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1912-2012. Cent’anni di vita del Gruppo cronisti lombardi raccontati in un volume. FRANCO ABRUZZO/ Storico del presente: ‘Noi cronisti sempre di corsa e, di rigore, le foto in bocca’.
“Non guardavamo l’orologio, non eravamo impiegati del catasto”, racconta l’ex cronista giudiziario del Giorno e caporedattore del Sole 24 Ore, nonché presidente emerito dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia. In Vita da cronista, edito dall’Associazione lombarda giornalisti, le storie e le avventure dei professionisti dell’informazione.

di Roberto Zoldan

Franco Abruzzo, giornalista di antica razza, racconta come si diventa cronisti, come si costruisce una carriera giornalistica, dagli anni ruggenti dell'espansione economica del dopoguerra alla comunicazione informatica e live di oggi. In “Vita da cronista”, edito dall'Unione cronisti fondata 100 anni fa e dall’Associazione lombarda dei   giornalisti, si susseguono mille storie di professionisti della comunicazione che con il lavoro in prima linea hanno costruito una brillante carriera.


Calabrese, studi classici, Abruzzo arrivò a Milano il 3 febbraio 1962, 22 anni, 150 mila lire in tasca, guidando una 600 Fiat che lo portò, sbagliando le strade, diritto in piazza Duomo. A Milano tutte le strade, da qualsiasi parte d'Italia si arrivi, finiscono in piazza Duomo, la minuscola testa-centro di un grande corpo urbano. Alle spalle tre anni di corrispondenze da Cosenza per Il Tempo e Il Giornale d’Italia di Roma, la Tribuna del Mezzogiorno di Messina, Tuttosport, Le vie del mondo, vecchia rivista del Touring. Aveva fatto il liceo vivendo e sognando nel mito della grande Milano e studiando l’Illuminismo lombardo. “La storia d’Italia, si sa”, commenta “l’ha sempre fatta Milano: il Risorgimento, il fascismo e l'antifascismo, la resistenza e la ricostruzione, l'industrializzazione e la grande finanza, il Centrosinistra nel 1963, il Berlusconismo...”. 


Vuole fare il cronista ma si adatta a scrivere comunicati stampa di musica classica e leggera (60 mila lire al mese, lo stipendio di un operaio specializzato d'allora) collaborando con la Deutsche Grammophon, sede italiana di un'etichetta discografica tedesca: “Ascoltavo Orietta Berti e scrivevo il relativo comunicato. Non capivo nulla di musica leggera ma scrivere testi, anche leggeri, in chiave giornalistica, mi piaceva”. Abita a pensione da una signora piemontese in via Fatebenefratelli, vicino alla Questura, pranzo e cena qua e là, dove si spendesse poco. Frequenta anche il “Gatto Nero”, ristorante preferito dalle ragazze dell’omonimo night club di via Manzoni. Debolezze di giovanotto di provincia, brivido trasgressivo nella metropoli in espansione.


Segue lo sport per il quotidiano L’Italia, collabora con Sport Informazione, lavora tre mesi nella redazione del quotidiano economico Il Sole di via Ciovasso (sostituisce un collega chiamato alle armi). Ha un obiettivo: arrivare al Giorno, il grande quotidiano dell'Eni, moderno, all'avanguardia nella formula editoriale e nelle idee, scrivere accanto a Giorgio Bocca e Gianni Brera, ai grandi corrispondenti in giro per il mondo. L’occasione si presenta quando conosce Paolo Murialdi, il caporedattore. “In quegli anni nascevano le edizioni della provincia, mi chiedevano interventi spot con articoli di cronaca nera e bianca, pagato a giornata, in giro per il Milanese, da Monza a Cassano d’Adda, da Sesto San Giovanni a Lodi fino giù a Codogno”.


