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Tribunale di Milano.
LA DIFFAMAZIONE
TRAMITE I MOTORI
DI RICERCA: quando
l’abbinamento fa reato

Secondo i giudici, “la ritenuta valenza diffamatoria dell’associazione di parole truffa a truffatore al nome del ricorrente è “innegabilmente di per sé foriera di danni al suo onore, alla sua persona ed alla sua professionalità”, stante la notoria frequenza e diffusione dell’impiego del motore di ricerca”.

di Sabrina PERON,
avvocato in Milano
per www.personaedanno.it

I motori di ricerca, di seconda generazione, sono sicuramente banche dati in quanto gestiscono un catalogo manuale e/o automatico delle migliori pagine selezionate dal web. Sono dunque delle vere e proprie raccolte di dati, informazioni, opere, consultabili attraverso la digitazione di “parole chiave” che organizzano informazioni (sia estratte da data-base propri che trovate in rete attraverso spiders) che - così organizzate - vengono offerte agli utenti. In particolare, il motore di ricerca per cui è causa, è un’enorme banca dati di pagine web prelevate dagli spiders dal web e memorizzate su enormi sistemi di storage residenti presso il suo web-farm. 
Il riferimento normativo per una qualificazione giuridica della posizione dei vari providers è dato dagli art. da
12 a 15 della direttiva comunitaria 2000/31/CE (recepita dal D. Lgs. n. 70/03) relativa ad aspetti giuridici del commercio elettronico e più in generale dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno. Con riferimento all’host provider la disciplina normativa citata prevede che colui che presta un servizio consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da altro soggetto (hosting) non ne è responsabile, a condizione che non sia a conoscenza che l’attività sia illecita o non sia al corrente di fatti o circostanze in base ai quali l’illegalità è apparente o, non appena al corrente di tali fatti, non agisca immediatamente per ritirare le informazioni o per rendere impossibile l’accesso (art. 14). L’art. 15 esclude poi un obbligo di sorveglianza generale a carico dei providers o un obbligo di ricerca di fatti illeciti, ma prevede l’obbligo di informare l’autorità pubblica di attività o informazioni presunte illecite e quello di comunicare, su ordine dell’autorità giudiziaria, gli elementi che consentano di identificare l’autore dell’immissione. Dunque va esclusa la sussistenza di un obbligo del provider di controllo preventivo dei contenuti memorizzati sul sito internet cui l’host provider da ospitalità. 
Deve considerarsi diffamatoria la semplice associazione al nome di una persona con le parole “truffa” e “truffatore”, operata dal motore di ricerca attraverso il servizio web Search denominato Suggest/Autocomplete. Difatti, l’utente che legge tale abbinamento è indotto immediatamente a dubitare dell’integrità morale del soggetto il cui nome appare associato a tali parole ed a sospettare una condotta non lecita da parte dello stesso. Né appare idonea a svuotare l’abbinamento in oggetto del ritenuto contenuto lesivo la circostanza che i risultati di ricerca correlati ai due suggerimenti di ricerca di cui si tratta – una volta attivata la ricerca stessa – siano obiettivamente del tutto privi di contenuti offensivi. (Trib. Milano, ord., 24 marzo 2011, Pres. Bichi, Rel. Padova), (Testo in http://www.personaedanno.it/CMS/Data/articoli/020710.aspx?abstract=true)


 



