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L’Ordine dei Giornalisti è legittimo perché tutela l’indipendenza degli iscritti - Legittima la riserva della professione giornalistica ai soli iscritti all'Ordine. La sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale.

SENTENZA n. 11/ 1968                        
LA CORTE COSTITUZIONALE ha pronunciato la seguente                            
                               SENTENZA                                
   nei giudizi riuniti di legittimita' costituzionale degli artt. 24,
28 cpv., 29, 33, 34, 35, 45, 46, 47, 51, lett. c e d, 54, 55, 63, terzo
comma, della legge 3 febbraio 1963, n. 69   (ordinamento   della
professione di giornalista), promossi con le seguenti ordinanze:      
   1) ordinanza emessa il 7 febbraio 1967 dal Tribunale di Torino sul
ricorso di Ricciardi Maria, iscritta al n. 135 del Registro ordinanze
1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 190 del
29 luglio 1967;                                                        
   2) ordinanza emessa il 5 giugno 1967 dal pretore di Catania nel
procedimento penale a carico di Settinori Giuseppe e Longhitano
Giuseppe, iscritta al n. 210 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 271 del 28 ottobre 1967.  
   Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione di Lenghitano Giuseppe e dell'Ordine del
giornalisti di Sicilia;                                                
   udita nell'udienza pubblica del 14 febbraio 1968 la relazione del
Giudice Francesco Paolo Bonifacio;                                    
   uditi gli avvocati Arturo Carlo Jemolo e Paolo Barile, per
Longhitano Giuseppe, gli avvocati Massimo Severo Giannini e Nino Gaeta,
per l'Ordine del giornalisti di Sicilia, ed il sostituto avvocato
generale dello Stato Piero Peronaci, per il Presidente del Consiglio
dei Ministri.                                                          
                         Ritenuto in fatto                          
- Con ordinanza del 5 giugno 1967, emessa nel procedimento
penale a carico di Giuseppe Settineri e Giuseppe Longhitano, il pretore
di Catania ha sollevato varie questioni di legittimita' costituzionali
concernenti numerose disposizioni della legge 3 febbraio 1963, n. 69,
relativa all'ordinamento della professione di giornalista.            
   Dopo aver osservato che nel giudizio innanzi a lui pendente vanno
applicate norme che, imponendo l'iscrizione obbligatoria nell'albo,
costituiscono una limitazione assoluta della liberta' di stampa e dopo
aver messo in evidenza che la sopravvenuta amnistia del reato ascritto
agli imputati non esclude la rilevanza   della   questione   sulla
legittimita' costituzionale delle norme che lo configurano, il pretore
enuncia le ragioni che gli fanno ritenere non manifestamente infondati
i dubbi sulla costituzionalita' delle disposizioni impugnate e che
possono cosi' riassumersi:                                            
   1) l'art. 29 della legge condiziona l'iscrizione nell'elenco del
professionisti alla previa iscrizione nel registro del praticanti ed
all'esercizio continuativo della pratica per almeno 18 mesi: con il che
la possibilita' di intraprendere l'attivita' giornalistica viene fatta
dipendere dalla completa discrezionalita' - artt. 33 e 34 - degli
editori, del direttori del giornali e, attraverso l'Ordine, del
giornalisti gia' iscritti;                                            
   2) l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti - art. 35 - e'
condizionata alla dimostrazione di aver svolto attivita' retribuita per
almeno due anni, alla certificazione del direttori delle pubblicazioni
ed alla valutazione del singoli Consigli dell'Ordine: e cio' col
pericolo di una possibile forma di censura ideologica.                
   A proposito di queste prime due censure il pretore, rilevato che
alla   discrezionalita'   altrui   le   suddette   norme rimettono la
possibilita' di esercitare un diritto di liberta' costituzionalmente
garantito   e da valutare anche in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, esclude ogni possibilita' di raffronto tra l'istituzione
dell'albo del giornalisti e gli albi relativi ad altre attivita'
professionali che non riguardano l'esercizio di diritti pubblici
soggettivi, ed osserva che la liberta' di manifestare il proprio
pensiero non tollera limitazioni che non trovino fondamento negli
stessi principi costituzionali;                                        
   3) gli artt. 46 e 47, nelle parti in cui prescrivono l'obbligo di
iscrizione all'albo per i direttori e i vice direttori responsabili dei
quotidiani, dei periodici e delle agenzie contrastano sia con l'art. 21
che con gli artt. 18, 19 e 33 della Costituzione, perche' possono
compromettere la liberta' di stampa, la liberta' religiosa, la liberta'
di associazione e la liberta' della cultura;                          
   4) l'art. 36 condiziona l'iscrizione di uno straniero ad un
trattamento di reciprocita', laddove l'art. 21 della Costituzione
garantisce a "tutti" la libera manifestazione del pensiero; ed inoltre
la limitazione dell'iscrizione - v. art. 33 reg. - a chi abbia
esercitato la professione in conformita' alle leggi dello Stato di
appartenenza soffoca la libera voce di chi e' cittadino di un paese che
non conosca la liberta' di stampa;                                    
   5) l'art. 63, comma terzo, prevede la partecipazione di giornalisti
designati dal Consiglio dell'ordine ai collegi giudiziari di primo e
secondo grado, ma, in quanto non prevede le garanzie necessarie ad
assicurarne l'indipendenza, viola l'art. 108 della Costituzione;      
   6) la struttura di corporazione chiusa, propria dell'Ordine, fa
apparire costituzionalmente illegittimi:   a) l'art. 28 (v. anche art.
