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Il Quotidiano
della Calabria
del 28.12.2008

L’intervista.
A colloquio con
Antonio Catricalà
presidente
dell’Antitrust

IL GUARDIANO
DEI CONSUMATORI

Quant’è grave in Italia il fenomeno della commistione informazione/pubblicità nei giornali e nelle televisioni? “ E’ un fenomeno che stiamo monitorando con attenzione, soprattutto per quanto riguarda la pubblicità occulta in tv. Abbiamo inviato di recente una richiesta di informazioni ai vertici di Rai, Mediaset, La 7 e Sky per capire che tipo di prevenzione facciano per evitare sponsorizzazioni mascherate di gioielli, vestiti o altri prodotti di marca. Quando c’è un contratto tra rete televisiva e produttore è evidente che esiste una responsabilità diretta della rete che diventa dunque sanzionabile in base alla normativa a tutela del consumatore. Talvolta i legami sono meno palesi. Speriamo che la nostra iniziativa abbia come effetto quello di porre il problema sul tavolo dei responsabili dei programmi: la pubblicità, se non si vogliono ingannare i telespettatori, deve essere sempre chiaramente riconoscibile”.
DI ROMANO PITARO

 Celestino Catricalà, avvocato penalista,   a passo svelto sbucava  dal vicolo  Menniti Ippolito in piazza Grimaldi.  Arringava, nella Catanzaro di mezzo secolo fa, con la sua fiorita oratoria di mazziniano, i pochi  concittadini che si radunavano sotto il piccolo  palco vivacizzato dalle  bandiere e dagli slogan dell’edera repubblicana di Ugo La Malfa.


Suo figlio Antonio, nato nel capoluogo calabrese il 7 febbraio di  56 anni fa, classificato da  Wikipedia come  “giurista italiano”, docente alla Luiss di diritto dei consumatori, grand commiss dal cui cursus   traspare  il  tratto  bipatisan   e lo    stile  dei francesi dell’Ecole Nazionale, intrattiene   il Parlamento con la relazione annuale dell’Antitrust di cui è Presidente dal 2005,  scelto  “tra persone di notoria indipendenza che abbiano ricoperto alte cariche istituzionali”.


 Oggi il ragazzino dai calzoni corti che ascoltava incuriosito i comizi del padre, cresciuto in quella fucina di cervelli calabresi (da Corrado Alvaro a Gianni Amelio) che è stato il Liceo Classico Galluppi  dove  hanno insegnato professori come Giovanni Mastroianni e Augusto Placanica, con la stessa  passione civile e  rigore morale, ricorda al Paese che “I cartelli sono gravi misfatti contro la società”. Non  misfatti veniali, “perché”, puntualizza il presidente Catricalà, cane da guardia dei consumatori italiani, “corrompono la libera competizione delle forze economiche sul mercato: negli Stati Uniti sono  considerati fatti criminosi puniti con la prigione”.


 A questa intelligenza vivida,  laureato alla Sapienza con 110 e lode a soli 22 anni,  autore di numerose pubblicazioni,  magistrato, procuratore di Stato, a 27 anni,  avvocato dello Stato e subito dopo  consigliere di Stato, il Parlamento ha affidato  l’arduo compito di vigilare sulle intese restrittive della concorrenza, sugli abusi di posizione dominante, sulle operazioni di concentrazione che riducono la concorrenza.


A questo calabrese che, grazie alla sua scienza giuridica messa a profitto nell’amministrazione dello Stato avendo non le tessere di partito ma l’interesse generale come  stella polare, s’è guadagnato  l’ammirazione  di Carlo Azeglio Ciampi, Antonio Maccanico e Franco Frattini,   fino a diventare nel  2001 Segretario generale di Palazzo Chigi, i Presidenti di   Senato e Camera   hanno consegnato la guida dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Ossia l’Antritrust,   che fustiga le banche,  le aziende telefoniche “prive di  un sufficiente livello di correttezza nei confronti dei consumatori” e   le industrie della pasta alla ricerca della “tassa occulta” che fa incavolare i cittadini per l’aumento dei prezzi.  Insomma: uno  dei baluardi della democrazia italiana  contro il liberismo selvaggio che  rende possibile la coesistenza dell’iniziativa economica con i diritti dei cittadini  in un Paese moderno, anche se  in Italia la legge a tutela della concorrenza  è giunta un secolo dopo lo Sherman Act statunitense. 


