oggetto di un’imponente domanda. Forse è la conferma di quanto scriveva Schopenhauer: “Tutti i giornalisti sono, per via del loro mestiere, degli allarmisti. E’ il loro modo di rendersi interessanti”.


Eppure a lanciare l’allarme, da qualche tempo, non sono solo i frequentatori assidui delle redazioni. Lo scorso 20 settembre il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha ribadito che il buon giornalismo è “fondamentale per la salute della nostra democrazia”, e si è detto “preoccupato” dell’ipotesi che “la direzione verso la quale va l’informazione sia quella della blogosfera, di un insieme di opinioni senza un serio controllo dei fatti”. Obama ha annunciato quindi che prenderà in considerazione le proposte di legge che giacciono al Congresso e che prevedono forme di sostegno pubblico ai giornali. In Italia è stato Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo editoriale L’Espresso, a riaprire questa riflessione con un intervento apparso sul Sole 24 Ore dello scorso 24 settembre. Secondo De Benedetti il problema non è soltanto la pubblicità. Piuttosto – scrive – ci sono “‘operatori di Internet’ che usano il lavoro degli altri ricavandoci, in alcuni casi, cifre che nessuno aveva immaginato in secoli di industria dell’informazione”. Principali indiziati? “Chi fornisce i servizi di ricerca e l’accesso alla rete”. Leggi: motori di ricerca e telecom.


 


Si prendano i primi: “Con i loro software mettono in circolo la conoscenza che ha scandito la storia umana – spiega al Foglio Antonio Pilati, componente dell’Autorità garante della concorrenza e uno dei massimi esperti di Tlc – non solo giornali ma anche libri”. Ma oggi i produttori di notizie sono in affanno, mentre Google&co. hanno ottimi ricavi. Come è possibile? “Dipende dal fatto che i nuovi distributori di contenuti non fanno ricavi tanto dalla vendita di contenuti, quanto dalle informazioni che riescono a raccogliere sugli usi dei consumatori. Ciò si traduce in una maggiore efficacia sia delle inserzioni pubblicitarie sia dei servizi messi a disposizione dell’utente, che rimane così facilmente compreso entro il perimetro di attività di questi innovatori tecnologici. Eppure su questa ‘seconda vita’ delle notizie, i produttori si sentono tagliati fuori: sono altri a fare ricavi sui loro contenuti”. Sintomatica di un rapporto negoziale sempre più teso tra questi due soggetti è la decisione della Federazione italiana editori giornali (Fieg), di sollecitare l’apertura di un’istruttoria nei confronti di Google Italy. L’obiettivo è di verificare se la società italiana del gruppo di Mountain View, attraverso il servizio di aggregazione delle notizie on line – Google News – abusi della sua posizione dominante nell’intermediazione della raccolta pubblicitaria sul Web.


 


Un mercato che nel 2008, solo nel nostro paese, era pari a 560 milioni di euro. “Gli attriti tra produttori e distributori di notizie sul Web non sono mancati anche altrove, ma negli Stati Uniti gli editori hanno pensato a trovare un accordo con Google – spiega al Foglio Luca Conti, esperto di nuovi media e autore del blog Pandemia – l’ultimo esempio è quello di Google Fast Slip, servizio che consente letteralmente di sfogliare le pagine dei giornali riprodotte in versione elettronica”. Hanno accettato anche New York Times e Washington Post, che in cambio condivideranno con Google ulteriori incassi pubblicitari.


Comunque, se la proposta lanciata da De Benedetti fosse accolta, non sarebbero i motori di ricerca a essere direttamente coinvolti. L’idea, infatti, è di girare agli editori “una quota del valore creato a vantaggio degli operatori di telefonia”, i quali incassano utili da traffico utilizzando i contenuti creati dagli editori. Come fare? Due le ipotesi: o un “prelievo sulla bolletta della connettività”, che quindi peserebbe direttamente sugli utenti, oppure una “ripartizione del fatturato” delle sole telecom a favore degli editori. “Personalmente prediligo la prima ipotesi – dichiara al Foglio Alessandro Brignone, direttore generale della Fieg – il modello è quello del CIP6”. Tale delibera, approvata nel ’92 dal  Comitato interministeriale prezzi, intendeva incentivare le fonti di energia rinnovabile facendo contribuire direttamente anche l’utente finale. “Gli associati Fieg – ricorda poi Brignone – sono responsabili di circa il 30 per cento del traffico dei maggiori motori di ricerca in Italia”. Resta un dubbio: se si decidesse che questo 30 per cento di news prodotte debba essere “sussidiato”, cosa impedirebbe a quel punto ai produttori del restante 70 per cento di contenuti di chiedere anch’essi un contributo statale? “Una proposta eccellente ma di difficile applicazione quella di De Benedetti”, spiega al Foglio Marco Benedetto, fino al 2008 amministratore delegato del gruppo L’Espresso, “l’eventuale sussidio non potrà essere infatti riservato ai soli iscritti alla Fieg”. Da marzo direttore del giornale web BlitzQuotidiano, Benedetto ha maturato la convinzione che “il vero problema” che insidia l’editoria sono le rassegne stampa on line: “A partire da quelle dei siti istituzionali, da Palazzo Chigi in giù”.