32 reg.), che affida alla decisione irrevocabile del Consiglio la
valutazione della natura delle pubblicazioni a carattere tecnico,
professionale e scientifico; b) l'art. 47, comma primo, che attribuisce
al Consiglio il compito di accertare se determinate pubblicazioni siano
organi di partiti o di movimenti politici o di   organizzazioni
sindacali,   e   cio'   col pericolo che siano limitati i diritti
riconosciuti dagli artt. 39 e 49 della Costituzione; c) gli artt. 51, c
e d, 54 e 55, relativi alla sospensione ed alla radiazione, perche'
queste misure colpiscono non solo il singolo, ma anche il periodico, al
quale vien meno uno del requisiti richiesti per la registrazione; d)
l'art. 24, che attribuisce al Ministro di grazia e giustizia poteri che
possono incidere sulla liberta' di stampa.                            
   L'ordinanza mette in evidenza che, pur essendo   strettamente
rilevanti per il giudizio in corso solo le questioni relative agli
artt. 45, 29, 33, 34 e 35, vengono rimesse alla Corte anche le altre
disposizioni di cui si e' fatto cenno perche' la Corte ne pronunzi la
caducazione in forza dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Il
pretore conclude col rilievo che molte delle norme impugnate non
sarebbero forse incostituzionali se l'alto non avesse carattere di
obbligatorieta', e a tal proposito ricorda sia le norme fasciste che
proprio attraverso la regolamentazione dell'attivita' giornalistica
attentarono alla liberta' di stampa, sia le opinioni nettamente
contrarie all'istituzione dell'albo espresse, durante la Costituente e
dopo, da eminenti personalita' del mondo democratico.                  
- L'ordinanza, regolarmente notificata alle parti, al pubblico
ministero ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere, e' stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 271 del 28 ottobre 1967.                                  
   Nel presente giudizio si sono costituiti il   sig.   Giuseppe
Longhitano, l'Ordine del giornalisti di Sicilia ed il Presidente del
Consiglio dei Ministri.                                                
   La difesa del Longhitano, dopo aver rilevato che l'attivita' svolta
dal giornalista professionista e' in sostanza attivita' di lavoro
subordinato e che percio' la legge in esame applica la normativa
generale concepita per i liberi professionisti a persone che a tale
categoria non appartengono, denuncia il pieno contrasto fra la legge
che riserva l'attivita' giornalistica solo a chi sia iscritto in un
albo ed il principio costituzionale che a tutti garantisce il diritto
di manifestare il proprio pensiero con lo scritto o con ogni altro
mezzo di diffusione e, dunque, anche attraverso il giornale, che e' il
piu' antico e piu' usato strumento di propaganda delle idee: contrasto
ancor piu' evidente se si considera che la stampa non puo' essere
soggetta ad autorizzazioni, mentre la legge consente la redazione del
giornale solo a chi abbia ricevuto il crisma di un apparato in vario
modo agganciato ad organi statali. Ne' varrebbe, secondo la difesa, far
richiamo a norme le quali impongono prove di capacita' per l'esercizio
di determinate attivita', perche' esse presuppongono la necessita' di
accertare doti tecniche a tutela di interessi del terzi, laddove
pretendere che il giornale sia ben fatto significa imprimergli un
carattere di ufficiosita': il giornalismo si avvicina all'arte e non
tollera altro giudizio che quello del pubblico del lettori, men che mai
un giudizio (ad es. perfino sull'obbligo del rispetto della verita'
sostanziale del fatti) che l'art. 2 finisce con l'affidare addirittura
ai Tribunali dello Stato. La legge, continua la difesa, puo' divenire,
ad un primo avvento di governo autoritario, pericoloso mezzo di
pressione e contrasta altresi' con l'art. 3, secondo comma, della
Costituzione, perche', pretendendo titoli di cultura, impedisce a
soggetti che non li posseggano o non possano sottoporsi alla pratica,
di dar vita ad un giornale; con gli artt. 18, 19, 39 e 49 della
Costituzione perche' la pubblicazione di un giornale puo' essere il
fine di un'associazione, puo' servire allo scopo di promuovere un
risveglio religioso, puo' avere finalita' sindacali o politiche; con
l'art. 33 perche' il campo prossimo al giornalismo e' quello della
cultura e dell'arte; infine con l'art. 108 della Costituzione perche'
e' la maggioranza del Consiglio dell'ordine, che quasi sempre ha
colorazione politica, a designare i componenti del collegio giudicante
e perche' questa designazione e' fatta dallo stesso organo contro le
cui deliberazioni si ricorre.                                          
   Tutte queste ragioni - cosi' conclude la difesa - dimostrano
l'incostituzionalita' della legge, ma non pregiudicano la possibilita'
di contratti collettivi di categoria e anche di leggi che in materia di
concorsi,   di   previdenza ecc. dovessero operare distinzioni tra
categorie   e   categorie   di   giornalisti,   secondo   il   criterio
dell'importanza del giornale, dell'intensita' di opera prestatavi e
cosi' via.                                                            
- Opposte sono le conclusioni alle quali perviene la difesa
dell'Ordine del giornalisti di Sicilia (atto di deduzioni depositato il
16 novembre 1967) la quale, dopo una breve ricostruzione delle
circostanze di fatto che diedero origine al processo di merito, osserva
che lo stesso pretore ha dichiarato   irrilevanti   le   questioni
concernenti alcuni articoli della legge sicche' l'oggetto del giudizio
di costituzionalita', in base ai principi, deve riguardare solo gli
artt. 45, 29, 33, 34 e 35 in riferimento agli artt. 21 e 3 della
Costituzione. Cio' premesso, la difesa contesta la fondatezza dei dubbi
prospettati dal giudice a quo: ed infatti, a suo avviso, e' da
escludere che da parte degli editori, dei direttori e degli stessi
Ordini possa essere esercitata una qualsiasi discrezionalita' in ordine
ai vari momenti del procedimento di iscrizione nell'albo; e' certo che
tutti i giornali ospitano scritti di non giornalisti, e la stessa
legge, disponendo che chi chiede di essere incluso nell'elenco del
pubblicisti esibisca giornali e periodici contenenti suoi scritti,
conferma che e' ben possibile esprimere il proprio pensiero attraverso
i giornali senza avere qualifiche professionali; in definitiva la legge
impugnata e' congegnata in modo da salvaguardare rigorosamente la
liberta' ed ha a solo fine la tutela del   giornalista   contro
l'imprenditore, affidata ad un ordine a struttura democratica.        