A Lodi gli capita di bussare alla porta del procuratore capo, alias don Ciccio Novello, che ha le confidenze di meridionali influenti. “Mi dice: caro Franco, vai a Codogno, gira attorno al carcere, troverai qualcosa. Trovo tutto chiuso, faccio domande agli abitanti del quartiere ma nessuno parla, mi vede un vigile urbano, chiedo e lui sorride, poi vado dai carabinieri che anche loro scoppiano a ridere... La storia? Le guardie avevano trasformato il carcere in una casa chiusa, veramente ‘chiusa’, anche a favore dei detenuti, aprendo le porte alle donnine della via Emilia. Notti allegre per tutti”. Scrissi tre pezzi per una mezza pagina, un grande servizio di malcostume, i giornali concorrenti non sapevano niente. In redazione cominciavano a conoscermi e mi tributarono qualche sorriso.


Il giovane cronista calabrese segue la grande immigrazione dal sud. Migliaia di braccianti e di massaie passano dalle campagne del Mezzogiorno alle periferie delle metropoli, attratti dall'industrializzazione esplosiva e avventuristica. Sei milioni di immigrati, un po’ a Roma e tanti al Nord, racconteranno i sociologi. Sui giornali appaiono le tragedie del disadattamento e le luci dell’eroismo del grande cuore meridionale, a volte segnati dall’arretratezza sociale e dai pregiudizi che gonfiano la cronaca nera.


“Se non avevo notizie fresche di giornata e i capi chiedevano articoli che potessero avere un richiamo in prima pagina, andavo dal portiere di qualche blocco di palazzoni popolari di Cologno Monzese, della periferia di Milano, nel Nord milanese, in viale Lombardia o in via Maroncelli a Sesto San Giovanni, dove s’installava l'Italia proletaria ed ex contadina. Lì raccoglievo storie a piene mani. Imparai ad affinare la sensibilità per la notizia e la tecnica giornalistica, in trincea, fuori dalla redazione, pronto ad ascoltare l'eco degli eventi di un grande agglomerato urbano, storie di ogni tipo, belle e brutte”.


Essere giornalisti significa essere testimoni: captare l'evento, meglio se in esclusiva, descriverlo velocemente per seguire i tempi di redazione e di stampa, portare le foto indispensabili, allora cartacee. Ci vogliono strumenti buoni e orecchio teso. Abruzzo acquistò per 300 mila lire, per lui una fortuna, un registratore professionale e una Pentax. Ricorda: “La fotografia era ed è, soprattutto oggi, un complemento dell'informazione e al Giorno se non portavi la foto giusta, mi dicevano, uccidi la notizia”.


Da Monza, 100 mila abitanti, ricca e nobile città a nord del capoluogo, non arrivavano notizie. Lo mandano a caccia di notizie in quella comunità nella quale il Giorno è in concorrenza forte con il Corriere e lui scende in pista. 


“Ricordo il muratore calabrese che in un cantiere ammazzò tre bergamaschi con un fucile a pallettoni. Alla Barona, periferia sud di Milano, il giorno dopo trovo la moglie dell’omicida con una figlioletta poliomielitica. Tra le lacrime mi racconta che lei e il marito erano saliti fino a Milano per farla curare. I colleghi di lavoro, un po' razzisti, tormentavano il pover’uomo: un giorno gli fanno muovere una carriola che avevano attaccato alla corrente elettrica e lui per poco non muore. S'infuria e si vendica. Racconto il retroscena, la storia commuove i lettori e la Procura incrimina anche il datore di lavoro. L’omicida finì in seminfermità mentale a Castiglione delle Stiviere”.


Mille storie. Il ferroviere bigliettaio di Lodi che ruba alle FS dieci milioni di lire a mille per volta. Ha la figlia gravemente malata alla testa, l’operazione è difficile e costosa; accumula e aspetta che arrivi a Milano il grande Olivecrona, il neurochirurgo svedese, per farla operare. Quand’è il momento, il luminare la visita e dice che non c'era niente da fare. Lui allora restituisce “quei” soldi ma viene incriminato. La storia da libro Cuore è così toccante che interviene il Vescovo in suo favore. Condannato in primo grado a Lodi, il ferroviere è assolto in Appello a Milano perché ha agito in stato di bisogno. Si meritò una pagina intera il giorno dell'inizio del processo.