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LA SENTENZA



La decisione del Tribunale di Milano, relativa ad un’ipotesi diffamatoria tramite motore di ricerca (decisa in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c.), merita di essere segnalata per la sua novità.
Accadeva che un soggetto, imprenditore nel settore finanziario che peraltro pubblicizzava la sua attività anche tramite internet, non appena digitava il proprio nome e cognome in uno dei più comuni motori di ricerca, scopriva che il servizio denominato “suggest search” (“ricerche correlate”), suggeriva di includere nella ricerca anche le parole “truffa” o “truffatore”.
Ritenendo diffamatorio tale abbinamento, veniva quindi adito, in via d’urgenza, il Tribunale di Milano, per chiedere la rimozione dal software “suggest” dell’associazione tra il proprio nome con le parole “truffa” e “truffatore”.
Con ordinanza in data 21/25 gennaio 2011, il Tribunale di Milano accoglieva il ricorso ed ordinava alla società titolare del motore di ricerca di provvedere alla rimozione dal proprio software suggest/Autocomplete dell’associazione tra il nome del ricorrente e le parole “truffa” e “truffatore”, fissando altresì una somma per ogni giorno di ritardo nell’ottemperanza all’ordine così impartito. In particolare secondo il Tribunale la semplice associazione - creata dal software - tra il nome del ricorrente e le parole “truffa” e “truffatore”, presenta di per sé carattere diffamatorio in quanto lesiva dell’onore e della reputazione della persona nominata: in particolare tale operazione ingenera nell’utente il sospetto di attività non lecite da parte del ricorrente ed inducendolo così a non proseguire la ricerca. Peraltro, irrilevante, in questo contesto era stata inoltre ritenuta dal giudice di prime cure la circostanza che – una volta accettato il suggerimento offerto dal sistema – non apparissero documenti dal contenuto offensivo per il ricorrente.
Avverso tale provvedimento proponeva reclamo, la società titolare del motore i ricerca; il Tribunale di Milano, tuttavia, rigettava tale reclamo, sulla base delle seguenti argomentazioni.
Anzitutto il Tribunale ha evidenziato come il servizio denominato autocomplete è un servizio automaticamente operato dal software che raccoglie i termini di ricerca immessi dagli utenti nel web e provvede a restituirli in ordine di popolarità – mediante un algoritmo matematico.
Ciò posto il Tribunale ha osservato come la società reclamante sia oltre che un Hoster Provider (vale a dire un “soggetto che si limita ad offrire ospitalità ad un sito internet – gestito da altri in piena autonomia sui propri servers”), anche un Internet Service Provider (ISP), vale a dire un “provider che offre servizi di motore di ricerca. I motori di ricerca sono data-base che indicizzano i testi sulla rete e che offrono agli utenti un accesso per la consultazione: sono dunque sostanzialmente una banca dati + un software. Per tale ragione i motori di ricerca vengono qualificati come ISP ed operano come intermediari dell’informazione tipici dell’Internet, utilizzando vari strumenti per intermediare appunto le informazioni, tra cui a) una piattaforma tecnologica (il che comporta pagine di web, data-base e software necessari al funzionamento della piattaforma); b) data-bases e c) softwares (in particolare gli spiders). Il complesso di tale sistema consente di pervenire all’esito della ricerca che è una o più pagine web con una serie di informazioni organizzate dal meccanismo predisposto dal motore di ricerca”.
Ora tali motori di ricerca sono “sicuramente banche dati in quanto gestiscono un catalogo manuale e/o automatico delle migliori pagine selezionate dal web”. Essi sono quindi vere e proprie raccolte di dati, informazioni, opere, consultabili attraverso la digitazione di “parole chiave” che poi organizzano (estraendole da data-base propri o trovandole in rete attraverso spiders) ed offrono all’utente. La società reclamante, in particolare, altro non è che “un’enorme banca dati di pagine web prelevate dagli spiders quasi per intero dal web e memorizzate su enormi sistemi di storage residenti presso il suo web-farm”. 
Osservava il Tribunale, come nella fattispecie in esame non fosse applicabile tale normativa di cui al D.Lgs. 70/2003, poiché essa inerisce l’attività tipica dell’hoster provider che, tuttavia, non era in discussione dato che le lamentele del ricorrente riguardavano esclusivamente l’associazione del suo nome con le parole “truffa” e “truffatore” – associazione che era esclusivamente “frutto della specifica modalità operativa del “servizio Suggest/Autocomplete”, software messo a punto dalla società reclamante e di cui quest’ultima si avvale per facilitare la ricerca degli utenti attraverso il suo motore di ricerca.
In particolare grazie a detto software quando “l’utente inizia a digitare le prime lettere/parole nella stringa di ricerca, si apre un menù “a tendina” ove appare una lista di termini di ricerca suscettibili di completare la/le parole chiave che in quel momento l’utente sta digitando. Si tratta di suggerimenti di ricerca connessi alle parole chiave digitate dall’utente, che gli consentono di leggere diverse proposte di ricerca – fornite dunque in automatico dal servizio - attraverso le quali eseguire la stessa in maniera più agevole e rapida. Il completamento automatico (Autocomplete) della ricerca impostata dall’utente (e rappresentata dalla lista dei suggerimenti) viene compiuto dal software che in automatico raccoglie ed aggrega le informazioni già pubblicate da terzi sul web, applicando un algoritmo matematico che visualizza parole già immesse più volte in un arco temporale determinato (appunto dal sistema) da altri utenti nella stringa di ricerca (…). Dunque la visualizzazione di tali suggerimenti (ovvero le lista delle parole cliccando sulle quali poi si aprono le pagine web dove le stesse figurano presenti) sono il risultato delle ricerche più frequenti e quindi più “popolari” effettuate in precedenza dagli utenti”.
Ora, dall’associazione tra il nome del ricorrente con le parole “truffa” e “truffatore” essendo opera del software messo a punto appositamente ed adottato dalla reclamante per ottimizzare l’accesso alla sua banca dati non può che “conseguirne la diretta addebitabilità alla società, a titolo di responsabilità extracontrattuale, degli eventuali effetti negativi che l’applicazione di tale sistema può determinare”.
Il Tribunale ha altresì ritenuto essere un falso problema quello prospettato dalla reclamante secondo la quale ove si pretendesse la rimozione a posteriori dell’associazione censurata, ciò “potrebbe causare lamentele e richieste risarcitorie a carico del motore di ricerca proprio da parte degli utenti che vedrebbero un’illegittima intromissione dell’hosting provider nei contenuti da questi immessi nel sito”. 
Difatti il servizio “Suggest/Autocomplete” non compie alcun intervento diretto sui contenuti memorizzati nel web, limitandosi a “compiere su di essi una rilevazione/estrapolazione meramente statistica (e dunque “esterna” rispetto al contenuto) dei dati oggettivi sulla base unicamente della frequenza (c.d. popolarità) dei termini usati dagli utenti nelle ricerche. Si tratta perciò di un software che solo astrattamente è “neutro” in quanto basato su di un sistema automatico di algoritmi matematici, poiché esso perde tale neutralità ove produca – quale risultato dell’applicazione di tale automatismo basato sui criteri prescelti dal suo ideatore - un abbinamento improprio fra i termini di ricerca. Né, viceversa, il solo fatto che la modalità operativa (software) del sistema crea l’abbinamento in maniera automatica può rendere “neutro” - in virtù della mera automaticità con la quale perviene all’associazione di parole – un abbinamento che di per sé non lo è”.