   La difesa dell'Ordine, per completezza di esposizione, esamina
anche le altre questioni che, per quanto in precedenza esposto, a suo
parere,   devono essere ritenute irrilevanti. In particolare essa
sostiene: a) gli artt. 46 e 47 sono incensurabili, perche' se sul
direttore e vice direttore gravano particolari responsabilita', non si
puo' non richiedere che tali cariche siano ricoperte da persone
qualificate   attraverso   l'iscrizione nell'albo; b) la disciplina
relativa all'iscrizione del giornalista straniero e' infondata, perche'
l'iscrizione in un elenco non viola la liberta' di manifestazione del
pensiero; c) la particolare composizione dei collegi giudicanti di
primo e secondo grado e' legittima' alla stregua della   stessa
giurisprudenza di questa Corte che si e' gia' occupata di collegi
aventi quali componenti soggetti estranei alla magistratura; d) il
giudizio   del   Consiglio   sulla   natura tecnica, professionale o
scientifica di pubblicazioni non e' libero, ma ha il carattere di
discrezionalita' tecnica; e) per quanto concerne le eccezioni stabilite
per i periodici di partito politico o di sindacato, si tratta di una
circostanza obbiettiva che qualunque giudice puo' accertare; f) che la
sospensione o radiazione dall'albo del direttore di giornali faccia
venir meno uno dei requisiti richiesti per la registrazione del
periodico e' cosa del tutto logica e inevitabile; g) i poteri conferiti
al Ministro sono gli stessi che spettano nei confronti di qualsiasi
ordine professionale e non si vede quale norma costituzionale sia
violata. La difesa conclude chiedendo che tutte le questioni sollevate
dal pretore vengano dichiarate non fondate.                            
- Secondo l'Avvocatura dello Stato - v. atto di deduzioni
depositato il 17 novembre 1967 - la stessa civilta' contemporanea,
allargando l'orizzonte sul quale la collettivita' porta la   sua
attenzione e accrescendo le possibilita' tecniche dell'informazione,
imprime all'attivita' giornalistica   uno   spiccato   carattere   di
professionalita' che non poteva lasciare insensibile il legislatore. In
questa premessa va inquadrata la legge in esame, che non appare in
contrasto con la Costituzione. Gia' la Corte, infatti, ha riconosciuto
(sent. n. 38 del 1961) che il legislatore ha potesta' di stabilire
adeguata disciplina all'esercizio della manifestazione del pensiero
attraverso la stampa, ed e' da escludere che l'art. 21   della
Costituzione   richieda   che   il   diritto   ivi   consacrato   debba
necessariamente esercitarsi attraverso la professione di giornalista.
La legge in esame non nega che chi non voglia intraprendere la
professione giornalistica possa limitarsi ad un'attivita' giornalistica
occasionale, e di conseguenza e' erroneo ritenere che per poter
manifestare il proprio pensiero sia indispensabile esercitare la
professione di giornalista: sicche' la questione di costituzionalita'
e' totalmente infondata. Tale essa appare anche per quanto riguarda le
norme che disciplinano le modalita' dell'iscrizione, tutte intese
all'accertamento di requisiti che hanno natura specializzante: e non e'
dato vedere come la conoscenza delle cognizioni richiesta dalla legge
nonche' l'esercizio della pratica o l'esibizione di scritti possano in
qualche modo limitare la liberta' del soggetto. Circa le altre
questioni sollevate dal pretore, anche l'Avvocatura mette in evidenza
che la stessa ordinanza le dichiara irrilevanti: esse comunque sono
infondate perche' le disposizioni impugnate sono tutte in armonia con
le caratteristiche proprie di un albo professionale e coi poteri di
autogoverno dell'Ordine, il cui esercizio e' sempre sindacabile in via
giurisdizionale.                                                      
- Tutte le parti hanno depositato memorie illustrative delle
tesi gia' sostenute negli atti di costituzione.                        
