25.3.2015 - È legittimo esprimere perplessità sul conferimento di un incarico di tipo politico a un magistrato sottoposto in passato a procedimenti disciplinari e penali, se i fatti alla base della critica siano veri, il tono non sia offensivo e si dia conto dell’esito assolutorio di tali procedimenti. Così ha deciso la III sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 4931/2015, che formula tale sacrosanto principio di diritto al termine di un’ineccepibile motivazione, tra le cui righe filtra il profumo delle buone letture e della migliore giurisprudenza in tema di libertà di espressione.
Il fatto è semplice: un giornalista di un quotidiano nazionale criticava la nomina a ispettore del ministero della giustizia di un noto magistrato, in passato sottoposto a procedimenti penali e disciplinari. L’articolista descriveva nel dettaglio le vicende alla base di tali procedimenti, precisando che si erano tutti conclusi favorevolmente per la persona ad essi sottoposta, senza tuttavia nascondere il proprio scetticismo sulla scelta.
In primo e in secondo grado la domanda di risarcimento dei danni del magistrato fu accolta. In particolare, la Corte d’appello affermò che il riferimento ai trascorsi giudiziari non aveva «giustificazione alcuna se non evidenziare in senso deteriore la personalità» del magistrato, insinuando che egli sarebbe stato nominato alla carica in questione per “vendicarsi” dei colleghi che avevano indagato su di lui. La menzione di quei “precedenti” non corrisponderebbe alla posizione neutra che spetta al giornalista, il quale sembra non poter giudicare inopportuna una nomina sulla base del fatto che il soggetto nominato era stato inquisito, se poi costui è stato prosciolto. Così facendo, infatti, il giornalista si metterebbe nella posizione di “scavalcare” illegittimamente chi ha l’incarico di accertare responsabilità penali e disciplinari. Tutt’al più, visto il tempo trascorso, quei procedimenti avrebbero dovuto essere ricordati solo genericamente.
La Cassazione, con una motivazione al contempo sobria e severa, demolisce la decisione impugnata, censurandola sui piani della esaustività, della logica e della coerenza. Sotto il primo aspetto, il giudice d’appello aveva apoditticamente affermato che l’articolo suggeriva cattivi pensieri sullo scopo della nomina del magistrato a ispettore, senza che tuttavia questi emergessero dal testo del pezzo. In più, aveva contro ogni logica censurato il giornalista per una sorta di eccesso di completezza e precisione, quasi fosse da preferirsi una critica frammentaria e superficiale. Infine, aveva incoerentemente ritenuto l’articolo denigratorio a causa dell’atteggiamento non “neutro” di chi lo scrisse, facendo riemergere fatti remoti e con ciò pretendendo di sostituirsi ai giudici che assolsero il loro collega.
In sintesi, per la Suprema corte, i giudici non devono insegnare il mestiere ai giornalisti, ma solo tracciare i confini di ciò che è lecito; inoltre, si certifica che «la neutralità è requisito che può esigersi dal giornalista che riferisce fatti, non da quello che formula giudizi di critica politica», che anzi ha il dovere di non essere asettico, posto che solo l’alternarsi di tesi ed antitesi consente al lettore di raggiungere una nuova e più esauriente sintesi. E così, anche le opinioni eretiche hanno piena cittadinanza nel nostro ordinamento, purché basate su fatti veri ed espresse in modo non triviale. – TESTO IN http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/civile/2015-03-24/la-critica-giornalistica-basata-fatti-non-va-mai-sanzionata-204014.php?uuid=AByebcED