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Stampa

Memoria.
GIANCARLO RIZZA,
il grande cronista
del vecchio “Giorno”
che pescava le notizie
esclusive anche giocando
a bridge o nascosto
dietro una grossa pianta.

di Franco Presicci

La notizia della morte di Giancarlo Rizza ci sorprende sull’autostrada. Ed è una bruttissima notizia, perchè ad andarsene è stato soprattutto un amico. Serio, sincero, generoso. Fece parte della squadra de “Il Giorno” sin dai tempi di via Settala. Con lui, in Cronaca, c’erano Pier Maria Paoletti, Mario Zoppelli, Patrizio Fusar, Guido Nozzoli, Tanino Gadda. Poi dalla redazione di Monza arrivò il ciclone Franco Abruzzo. Dei grandi. Tutti. Giancarlo era scrupoloso: non pubblicava una riga senza averla verificata. Solo così, la sera, poteva andare a letto tranquillo. La sua passionaccia era la “nera”; e la seguiva con molto impegno. Non gli sfuggiva nulla. Poteva permettersi di giocare a bridge (era campione nazionale), dalle 13 alle 15, al Circolo dell’Aeronautica, senza il timore di essere spiazzato nel lavoro. Fu lui a dare a me, nell’80, il nome e l’indirizzo del giovane ventitreenne che aveva accoltellato una donna di 50 anni nel centro storico, consentendomi di andare a intervistare in un fabbricone, alle 9 di sera, la fidanzata e il suocero dell’omicida. E non  disse a nessuno del favore che mi aveva fatto: aveva anche la dote di non vantarsi, di essere discreto, di donare con quel “tacer pudico che accetto il don ti fa”. Non si vantava neppure quando piazzava gli “scoop” più consistenti. Venne a sapere della rapina al Brera Bridge, secondo l’accusa messa a segno, nel ’78, da Francis Turatello (con Angelo Epaminonda e Graziano Mesina in funzione di spettatore) e dette un “buco” a tutti i giornali, mandando in bestia i colleghi della sala stampa della questura. La “soffiata” non era uscita dalle solite fonti: Giancarlo l’aveva colta negli stessi ambienti del bridge, disciplina di cui, come detto, era campione nazionale. In quegli anni la concorrenza era agguerrita: la cronaca milanese contava cani da tartufo come Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Max Monti, tutti del “Corriere”; Mario Mercuri, de “L’Italia”; Alfredo Falletta, passato da “L’Italia” al “Corriere della Sera”; Gabriele Benzan; e perciò non era facile assicurarsi un’esclusiva. 


   Una sera in un ristorante alla periferia di Milano una decina di cronisti erano a cena con alcuni funzionari di via Fatebenefratelli. Verso le 22, dopo una telefonata, i poliziotti lasciarono il tavolo e si riunirono in un’altra sala a confabulare. Giancarlo di soppiatto si nascose dietro una grossa pianta e afferrò al volo la parola Cartier. E quando il vicequestore Pippo Micalizio e gli altri rientrarono e pregarono i commensali di non muoversi dai loro posti, lui riuscì a sgattaiolare verso l’uscita, si precipitò in questura, fece un rapido giro, appurò che erano stati arrestati gli autori della rapina alla famosa casa degli orologi (il 14 aprile ’91), al quale i quotidiani avevano dato un notevole risalto, e corse in piazza Cavour, dove “il Giorno” aveva sede, e scrisse il pezzo.


   In questura Giancarlo aveva conosciuto proprio tutti: i vari questori, i dirigenti delle sezioni, i capi della Mobile succedutisi nel tempo, da Mario Nardone a Mario Jovine, Antonio Pagnozzi, Achille Serra, Eleuterio Rea..., ricevendo molta stima. Anche Vito Plantone, persona di poche parole e oculata nei giudizi (della Mobile fu vice prima di assumere la guida dell’Antirapine), lo teneva in grande considerazione. Giancarlo aveva rispetto per tutti, mai una parola malevola nei confronti di un collega, mai un atteggiamento da saccente. Lo chiamavano ammiraglio, per via della sua barca e del suo amore per il mare, e lui sorrideva. Era un uomo di cultura, oltre che una bella penna. Memorabile, fra gli altri, il suo “pezzo” sull’assalto, il 15 febbraio ‘79, al cosiddetto Circolo della duchessa di corso Sempione, che in realtà era una bisca. In quell’occasione si sparò dalla strada e dal balcone della “belanda”. Per anni Giancarlo ha avuto dentro di sè tanta rabbia, per quello che avevano fatto a Luigi Calabresi da vivo e da morto. Non era amico del commissario capo ucciso in via Cherubini il 17 maggio del 1972, ma lo apprezzava moltissimo.


   Chi non aveva dimestichezza con Giancarlo poteva ritenerlo un posapiano. Era invece un uomo sereno, che svolgeva la sua attività con profonda onestà e senza rumore. All’occorrenza sapeva anche perdere le staffe, quando veniva fatto un torto a un collega che tra l’altro stava più al giornale che a casa.


   Giancarlo Rizza era molto ammalato e ha sofferto tantissimo. E’ deceduto alle 2 del 29 agosto  all’Humanitas, a Rozzano. Ciao, vecchio ammiraglio, “hai ritrovato il vento, ora veleggi libero” come ha scritto tuo figlio Sergio  in un commovente e affettuoso necrologio. Resta il tuo ricordo. Nei nostri cuori.


 


Milano, 1 settembre 2009


 





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