   La difesa del Longhitano sottolinea, anzitutto, il contrasto fra
l'albo dei giornalisti, disciplinato dalla legge impugnata, col sistema
generale degli albi professionali: i giornalisti, infatti, non sono
liberi   professionisti, ma impiegati; la disciplina delle classi
professionali in ordini o collegi ha sempre lo scopo di tutelare un
interesse sociale, e presuppone che gia' ci sia una delimitazione degli
appartenenti alla categoria attraverso la qualificazione di un titolo
di studio, laddove, come e' logico, l'ordine dei giornalisti prescinde
da tale requisito; gli ordini non sono creati per perseguire interessi
sindacali, sicche' lo scopo attribuito alla legge, e, cioe', la tutela
della   categoria,   e'   insussistente,   come   e' dimostrato dalla
concomitante presenza di   contratti   collettivi   stipulati   dalle
associazioni. Dopo aver definito come atto di ammissione l'iscrizione
nell'albo, la difesa osserva che rilevante ai fini della valutazione
della violazione dell'art. 21 della Costituzione e' il controllo
amministrativo che si svolge nei confronti del giornalisti al momento
dell'ammissione   (artt.   31,   34,   35), nel corso dell'esercizio
professionale (procedimento disciplinare in relazione a fatti non
conformi al decoro ed alla dignita'; azione giudiziaria ex art. 63 ma
con collegi integrati da un giornalista professionista e da un
pubblicista) ed esercitato anche dal Ministro della giustizia. Fatta
questa ampia premessa, la memoria prosegue affermando che la disciplina
dell'albo del giornalisti affievolisce il diritto soggettivo perfetto
nascente   dell'art.   21 della Costituzione, e cio' a causa del
conferimento di una potesta' discrezionale che da' luogo anche a
disparita' di trattamento: richiamando quanto gia' detto, la difesa
conduce un analitico esame delle norme che tale discrezionalita'
affidano all'ordine e conclude che siffatto regime integra una prima
violazione degli artt. 21 e 3 della Costituzione, dalla quale deriva
la illegittimita' non solo di singole norme ma dell'intera legge:
tuttavia anche le ulteriori censure mosse dall'ordinanza di rimessione
ad altre disposizioni del provvedimento sono pienamente fondate.      
   Ad avviso della difesa dell'Ordine del giornalisti di Sicilia
invece, la tesi della incostituzionalita' della legge non poggia su
alcuna argomentazione giuridica, ma nasce dalla confusione fra due
fenomeni nettamente distinti, vale a dire l'esercizio della professione
giornalistica e la liberta' di manifestazione del pensiero a mezzo
della   collaborazione a giornali. Quest'ultima e' e puo' essere
esercitata da chiunque, come e' dimostrato dalla realta' dei fatti che
trova pieno riscontro nelle norme in esame: l'art. 35 della legge
infatti presuppone ovviamente la possibilita'   di   collaborazione
giornalistica, regolarmente retribuita, da parte di chi giornalista non
e'. Cio' e' sufficiente, secondo la difesa, a dimostrare che la legge
non pone alcuno ostacolo a chi voglia scrivere sui giornali e non viola
la liberta' sancita dall'art. 21 della Costituzione: tuttavia va anche
aggiunto che la tesi avversaria, secondo la quale non si potrebbe
rinvenire   giustificazione   alcuna all'istituzione dell'Ordine del
giornalisti, e' inesatta perche' non tiene conto della mutata realta'
in cui gli ordini professionali oggi si muovono, portandoli ad
interessarsi sempre piu' ai professionisti impiegati. L'Ordine del
giornalisti si inserisce in questa problematica contemporanea, regola
una realta' assai complessa, e la sua istituzione - che, tuttavia, non
impone la iscrizione nell'albo quale presupposto della collaborazione
ai giornali - risponde all'esigenza di apprestare una garanzia di
serieta'   di   preparazione professionale, attua una tutela della
professione, garantisce i giornalisti nei confronti delle imprese.    
   L'Avvocatura dello Stato a sua volta richiama le trasformazioni
sociali   che   giustificano   il carattere di professionalita' del
giornalismo e mette in evidenza che la legge non impone affatto
l'esercizio della professione a chi voglia manifestare il proprio
pensiero a mezzo della stampa: l'eventualita' che il giornale rifiuti
di ospitare scritti di un non giornalista e' irrilevante, perche' anche
il giornalista professionista puo' non ottenere di essere assunto
presso un giornale. Quanto alle norme ritenute dallo stesso pretore
irrilevanti, l'Avvocatura osserva che l'ordinanza invoca l'art. 27
della legge 11 marzo 1953, n. 87, non a proposito, perche' tale
disposizione puo' essere applicabile solo nei limiti dell'impugnazione
e non nel caso di questioni costituzionali totalmente diverse.        
- Nel corso di un procedimento civile, promosso dalla signora
Maria Ricciardi Cuniberti per impugnare la deliberazione del 22
settembre 1966 con la quale il Consiglio nazionale dell'ordine del
giornalisti aveva respinto il suo ricorso avverso il provvedimento di
cancellazione dall'albo emanato dal Consiglio interregionale Piemonte -
Valle d'Aosta, il Tribunale di Torino ha sollevato di ufficio una
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 63, comma terzo,
della legge 3 febbraio 1963, n. 69, in riferimento agli artt. 102,
secondo comma, e 108 cpv. della Costituzione.                          