L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è diventata maggiorenne da poco.   Istituita con legge nel 1990, è intervenuta spesso per reprimere intese restrittive della concorrenza, abusi di posizione dominante e, in applicazione del codice del consumo, in materia di pratiche commerciali, pubblicità ingannevole. Vogliamo fare un bilancio?


 Quando sono arrivato a Piazza Verdi, sede dell’Antitrust, ho capito che nel Paese la concorrenza era invocata ma mai praticata: emergeva una scarsa cultura della competizione, la propensione a cercare la scorciatoia delle intese a danno dei consumatori. Anche il legislatore sembrava disattento all’esigenza di garantire il confronto reale tra imprese. Oggi, nonostante la crisi economica mondiale evochi nuovi protezionismi, c’è una maggiore consapevolezza dell’importanza della concorrenza. Questo Parlamento ha votato un emendamento per varare, ogni anno, una legge a tutela della concorrenza che tenga conto delle nostre segnalazioni. Nella precedente legislatura è stata votata una norma che ci ha finalmente dotato degli stessi poteri riconosciuti alla Commissione Europea. Il bilancio è però in chiaroscuro e lo dimostrano le istruttorie avviate nel corso della mia presidenza: dal pane alla pasta, dai carburanti ai libri scolastici abbiamo dovuto fare i conti con mercati che non funzionano. Abbiamo utilizzato, laddove ne sussistevano i presupposti di legge, lo strumento degli impegni: una sorta di patteggiamento delle aziende che, a fronte di comportamenti virtuosi e positivi per i consumatori, evitano la sanzione e soprattutto l’accertamento dell’infrazione. Insieme al Collegio che ho l’onore di presiedere, ho messo al centro della nostra attività la tutela del consumatore: alla direzione che svolge questo compito è stata data pari dignità con la direzione che tutela la concorrenza. Siamo convinti che garantire il corretto funzionamento del libero mercato significhi garantire, in ultima analisi, il consumatore. E che la correttezza nei confronti dei propri clienti rappresenti un’importantissima arma competitiva delle aziende.


 Quant’è grave in Italia il fenomeno della commistione informazione/pubblicità nei giornali e nelle televisioni?


 E’ un fenomeno che stiamo monitorando con attenzione, soprattutto per quanto riguarda la pubblicità occulta in tv. Abbiamo inviato di recente una richiesta di informazioni ai vertici di Rai, Mediaset, La 7 e Sky per capire che tipo di prevenzione facciano per evitare sponsorizzazioni mascherate di gioielli, vestiti o altri prodotti di marca. Quando c’è un contratto tra rete televisiva e produttore è evidente che esiste una responsabilità diretta della rete che diventa dunque sanzionabile in base alla normativa a tutela del consumatore. Talvolta i legami sono meno palesi. Speriamo che la nostra iniziativa abbia come effetto quello di porre il problema sul tavolo dei responsabili dei programmi: la pubblicità, se non si vogliono ingannare i telespettatori, deve essere sempre chiaramente riconoscibile.


 Quali azioni concrete ha  assunto dall'Antitrust per sanzionare i messaggi ingannevoli e la pubblicità occulta?