A Monza c’era il quinto tribunale d’Italia con giurisdizione su più di un milione di abitanti, una palestra eccellente. Abruzzo diventa cronista giudiziario, lavora bene e si merita, diventato giornalista professionista, l'incarico al Palazzo di Giustizia di Milano. Sono gli anni del terrorismo e della prima mafia a Milano, anni caldi. Il 16 maggio 1974 la guardia di Finanza arresta il boss Liggio.


Racconta: “Il giorno successivo il Giorno esce con due pagine che parlano dei grandi latitanti, quelli ancora da acchiappare; mi chiamano in Procura. 'Che cosa hai fatto?', mi grida il procuratore capo Micale mostrando le foto dei ricercati pubblicate sul giornale. 'Hai rovinato l’inchiesta!'. Rispondo: basta andare in Galleria, qui a Milano, alla libreria del Poligrafico dello Stato dove tutti possono acquistare tre volumi scritti dalla prima Commissione antimafia. Lì c’è tutto, anche le foto. Che avevo fatto di male? Mi ero semplicemente documentato”.


La banda politico-criminale di Carlo Fioroni sequestra e ammazza Carlo Saronio, giovane ingegnere milanese ricercatore presso l'istituto Mario Negri. Saronio era discendente di una famiglia di industriali farmaceutici, ex proprietari delle Industrie farmaceutiche Carlo Erba.


“Uno della banda confessa e rivela dove l’hanno seppellito. Andiamo a cercare, si scava, esce uno scheletro con un tampone in bocca, nelle campagne tra Segrate e Vimodrone. Avevo studiato un po’ di medicina legale sul testo del professor Franchini, ricostruisco le dieci possibili domande che la Corte d’Assise poteva aver posto ai periti. Il giorno dopo mi chiamano di nuovo. Quelle che avevo pubblicato erano le stesse domande che il presidente Antonino Cusumano aveva fatto ai periti! Chi me le aveva passate? Risposi con un po' di presunzione: forse io e il dottor Cusumano abbiamo studiato sugli stessi testi”. 


Il crac Sindona, storia pesante, settembre 1974. Il cronista Abruzzo aveva trascorso l’estate studiando la legge fallimentare e la legge bancaria (del 1936), diventa il ‘sindonologo’ della redazione. Dopo una campagna di stampa, i suoi articoli convincono la Procura generale di Milano a costituirsi nel giudizio d’appello, nell’interesse dello Stato, contro l’insolvenza del banchiere.


Seguono gli anni terribili del terrorismo: Abruzzo studia il retroscena storico-politico delle aggregazioni criminali. Ricorda: “Il 29 gennaio 1979, il giorno in cui fu ucciso il pm Emilio Alessandrini, mi ritrovai nella lista nera, ‘quelli da uccidere', con Walter Tobagi del Corriere della sera e Leo Valiani, più 32 tra avvocati e magistrati. Folli storie di sangue e di ferocia. Il mio nome era stato messo in nota anche dalla colonna di Corrado Alunni, catturato nel settembre del 1978. Il 1° ottobre ci fu l’operazione del generale Dalla Chiesa che sgominò la colonna Alasia. La lista dei condannati a morte, tra i quali c’ero io, era stata lasciata da un confidente dei carabinieri sotto una 500 Fiat in viale Lombardia, a Milano. Fui chiamato di sera in Procura. Mi dissero di rintracciare il collega Tobagi e di avvertirlo del pericolo. L’indomani il procuratore capo Mauro Gresti ci comunicò che eravamo ‘soggetti a rischio’, dovevamo prendere precauzioni. Cambiai stile di vita e di lavoro, rientrai in redazione come caposervizio alle pagine di politica e poi ai Fatti della Vita, sezione della grande cronaca nazionale”.