   L'ordinanza, affermata la rilevanza della questione, osserva che
l'ordinamento costituzionale, ispirato al principio dell'unita' della
giurisdizione, autorizza le sezioni specializzate, ma solo a patto che
queste non si trasformino in veri e propri giudici speciali: ipotesi
che si verifica quando vien meno l'indipendenza del membri laici del
collegio. Dopo aver richiamato i principi affermati da questa Corte
nella sentenza n. 108 del 1962 relativa alle sezioni specializzate
agrarie, il Tribunale di Torino rileva che nella norma in esame - la
quale prevede l'integrazione del collegio con la partecipazione di un
giornalista e di un pubblicista nominati in numero doppio   dal
Presidente della Corte di appello su designazione del Consiglio
nazionale dell'ordine - si riscontrano le stesse deficienze che in
quella   occasione   la   Corte   ritenne   costituissero   motivo   di
illegittimita' costituzionale: da una parte, infatti, manca   una
sufficiente specificazione del requisiti di idoneita' e capacita' del
membro laico, tale non potendo ritenersi la mera qualifica   di
giornalista; dall'altra non viene assicurata la necessaria indipendenza
nei confronti dell'organizzazione di provenienza, ne' la norma accenna
ai casi di ricusazione o di astensione o a quelli di sostituzioni e
supplenza, con la conseguente impossibilita' di dare applicazione agli
artt. 51 e 52 del Codice di procedura civile.                          
- L'ordinanza, emessa il 7 febbraio 1967, ritualmente notificata
alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere, e' stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n. 190 del 29 luglio 1967.                                  
   Nel precedente giudizio si e' costituita - atto depositato l'8
maggio 1967 - la sola Avvocatura dello Stato in rappresentanza e difesa
del Presidente del Consiglio.                                          
   Nelle deduzioni ed in una successiva memoria essa sostiene che
proprio alla stregua della giurisprudenza di questa Corte - sent. n. 76
del 1961 e n. 108 del 1962 - la questione sollevata dal Tribunale di
Torino appare non fondata: ed infatti, nella specie, l'idoneita' del
membro laico e' inerente alla stessa appartenenza alla categoria
professionale disciplinata per legge dall'Ordine e l'indipendenza - che
nelle   norme   costituzionali   sembra   peraltro   doversi   riferire
all'indipendenza "esterna" - e' assicurata pienamente perche', una
volta nominati, gli esperti sono sottratti   ad   ogni   ingerenza
dell'Ordine.     L'Avvocatura conclude osservando che il Consiglio
nazionale, su designazione del quale la nomina viene effettuata, non ha
alcun potere ne' sul professionista ne' sull'Ordine regionale al quale
questo e' iscritto; la nomina in numero doppio assicura, infine,
l'osservanza del principio della precostituzione del   giudice   e
l'applicazione degli istituti dell'astensione e della ricusazione.    
- Nell'udienza pubblica i difensori delle parti hanno ampiamente
illustrato le rispettive tesi e conclusioni.                          
                       Considerato in diritto                        
- Le ordinanze del pretore di Catania e del Tribunale di Torino
propongono questioni di   legittimita'   costituzionale   concernenti
disposizioni contenute tutte nella legge 3 febbraio 1963, n. 69, e
pertanto i relativi giudizi, congiuntamente discussi nell'udienza
pubblica, possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.          
- Il pretore di Catania esplicitamente afferma che rilevanti per
la decisione della causa innanzi a lui pendente sono solo le questioni
riguardanti gli artt. 45, 29, 33, 34 e 35, che vengono impugnati in
riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione. Egli ritiene,
tuttavia, di poter sottoporre al controllo della Corte, in forza
dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, numerose altre
disposizioni della stessa legge, e precisamente gli artt. 46, 47 e 63,
terzo comma, 28 cpv., 51, lett. c e d, 54, 55 e 24.                    
   Questo secondo gruppo di questioni - formulate anche in rapporto a
norme costituzionali diverse da quelle in relazione alle quali vengono
denunziati gli articoli ritenuti rilevanti - non puo' formare oggetto
del presente giudizio. Ed infatti la norma procedurale invocata dal
pretore attribuisce solo alla Corte costituzionale la competenza ad
accertare ed a dichiarare se e quali disposizioni legislative siano
illegittime a causa dell'annullamento di quelle ritualmente sottoposte
al suo esame, ma non consente affatto che il giudice a quo estenda
l'impugnativa al di la' delle norme applicabili alla controversia e
proponga in questa guisa - contro il disposto dell'art. 23 della legge
11 marzo 1953, n. 87 - questioni del tutto irrilevanti per la decisione
del giudizio principale.                                              
   Da cio' consegue che l'esame della Corte deve essere portato
esclusivamente sugli artt. 45, 29, 33, 34 e 35 della legge, nonche'
sull'art. 63, terzo comma, che forma oggetto della questione sollevata
dal Tribunale di Torino. Va peraltro aggiunto che il contenuto di altre
disposizioni della legge sara' tenuto presente dalla Corte, come
innanzi si dira', in funzione di una compiuta valutazione della
legittimita' costituzionale dell'art. 45.                              
- La legge 3 febbraio 1963, n. 69, ha istituito l'Ordine del
giornalisti, gli ha affidato la tenuta dell'albo, ne ha disciplinato la
struttura e il funzionamento: l'art. 45 ha condizionato all'iscrizione
nell'albo   l'uso   del titolo e l'esercizio della professione di
giornalista, sanzionando penalmente i corrispondenti divieti a norma
degli artt. 348 e 498 del Codice penale.                              
   Non spetta alla Corte valutare l'opportunità della creazione
dell'Ordine, perché l'apprezzamento delle   ragioni   di   pubblico
interesse   che   possano   giustificarlo   appartiene alla sfera di
discrezionalità riservata al legislatore. Compete invece alla Corte
accertare se la riserva della professione giornalistica ai soli
iscritti all'Ordine ed il modo in cui la legge ha disciplinato il
regime dell'albo comportino la violazione del principio costituzionale
- art. 21 - che a tutti riconosce il "diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione": un diritto, come altre volte è stato detto (cfr.
sent. n. 9 del 1965), coessenziale al regime di libertà garantito
dalla   Costituzione,   inconciliabile con qualsiasi disciplina che
direttamente o indirettamente apra la via a pericolosi attentati, e di
fronte al quale non v'è pubblico interesse che possa giustificare
limitazioni che non siano consentite dalla stessa Carta costituzionale.