I numeri parlano per noi: nei primi undici mesi del 2008 abbiamo adottato oltre 200 provvedimenti con i quali abbiamo sanzionato, per un totale di 30 milioni di euro, pubblicità ingannevoli, occulte e pratiche commerciali scorrette. Dallo scorso anno è inoltre in funzione un call-center al quale i cittadini possono rivolgersi per segnalare i comportamenti scorretti delle aziende. Abbiamo ricevuto 10.500 richieste di intervento, delle quali il 61,3% relative al settore delle comunicazioni, soprattutto telefonia fissa e mobile, il 12,6% ai servizi, il 9,9% l’energia e l’industria, l’8,1% i trasporti e prodotti alimentari e l’8,1% il settore credito.


Si apprezza il delicato compito dell’Antitrust, specie in frangenti molto critici come queesto, ma poi si tagliano di ben 8 milioni di euro le risorse destinate al suo funzionamento. Una contraddizione o una sottovalutazione?


Spero né l’una né l’altra. Credo che il taglio automatico delle nostre risorse rientri nella politica generale del Governo, impegnato nel doveroso risanamento del bilancio. Sono certo che il legislatore ci consentirà di recuperare, con altre forme, i fondi di cui abbiamo bisogno.


Ha definito i cartelli “gravi misfatti” contro la società, in quanto corrompono la libera competizione, ma il Parlamento, a quanto pare, non esaudisce le vostre richieste, né quelle finanziarie né quelle tese ad un inasprimento delle sanzioni contro le associazioni colpevoli di violare le regole del mercato...


Il tempo è galantuomo. Sono fiducioso che le mie parole non rimarranno inascoltate. Del resto sarebbe sciocco ignorare l’emergenza con la quale il Governo, e non solo quello italiano, ha dovuto fare i conti. Capisco che ci siano altre priorità, anche se le nostre istruttorie insegnano che tutelare la concorrenza significa, ad esempio, garantire prezzi più bassi anche su beni di prima necessità.


Ci sono cartelli più forti di altri, meno permeabili al controllo?


Quando abbiamo a che fare con multinazionali o grandi aziende dobbiamo confrontarci con studi legali agguerritissimi che ben conoscono la normativa antitrust e sanno come aggirarla. Questo però non ci scoraggia, al massimo rende il nostro lavoro più difficile. Devo però prendere atto di una giurisprudenza amministrativa ipergarantista, che ci chiede ‘prove diaboliche’ per dimostrare i cartelli. Senza nulla togliere ai miei colleghi magistrati io, nel mio ruolo, ho un altro dovere: garantire i consumatori e i cittadini. E insisterò su questa strada fino a che non terminerò il mio mandato.


Ha detto, di recente, che in questo periodo di crisi la tutela della concorrenza è uno degli elementi imprescindibili per evitare che le turbolenze economiche finiscano col lasciare i consumatori in balia di un vero e proprio caos dei mercati.  In questa riflessione sono incluse anche le aree più svantaggiate del Paese?


Di fronte ad una crisi finanziaria ed economica come quella che stiamo vivendo non ha molto senso distinguere tra aree forti e aree deboli. Non me la sentirei di fare distinzioni ‘territoriali’ tra i piccoli obbligazionisti  della Lehman Brothers che sono rimasti con carta straccia in mano. E’ evidente, tuttavia, che nelle zone svantaggiate la crisi può mordere di più, perché arriva dove c’è maggiore povertà e minori sono le alternative economiche.


Dal punto di vista dell’Antitrust,  il Mezzogiorno quali differenze presenta  rispetto al resto del Paese?


Posso assicurare che le violazioni non hanno colore geografico: abbiamo perseguito intese tra aziende meridionali e aziende settentrionali, senza distinzione. Anche i comportamenti anti-concorrenziali delle amministrazioni sono assolutamente ‘nazionali’. Forse nel Meridione, ancor più che nel resto d’Italia, resiste un’idea dello Stato assistenzialista, obbligato comunque a intervenire nell’economia per garantire i posti di lavoro. Si tratta di una differenza più sociologica che economica: il cliché dell’economia meridionale viziata dall’assistenzialismo non mi convince. Il vizio è nazionale: tanto per fare un esempio, l’Alitalia, senza l’assistenzialismo e lo strapotere della politica, e in un’ottica di mercato, avrebbe dovuto fallire quindici anni fa.