Il cronista Abruzzo riprese a studiare. Tornava a casa a notte fonda e apriva i libri di diritto. Nonostante il lavoro e la vita di famiglia con due figlie, in quegli anni si laureò in Scienze politiche.


“Mi querelavano i mafiosi della banda Liggio, io li controquerelavo per calunnia, nella certezza che avevo scritto la verità. Tutti i procedimenti furono archiviati. Quando uno si sente al centro del piccolo-grande mondo della cronaca, ha un alto sentire di sé stesso. Fu vita di grande ritmo, una bella vita professionale. Durante il processo Liggio, il vecchio capoclan mi attaccò pubblicamente. Io ero in piedi accanto allo scranno del pm Giovanni Caizzi. Liggio mi guardò e puntò il dito verso di me: 'Le accuse, signor presidente, le ha scritte il segretario del pm'. Successe il finimondo, finii in tv. Durante quel processo mi rubarono l’Alfa Giulia. La mattina in aula, don Coppola, cappellano della mafia, chiese ai presenti: 'Qualcuno sa se un cronista di giornale può forse girare a piedi per la città?'. Gli altri imputati sghignazzavano. Sapevano tutto, don Coppola mi aveva mandato un messaggio. Seguii la pista della mia Giulia fino al porto di Catania dove era stata imbarcata per Beirut. Così mi assicurò l’avvocato di uno degli imputati”.


A 44 anni Franco Abruzzo andrà al Sole 24 ore. Otto anni prima, Eugenio Scalfari lo avrebbe voluto a capo della cronaca giudiziaria milanese di Repubblica, quotidiano che sarebbe nato nel gennaio del 1976; lui aveva firmato il contratto ma poi aveva rinunciato. “Non me l’ero sentita di lasciare il Giorno con il quale, in quegli anni ruggenti, mi identificavo”, ricorda.


Qual è la struttura mentale di un buon cronista?


“Ricca di passionalità. Il bravo cronista deve essere innamorato del proprio lavoro. La cronaca emoziona, entra nel sangue, lascia tracce incisive nella memoria. Il cronista è uno storico del presente, deve consultare le fonti, scavare alla ricerca di una verità che sfugge, nella consapevolezza di avere poco tempo. Il nemico è sempre il tempo”. Un orecchio agli echi delle intercettazioni, anche alle voci di corridoio, le interviste agli avvocati degli arrestati che muoiono dalla voglia di dire la loro, a volte di notte, davanti alle carceri.


Nel lavoro di un buon cronista c'è anche la cronaca bianca, collezionata in tono minore, la vita sociale della comunità e della pubblica amministrazione. Nei primi mesi del 1970 bisognava salvare 5000 alberi attorno alla curva di Lesmo dell’autodromo di Monza, nel grande parco cintato più grande d'Europa.  Andò così: “Un assessore socialdemocratico del comune di Monza mi parlò degli alberi da tagliare per modificare la curva. Era preoccupato. Lo tranquillizzai e gli chiesi il testo della delibera, me la sarei cavata con dieci righe, dissi. All’indomani, il Giorno pubblica di spalla in prima pagina un mio pezzone con un titolo su tre colonne contro il taglio delle piante. Succede il finimondo. Tifosi d'automobilismo ed ecologisti vengono quasi alle mani. Coll'assessore mi giustificai dicendo che in redazione, a Milano, mi avevano costretto a scrivere quell’articolo. In redazione, Mario Fossati, grande inviato di ciclismo, monzese, mi fece festa. Avevo salvato i suoi alberi, mi disse”.


Da quel giorno ci fu anche una piccola medaglia verde sul petto di un pluridecorato dell'informazione.


 


 


 


 





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