- Cio' posto, la Corte osserva che per un'esatta valutazione del
fondamento della questione sottoposta al suo esame occorre tener
presente che la legge impugnata, realizzando un proposito espresso fin
dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L. Lt. 23 ottobre
1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non
l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero:
sicché è esatto quanto sostengono sia la difesa dell'Ordine di
Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato, che essa non tocca il diritto che
a "tutti" l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo sarebbe certo
violato se solo gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere
sui giornali, ma è da escludere che una siffatta conseguenza derivi
dalla legge. Ne costituisce riprova, oltre l'oggetto stesso del
provvedimento, l'esplicita disposizione contenuta nell'art. 35: il
quale, in quanto subordina l'iscrizione nell'elenco del pubblicisti
alla prova che il soggetto interessato abbia svolto un'"attivita'
pubblicistica regolarmente retribuita per almeno due anni", dimostra
che la stessa legge considera pienamente lecita anche la collaborazione
ai giornali che non sia ne' occasionale ne' gratuita. Senza che ci sia
bisogno di affrontare questioni di interpretazione non essenziali per
la presente decisione, appare certo che l'art. 35 circoscrive la
portata   del   divieto   sancito nell'art. 45, limita l'estensione
dell'obbligo di iscrizione all'albo e, in definitiva, conferma che
l'appartenenza   all'Ordine   non   e' condizione necessaria per lo
svolgimento di un'attivita' giornalistica che non abbia la rigorosa
caratteristica della professionalita'.                                
- Questa conclusione, tuttavia, non esaurisce la questione
sottoposta alla Corte. L'esperienza dimostra che il giornalismo, se si
alimenta   anche   del   contributo di chi ad esso non si dedica
professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana del
professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la
libertà della stampa periodica, che a sua volta è condizione
essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia
affonda le sue radici vitali. E nessuno puo' negare che una legge la
quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di esprimere il
proprio   pensiero   attraverso   il   giornale,   ponesse ostacoli o
discriminazioni all'accesso alla professione giornalistica   ovvero
sottoponesse i professionisti a misure limitative o coercitive della
loro liberta', porterebbe un grave e pericoloso attentato all'art. 21
della Costituzione.                                                    
   Sotto questo secondo profilo della questione, che di certo e' il
piu' delicato, la Corte deve in primo luogo accertare se l'istituzione
stessa di un Ordine giornalistico e l'obbligatorieta' della iscrizione
nell'albo non costituiscano di per se' una violazione della sfera di
liberta' di chi al giornalismo voglia professionalmente dedicarsi.    
   La Corte ritiene che a tale interrogativo si debba dare una
risposta negativa.                                                    
Chi tenga presente il complesso mondo della stampa nel quale il
giornalista si trova ad operare o consideri che il carattere privato
delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di lavoro, non
può sottovalutare il rischio al quale è esposto la sua libertà né
può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla.  
   Per la decisione della presente questione - alla quale, per quanto
si è detto al n. 3, resta estranea la rilevanza degli ulteriori
profili di pubblico interesse   (fra   i   quali   quello   inerente
all'osservanza del canoni della deontologia professionale) soddisfatti
dalla legge - è in vista di tale finalita' che va valutata la funzione
che l'Ordine puo' svolgere. Il fatto che il giornalista esplica la sua
attività divenendo parte di un rapporto di lavoro subordinato non
rivela la superfluità di un apparato che secondo l'avviso della difesa
del Longhitano si giustificherebbe solo in presenza di una libera
professione,   tale il senso tradizionale. Quella circostanza, al
contrario, mette in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano
associati in un organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico 
del datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto della loro personalità 
e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela 
sindacale del diritti della categoria e che percio' puo' essere assolto solo da un 
Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblicovigili, nei 
confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di 
quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare 
mai alla liberta' di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla.                                                        
   Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione positiva e' valida
solo se le norme che disciplinano l'Ordine assicurino a tutti il
diritto di accedervi e non attribuiscano ai suoi organi poteri di tale
ampiezza da costituire minaccia alla liberta' dei soggetti. E in questa
ulteriore direzione va ora rivolta l'indagine affidata alla Corte.    
   6 - Il divieto posto nell'art. 45, come si e' detto, condiziona
all'iscrizione nell'albo il legittimo esercizio della professione
giornalistica, ed esso, a causa del disposto contenuto nell'art. 36, si
risolve in un divieto assoluto per gli stranieri che siano cittadini di
uno Stato che non pratichi il trattamento di reciprocita'. Da cio'
scaturisce la necessita' di accertare se esso non sia in contrasto con
l'art. 21 della Costituzione che a tutti, e non ai soli cittadini,
garantisce il fondamentale diritto di esprimere liberamente e con ogni
mezzo il proprio pensiero.                                            
   La Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4 - ritiene che,
in se' considerato, il presupposto del trattamento di reciprocita' per
l'accesso alla professione giornalistica non sia illegittimamente
stabilito, e cio' perche' e' ragionevole che in tanto lo straniero sia
ammesso ad un'attivita' lavorativa in quanto al cittadino italiano
venga assicurata una pari possibilita' nello Stato al quale il primo
appartiene.   Questa   giustificazione,   pero', non puo' estendersi
all'ipotesi dello straniero che sia cittadino di uno Stato che non
garantisca l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche e, quindi,
della piu' eminente manifestazione di queste. In tal caso, atteso che
ad un regime siffatto puo' essere connaturale l'esclusione del non
cittadino   dalla   professione   giornalistica,   il   presupposto di
reciprocita' rischia di tradursi in una grave menomazione della
liberta' di quei soggetti ai quali la Costituzione - art. 10, terzo
comma - ha voluto offrire asilo politico e che devono poter godere
almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che non
siano strettamente inerenti allo status civitatis.                    