C’è una questione criminalità, una tassa occulta che condiziona il mercato nel Sud.  Come si può garantire la concorrenza dove c’è la mafia imprenditrice?


Credo che la lotta alla criminalità organizzata sia oggi la vera ‘questione meridionale’. Occorre una battaglia senza esclusione di colpi per ridare forza alla parte sana del tessuto meridionale, che rappresenta la stragrande maggioranza. Se non vinciamo questa guerra non possiamo chiedere ai nostri imprenditori il coraggio di investire al Sud, di restare nei cantieri e nelle fabbriche sulle quali hanno scommesso vita e quattrini. 


Il Sud è perduto o ha ancora speranze?


Ha speranze pari alle sue potenzialità che sono enormi. Oggi i giovani non sono costretti, come lo sono stato io, a fare la valigia e abbandonare la propria città per potere studiare. Devono cogliere questa opportunità non come una comodità ‘scontata’ ma come una conquista da sfruttare al meglio. Devono imparare i mestieri e le professioni e metterle al servizio del territorio. Il futuro c’è, a noi la responsabilità di costruirlo.


Quale opinione s’è fatto della Calabria dei giorni nostri ?


In Calabria c’è bisogno senz’altro di più Stato. La presenza dello Stato deve finalmente essere avvertita dai calabresi un po’ dappertutto. Per il resto, ho l’impressione che  non si sia riusciti ancora a concentrare le forze di cui la Regione dispone, insieme alle risorse comunitarie, per realizzare pochi progetti  ma di grande impatto e di qualità; a parte Gioia Tauro non vedo altro al momento; e poi c’è il solito vizio del frazionismo interno che non consente di essere interlocutori forti


E’ unanime  la critica al sistema bancario nel Mezzogiorno: il danaro costa più che altrove e le banche non sorreggono adeguatamente lo sforzo delle imprese. In queste condizioni, lo svantaggio per l’imprenditoria meridionale è più che lampante: cosa può fare l’Antitrust? 


L’Antitrust non è Autorità di Vigilanza del sistema bancario. Non può dunque intervenire sul tema della concessione di credito alle aziende che, peraltro, rientra nell’autonomia imprenditoriale della singola banca. Non dobbiamo dimenticare che le banche sono imprese, a tutti gli effetti, con azionisti, piccoli e grandi, ai quali rendere conto. Purtroppo siamo davanti a un classico esempio di circolo vizioso: gli imprenditori del Sud rischiano di più, le banche privilegiano i crediti più sicuri e tengono i cordoni della borsa tirati nei confronti delle imprese meridionali. Tuttavia, incentivando la concorrenza del sistema bancario, le banche più efficienti saranno spinte a valutare al meglio il rischio di credito, rispondendo alla domanda dell’imprenditoria sana, senza distinzione territoriale. E’ un processo lungo, in un comparto come quello creditizio nel quale la concorrenza è stata ignorata per anni, in nome della stabilità finanziaria.


Come giudica il federalismo fiscale per il Sud? Per regioni come la Calabria tutto sarà ancora più complicato?


Aspettiamo di vedere come sarà congegnato il federalismo fiscale nella versione che verrà approvata dal Parlamento. In linea generale comunque l’idea del federalismo fiscale, se accompagnato da meccanismi perequativi che garantiscano le prestazioni essenziali, non mi scandalizza


Come considera la partecipazione di Regioni ed enti locali nella gestione d’iniziative economiche e servizi che potrebbero gestire i privati?