 


Intanto, complici forse le difficoltà post crisi, al Foglio risulta che la Fieg si appresti a inaugurare una serie di azioni, legislative e giudiziarie, anche nei confronti di questi siti istituzionali. L’idea di De Benedetti non convince però le società telefoniche: “Appare improprio un travaso coattivo da un settore all’altro – dice al Foglio Giovanni Moglia, direttore affari legali e regolamentari di Fastweb – anche le reti a banda larga hanno bisogno di investimenti per portare le infrastrutture a velocità più elevate. Occorre un sistema senza posizioni parassitarie, in cui nessuno sfrutti gli investimenti altrui senza pagare il giusto compenso”.


Ovviamente c’è chi, pur concordando sulla difficoltà della fase di transizione che la carta stampata attraversa, è tutt’altro che favorevole a scaricarne i costi su altri che non siano i diretti interessati. “L’atteggiamento degli editori italiani mi ricorda quello degli agenti dei musicisti e dei cantanti inglesi negli anni Venti – dice al Foglio Franco Debenedetti, già senatore per tre legislature con il centrosinistra – mentre John Reith teorizzava le caratteristiche della radio pubblica, essi si opponevano, temendo che il nuovo medium avrebbe fatto crollare i loro ricavi generati dal copyright”. Eppure, dopo quasi un secolo, radio, cantanti ed etichette musicali convivono ancora pacificamente. Secondo Debenedetti – autore de “La Guerra dei trent’anni” (Einaudi), sul rapporto tra tv e politica in Italia tra 1975 e 2008 – “le transazioni vanno gestite”, ma è “sulla capacità di inventiva del mercato che si deve contare per risolvere certi problemi dell’editoria”.


 


Ha provato a farlo Walter Isaacson, presidente dell’Aspen Institute americano, che a febbraio sul Time lanciò l’idea dei micro-pagamenti, proposta di recente da Rupert Murdoch per il suo Wall Street Journal: “La chiave per aumentare le entrate on line è un metodo di micro-pagamento semplice, sul modello di iTunes”. Tramite questo software, e il servizio iTunes Store, Apple ha rimediato alle inefficienze del mercato dell’intermediazione della musica, abbassando i prezzi dei cd e consentendo di selezionare singole tracce a prezzi contenuti. Risultato: la distribuzione di prodotti artistici originali sulla rete è stata rilanciata e si sono sgretolati tutti gli scenari apocalittici di un futuro in mano a contraffattori di file musicali. Nulla impedirebbe ai giornali di proporre agli utenti dei conti prepagati dai quali scalare piccole somme con un semplice click ogni volta che si accede a uno specifico contenuto.


Chris Anderson, direttore della rivista americana Wired, al Foglio dice di essere “convinto che il modello possa funzionare”. Autore di “Gratis”, uscito da pochi giorni in Italia per Rizzoli, sostiene che la rete stia portando in auge un nuovo modello di business: quello per cui si possono fare soldi regalando dei prodotti. “Per i giornali credo che il modello vincente sia quello ‘freemium’. Dovrebbero concedere a costo zero l’80-90 per cento dei loro contenuti grazie alla pubblicità, e far pagare – con i micropagamenti – i contenuti più specializzati”. D’accordo anche Andrea Favari, ad del Giornale: “Il mercato pubblicitario ancora non basta, e gli utenti sono disposti a pagare solo per contenuti esclusivi e di nicchia”. “Oggi però ognuno di noi si sta trasformando in un potenziale produttore di notizie”, spiega al Foglio Emmanuele Somma, animatore della comunità del software libero ed editore di Infomedia, rivista di informatica fallita due anni fa a causa dell’eccessiva concorrenza di contenuti liberamente consultabili su Internet. “Ma il giornalista può reinventarsi – continua – offrendo una selezione ragionata dei tantissimi contenuti in cui rischia di perdersi il navigatore”.


Così nasce l’idea di una “una redazione diffusa” in tutta Italia, fatta di persone che nel tempo libero scrivono e segnalano quanto di meglio è già presente in rete: “Oggi abbiamo triplicato i nostri lettori. E l’anno prossimo, se avremo un numero congruo di sottoscrizioni, torneremo anche in versione cartacea”. Ma per fare notizia, obietterà qualcuno, spesso non è sufficiente ritagliarsi mezz’ora di tempo libero. Spot.us, il primo sito di giornalismo investigativo finanziato dagli utenti, prova a rovesciare questo assunto: la scorsa settimana ha aperto una “sede” a Los Angeles, dopo il primo anno di vita a San Francisco. Il meccanismo è semplice e rivoluzionario: gli utenti del sito decidono quale argomento vorrebbero vedere sviscerato dai giornalisti. Questi ultimi stimano i costi dell’inchiesta e si mettono al lavoro quando la cifra preventivata è raggiunta a colpi di piccoli finanziamenti (in media 20 dollari). Nei primi 10 mesi di vita, Spot.us ha raccolto 40 mila dollari da 800 persone nella sola San Francisco. Ne sono venute fuori 30 inchieste. Il tutto senza bisogno di editori classicamente intesi. O di sussidi pubblici agli stessi.


Marco Valerio Lo Prete


 






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