   Limitatamente a questa parte, dunque, l'art. 45 deve essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo.                            
- Passando all'esame delle norme che disciplinano l'accesso
all'albo, devono essere presi in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e
35 della legge, che formano oggetto dell'impugnativa ritualmente
proposta dal pretore di Catania.                                      
   Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalita' manifestati dal
giudice a quo non appaiono fondati.                                    
   L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco del professionisti,
fra l'altro, l'iscrizione nel registro del praticanti e l'esercizio
della pratica per almeno diciotto mesi: dal combinato disposto di
questa norma e degli artt. 33 e 34 discende, secondo il pretore, che
l'accesso al registro del praticanti e, mediatamente, all'albo e'
rimesso alla completa discrezionalita' degli editori, del direttori e
degli altri giornalisti gia' iscritti. La Corte osserva che, se è vero
che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma
come   praticante   egli non potrà mai intraprendere la carriera
giornalistica, e' altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto
può svolgere la sua attivita' professionale se non trova un editore
disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci si trova di fronte a
conseguenze che non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura
privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale la non
discriminazione puo' essere assicurata soltanto dalla concorrenza della
molteplicita' delle iniziative giornalistiche.                        
   Neppure puo' dirsi che il secondo comma dell'art. 34, in quanto
richiede che lo svolgimento della pratica sia comprovata da una
dichiarazione motivata del direttore del giornale, all'arbitrio di
questi rimetta la valutazione di un presupposto per l'iscrizione
nell'elenco del giornalisti. In effetti, poiche' non risulta che
l'Ordine abbia il potere di esprimere un giudizio di ammissibilita'
basato sull'apprezzamento del modo in cui l'interessato ha esercitato
la pratica, si deve concludere che la motivazione del direttore deve
avere ad oggetto solo gli elementi formali del rapporto (durata,
continuita') e non puo' mai tradursi in un sindacato sul pensiero
espresso dal praticante.                                              
   Non si vede, infine, in che modo il Consiglio dell'Ordine possa
esercitare poteri arbitrari in ordine   all'iscrizione   nell'albo:
chiamato   a verificare la sussistenza di elementi tassativamente
indicati dalla legge ed a prendere atto del giudizio positivo delle
prove di esame predisposte per un accertamento tecnico, il Consiglio
non puo' neppure liberamente valutare la buona condotta (art. 31,
secondo comma) del richiedente, ma deve accertarla sulla base di fatti,
secondo canoni elaborati in base ad una consolidata tradizione e con
l'esclusione di ogni apprezzamento di atteggiamenti che costituiscano
estrinsecazione delle liberta' garantite dalla Costituzione. Val la
pena di aggiungere che la legge impone che i provvedimenti di rigetto
della domanda siano motivati (art. 30) e predispone su di essi il
controllo giurisdizionale (art.   63), assicurando in tal modo la
repressione di ogni abuso.                                            
   Del pari non fondata e' la questione relativa al primo comma
dell'art. 35, impugnato nella parte in cui stabilisce che al fine
dell'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti il richiedente deve offrire
la dimostrazione di aver svolto attivita' retribuita da almeno due
anni. Il timore espresso dal giudice a quo che questa norma consenta un
sindacato sulle pubblicazioni non ha ragione di essere, perche' la
certificazione dei direttori e la esibizione degli scritti sono
elementi richiesti solo al fine di consentire che venga accertato se
l'attivita' sia stata esercitata ne' occasionalmente ne' gratuitamente
e per il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo scopo di imporre
o di permettere una valutazione di merito capace di risolversi, come
afferma l'ordinanza, in "una forma larvata di censura ideologica".    
-   Poiche'   l'ordinanza   denunzia   che   l'obbligatorieta'
dell'iscrizione nell'albo, sancita dal denunziato art. 45, rimette alla
piena "discrezionalita' altrui" l'esercizio del diritto riconosciuto
dall'art. 21 della Costituzione, con conseguente violazione anche
dell'art. 3, la Corte non puo' sottrarsi al compito di esaminare altre
disposizioni   della   legge   che   possano   incidere   sul   diritto
all'iscrizione nell'albo, e cio' non per esercitare un controllo su
norme che, per quanto si e' detto al n. 2, non sono state ritualmente
impugnate, ma solo per accertare se il loro contenuto sia tale da
determinare l'illegittimita' dell'art. 45.                            