Si tratta di un fenomeno che genera di per sé restrizioni concorrenziali: il controllore, vale a dire la Regione o l’ente locale, è proprietario della società controllata e non c’è garanzia sulla qualità dei servizi. Manca il confronto competitivo tra aziende che potrebbero fare lo stesso mestiere meglio e a un costo inferiore. Con la riforma varata questa estate dal Parlamento tutti i servizi pubblici dovrebbero essere messi a gara tra i privati salvo deroghe che dovranno comunque essere giustificate davanti all’Antitrust. Non abbiamo alcuna intenzione di fare un controllo burocratico: entreremo nel merito di ogni singola richiesta di deroga per convincere le amministrazioni che la regola aurea deve essere il ricorso alla gara.


Lei è stato nominato Presidente dell’Antitrust nel 2005 e dura in carica (la legge vieta il rinnovo) 7 anni. Vuol dire che, fino alla scadenza, non prevede di assumere altri impegni pubblici?


Sto bene dove sto. Credo nel lavoro che faccio e penso di svolgerlo con impegno, anche se non posso certo essere io giudice del mio operato.


 


  


 


BOX


 


QUANDO IL PRESIDENTE


EBBE  5 IN CONDOTTA…


 


 “Indimenticabile nei miei ricordi  è il  corso Mazzini di una volta, perché  poi  è stato incomprensibilmente  sventrato. Lì c’era il Galluppi e di fronte il bar “Guglielmo”, nelle cui salette interne si rintanavano gli studenti che avevano marinato la scuola”. Il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà sul filo della memoria rievoca cosi  la Catanzaro della sua adolescenza: “ Il bar Guglielmo  era, comunque, meta obbligatoria di tutti non appena suonava la campanella, quasi un  tutt’uno con la scuola. Al bar ci si dava un contegno non consentito a scuola. Ci  atteggiavamo a superuomini, con scherzi simpatici ma non mancavano le  bravate da bulletto di quartiere. Soprattutto  si cercava di far colpo su ragazze di altre classi mentre con le compagne non c’era speranza: ci conoscevamo troppo bene. Lì si decidevano gli scioperi  per il riscaldamento, per la palestra, per le aule o per altre piccole rivendicazioni. Una volta occupammo un’aula per solidarietà con un’altra classe che era priva di professori titolari ed andava per mezzo di supplenti. Un signore, che fece finta di essere un capitano dei carabinieri,ci spiegò che, se non fossimo tornati spontaneamente nelle nostre aule, sarebbero stati guai seri. Dopo cinque minuti, a capo chino riprendevamo il normale corso delle lezioni. Poi di colpo, venne il 1969. Nel resto del mondo c’era già stato il ’68. Io frequentavo il secondo liceo  nella sezione A.  Il  prof. Morello  non riusciva mai ad interrogarmi in matematica, dato che avevo sottratto il numero corrispondente al mio nome dalla sua “tombola” delle interrogazioni. Ricordo  la professoressa Scalzo, di scienze naturali che mi dava buoni voti quando la squadra di pallacanestro vinceva;, c’era il temibile  prof. Procopio  che faceva tradurre dal greco in latino. Una volta gli dissi che Creusa era la moglie di Penelope, avevo inteso male un suggerimento e non vi dico la faccia che fece! Nel ’69 ricordo che   presi un bel 5 in condotta al secondo trimestre. Eppure  non c’erano note sul registro, né avevo avuto  sospensioni. D’altronde non ero stato più “cattivo”, in classe, di tanti altri che avevano riportato ottimi voti. Non si pensi però che io fossi  un leader del movimento. Era, dunque,  la legittima punizione per un sovversivo? Un avvertimento?  E’ vero. Gridavamo “Potere operaio, potere studentesco”, ma a Catanzaro gli operai non c’erano, e, in fondo, chiedevamo molto meno di quanto i decreti delegati, qualche tempo dopo, avrebbero concesso. Quando, per motivi di lavoro, ho studiato gli “anni di piombo”, ho capito che non traevano origine dal ’68.  Sicché adesso, con l’incarico che ho, dopo avere svolto funzioni di prestigio, debbo dire francamente che   di quel 5 in condotta non  mi vergogno affatto”.


 


 





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