Irrilevante infine è stato ritenuto il rilievo per il quale – “trattandosi si un software completamente automatico” sarebbe “evidente l’impossibilità – senza compromettere l’intero servizio – di operare un discrimine tra termini “buoni” e termini “cattivi”, non solo in considerazione del numero indeterminabile di parole con un potenziale significato negativo, ma anche e soprattutto del fatto che il medesimo termine potrebbe avere significati del tutto diversi se abbinati a parole diverse”.
Osservai in proposito il Tribunale che ciò che viene richiesto “non è il controllo preventivo sui dati presenti nel sistema, ma quello successivo a posteriori sui risultati della sua operatività. Sotto tale profilo, peraltro, è evidente che resta del tutto irrilevante in questa sede la problematica connessa ai rimedi operativi da adottare direttamente sul software per evitare in maniera sistematica che si pervenga al risultato di abbinamenti impropri – trattandosi chiaramente di aspetti estranei alla cognizione di cui il Tribunale è stato investito”. Tanto più che la reclamante “ben potrebbe ritenere sufficiente in ipotesi intervenire soltanto in via successiva, provvedendo a rimuovere l’abbinamento solo nei casi in cui ciò fosse richiesto - a fronte di chiare violazioni di diritti di terzi”. Anche perché non va dimenticato che il servizio “Suggest/Autocomplete” costituisce unicamente un’agevolazione di offerto agli utenti, la cui “eventuale modifica e/o eliminazione non comprimerebbe in alcun modo la libertà degli stessi di accedere alle ricerche offerte dal motore di ricerca”.
Ricostruita in questo modo la condotta della società reclamante, il Tribunale ha ritenuto di dover condividere la valutazione del giudice di prime cure che aveva ritenuto diffamatoria la semplice associazione al nome del ricorrente con le parole “truffa” e “truffatore”.
A tale proposito il Tribunale ha osservato come “l’utente che legge tale abbinamento sia indotto immediatamente a dubitare dell’integrità morale del soggetto il cui nome appare associato a tali parole ed a sospettare una condotta non lecita da parte dello stesso”. A ciò si aggiunga che non “appare idonea a svuotare l’abbinamento in oggetto del ritenuto contenuto lesivo la circostanza (peraltro pacifica in causa) che i risultati di ricerca correlati ai due suggerimenti di ricerca di cui si tratta – una volta attivata la ricerca stessa – siano obiettivamente del tutto privi di contenuti offensivi”.
A tale proposito non poter condividere la tesi della reclamante “secondo la quale la suggestione iniziale sarebbe comunque subito eliminata dalla lettura dei contenuti inoffensivi del materiale raccolto all’interno della ricerca stessa. Infatti tali contenuti non sono immediatamente visualizzabili dall’utente, che deve digitare le parole del suggerimento per “entrare” nel relativo contenuto e leggerlo. Per essere indotto a ciò, all’evidenza, egli deve essere mosso da un qualche interesse specifico – in assenza del quale gli resta solo l’originaria ed immediata impressione negativa ingenerata dall’abbinamento di parole”. A ciò si aggiunga che l’utente di internet “perfettamente in grado di discernere i contenuti offerti dalla rete”, rappresenta "un’immagine certamente corrispondente ad una fetta – ma minoritaria – degli utenti del sistema; utopistica con riguardo all’utente medio del sistema e certo alla grande maggioranza di essi”.
Secondo il Tribunale, inoltre ritenuta valenza diffamatoria dell’associazione di parole truffa a truffatore al nome del ricorrente è “innegabilmente di per sé foriera di danni al suo onore, alla sua persona ed alla sua professionalità”, inoltre la "potenzialità lesiva della condotta addebitata alla reclamante appare suscettibile, per la sua peculiare natura e per le modalità con cui viene realizzata, di ingravescenza con il passare del tempo stante la notoria frequenza e diffusione dell’impiego del motore di ricerca". Tutto ciò peraltro giustifica il legittimo accoglimento del ricorso in via d’urgenza pure sotto il profilo del periculum in mora; anche in considerazione della difficoltà obiettiva di provare e quindi liquidare il danno nella sua effettiva consistenza, avuto riguardo altresì alla circostanza che il ricorrente utilizza il web per la propria attività professionale.


 


» Trib. Milano 24.03.2011 MOTORE RICERCA DIFFAMAZIONE.pdf



 





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