   Sotto questo profilo ed a questi limitati effetti vengono in esame
l'art. 24, che attribuisce al Ministro per la grazia e giustizia l'alta
sorveglianza sui Consigli dell'Ordine,   e   le   disposizioni   che
conferiscono   ai Consigli poteri disciplinari che sull'iscrizione
all'albo possono incidere in via temporanea (art. 54) o definitiva
(art. 55).                                                            
   La Corte osserva che il potere del Ministro, corollario del
pubblico interesse al regolare funzionamento dei Consigli, ha per
contenuto i provvedimenti indicati nel secondo e nel terzo comma dello
stesso art. 24, sicche' nessuna ingerenza e' consentita all'esecutivo
sulla   attivita' amministrativa relativa agli iscritti, salva la
implicita possibilita' di segnalare fatti che ai sensi dell'art. 48
possano giustificare il promovimento dell'azione disciplinare: nel che
non si puo' riscontrare, in verita', nessun rischio di abuso.          
   La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai
Consigli non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti.
Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura
democratica del Consigli, che di per sé rappresenta una garanzia
istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in
vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta
degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa
venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del
ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione
giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono
sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti
arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale
scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una
responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti
e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in
tal caso la libertà riconosciuta dall'art. 21 sarebbe messa in
pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura dell'intero ordinamento
giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente
affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la
definizione degli illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si
articola   in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur
considerare che la materia trova un preciso limite nel principio
fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà
di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che
quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive
la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa,
giammai l'esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare.                    
- Con cio' la Corte ha esaurito l'esame delle questioni
ritualmente   proposte dal pretore di Catania.   Non puo' essere
affrontato, infatti, un ulteriore problema sul quale l'ordinanza di
rinvio si e' soffermata, se cioe' la disciplina introdotta dalla legge
limiti, ed in quale misura, il diritto di tutti di dar vita ad un
giornale e di esprimere con questo mezzo il proprio pensiero. A questa
tematica l'art. 45 e' del tutto estraneo, perche' gli oneri che in essa
verrebbero   in   discussione   non   discendono   dall'obbligatorieta'
dell'albo, ma sono autonomamente posti dagli artt. 46 e 47: da
disposizioni, dunque, che, per quanto si e' detto al n. 2, restano
fuori dell'oggetto del presente giudizio.                              
-   Il   Tribunale   di   Torino   denuncia l'illegittimita'
costituzionale, per violazione degli   artt.   102   e   108   della
Costituzione, del terzo comma dell'art. 63 della stessa legge, a tenore
del quale presso il Tribunale e la Corte di appello competenti a
decidere sull'azione promossa contro le deliberazioni del Consiglio
nazionale dell'Ordine il collegio viene integrato da un giornalista
professionista e da un pubblicista, nominati in   numero   doppio
all'inizio di ogni anno dal presidente della Corte di appello su
designazione del Consiglio stesso. Non tutti i rilievi che l'ordinanza
espone con espresso richiamo ai principi affermati dalla Corte nella
sentenza n. 108 del 1962 trovano esatto riscontro nel caso in esame.
Tanto e' a dirsi sia del requisito della idoneita' dei due membri del
Collegio,   assicurata   dalla   circostanza   che deve trattarsi di
giornalisti professionisti e di pubblicisti tali qualificati in base
alle norme della stessa legge, sia della possibilita' di rendere
operanti le disposizioni relative alla astensione e ricusazione del
giudice, sufficientemente garantita dalla nomina in numero doppio. La
questione risulta invece fondata sotto il profilo che il meccanismo
predisposto dalla legge non e' tale da conferire al giudice piena
indipendenza nei confronti del Consiglio dal quale sostanzialmente egli
deriva la sua nomina.                                                  
   Giova in proposito tener presente che all'esame del Tribunale e
della Corte di appello, nella speciale composizione descritta, vengono
portate   (artt.   62   e   63) le impugnazioni promosse contro le
deliberazioni di quello stesso organo che   e'   competente   alla
designazione dei due giudici estranei alla magistratura. Vero e' che
siffatta circostanza, come si ricava dalla giurisprudenza della Corte
(sentenza n. 1 del 1967), di per se' sola non costituirebbe ragione di
illegittimita' costituzionale: tuttavia sarebbe stato necessario che la
legge impedisse ogni forma di responsabilita', anche indiretta, nei
confronti del Consiglio. Questa fondamentale garanzia, essenziale per
il rispetto del principio di indipendenza, non e' invece assicurata,
perche'   la   brevita'   del termine di durata nell'ufficio e la
possibilita' di una rinnovata designazione degli stessi soggetti non
escludono che il Consiglio possa periodicamente esercitare un implicito
sindacato sul modo col quale e' stata amministrata la giustizia in casi
nei quali era in gioco un suo diretto interesse. Percio' e' da
riconoscere che la norma impugnata contrasta con l'art. 108, secondo
comma, della Costituzione.                                            
                           PER QUESTI MOTIVI                          
                       LA CORTE COSTITUZIONALE                        
a) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 45 della
legge 3 febbraio 1963, n. 69,   relativa   all'ordinamento   della
professione giornalistica, limitatamente alla sua applicabilita' allo
straniero al quale sia impedito nel paese di appartenenza l'effettivo
esercizio delle liberta' democratiche garantite dalla Costituzione
italiana;                                                              
b) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 63, comma
terzo, della stessa legge;                                            
c) dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale
concernenti gli artt. 29, 33, 34 e 35 sollevate dall'ordinanza 5 giugno
1967 del pretore di Catania in riferimento agli artt. 3 e 21 della
Costituzione;                                                          
d)   dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale degli artt. 24, 28 Cpv., 46, 47, 51, lett. c e d, 54 e
55 sollevate dalla stessa ordinanza in riferimento agli artt. 3, 21,
18, 19, 33, 39, 49 della Costituzione.                                
   Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 marzo 1968.                              
 
 





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