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La dodici regole del giornalismo. Le elaborò più di un secolo fa Dario Papa (direttore dell'Arena) e restano valide tutt'oggi. Uno: "Non verrai mai a pregarci di sopprimere fatti e nomi".

di STEFANO LORENZETTO/ItaliaOggi

Nella città del tempo che fu, gli abitanti venivano suddivisi, con una cernita vagamente discriminatoria, fra veronesi de sòca e forestieri. I primi, partoriti entro la cinta urbana, appartenevano al ceppo (sòca, appunto) autoctono, cioè a famiglie originarie del luogo da più generazioni. Tutti gli altri, nati fuori dal Comune di Verona, erano considerati allogeni, poco più che stranieri. Non che altrove le cose andassero diversamente. «Oltre il ponte della Libertà, è tutta campagna, compresa Parigi», mi ha spiegato un veneziano. E non è un discendente dei Corner o dei Dandolo bensì un topo d’appartamento.


Oggi vorrei parlarvi proprio di un figlio di Venezia che mezzo secolo fa decise di lasciare la più affascinante repubblica del mondo per venire a lavorare in campagna, forse perché vi aveva intravisto quelle qualità che il regista Franco Zeffirelli ha decantato di recente: «La prima volta che andai a Verona fu per visitare mia sorella, che stava morendo in ospedale. L’occasione era triste. Ma mi fece scoprire una città incantevole, molto vicina a Firenze nello stesso ritmo di una magica quotidianità».


Prima, però, lasciatemi spendere qualche parola per gli innumerevoli altri forèsti che, giunti spesso casualmente «in fair Verona», come William Shakespeare la definì nel Romeo e Giulietta, l’hanno amata quanto e più di noialtri indigeni, profondendo al suo servizio le loro migliori energie. Comincio dall’Arena, che, se a ottobre potrà festeggiare i 150 anni di vita, non lo deve soltanto al suo fondatore Alessandro Pandian (veronese non de sòca, essendo originario di San Giovanni Ilarione), ma soprattutto al bresciano che gli succedette, Dario Papa, direttore dal 1874 al 1880, e di nuovo, per un breve periodo, tre anni dopo.


Papa era nato a Desenzano del Garda, aveva studiato tra Vienna, Venezia, Rovereto, Verona e Torino. Ritornò in riva all’Adige, proveniente dal Corriere della Sera, per dettare le 12 regole del giornalismo, che dopo oltre un secolo conservano intatta la loro modernità, in particolar modo la quarta («Non verrai mai a pregarci di sopprimere fatti e nomi. Tientelo a mente: non li sopprimeremo»); l’ottava («Non ci raccomanderai di far soffietti a prime donne, tenori, baritoni, neocavalieri, candidati di nessuna specie»); la nona («Non ci farai prediche sulla inviolabilità della vita privata quando noi attaccheremo i poco di buono della vita pubblica»); l’undicesima («Ti terrai persuaso che noi siamo l’organo di... noi stessi e di nessun altro. Non abbiamo, per fortuna, che un “capo”: quello che ci sta sovra le spalle»).


Dimessosi Papa, fu la volta di Giovanni Antonio Aymo, piemontese di Mondovì, che nel 1884 diventò direttore della testata di cui era già da dieci anni editore e ne tenne il timone fino all’albeggiare del nuovo secolo. «Verona amò come figlio, per generoso impeto battagliero, per fine genialità, nel giornalismo, nei comizi, nei ritrovi, a difesa d’ogni nobile iniziativa», è scolpito sulla sua tomba, collocata nel famedio del cimitero monumentale dove riposano gli «Ingenio claris». Alcuni miei colleghi più anziani, come Silvio Bertoldi, classe 1920, hanno fatto in tempo a lavorare agli ordini del veneziano Antonio Galata, che dal 1930 al 1936 e poi ancora dal 1946 al 1958 condusse con tratto signorile questa testata. Chi scrive vi entrò la prima volta nel 1975 grazie a un direttore ferrarese, Gilberto Formenti.


Piero Gazzola, il soprintendente della Verona postbellica morto a Negrar nel 1979, era nato a Piacenza. Fu lui a ricostruire il ponte Pietra e il ponte di Castelvecchio fatti saltare in aria dai nazisti in fuga, a restaurare la Biblioteca Capitolare e la chiesa di San Lorenzo danneggiate dai bombardamenti, a recuperare le Torricelle, in una parola a salvaguardare il volto della città che vediamo oggi.


Molto di ciò che noi veronesi sappiamo della via Postumia, nonché delle vestigia preromane, romane, longobarde e scaligere, è frutto degli scavi condotti da un archeologo inglese, Peter John Hudson, veronese d’adozione nativo di Manchester. Nel capoluogo della stessa contea ha avuto i natali anche il romanziere Tim Parks, che nel 1981 ha preso casa ai piedi del Castello di Montorio, nominato cittadino onorario per la sua fede nell’Hellas.


Veronese d’adozione era Angelo Betti, nato a Forlì nel 1920, approdato in riva all’Adige nel 1958 come capufficio stampa di quella Fiera che a partire dal 1976, promosso segretario generale, trasformò in una delle più prestigiose vetrine espositive d’Europa (un giorno di 40 anni fa mi diede un passaggio sulla sua auto - ero stato assunto all’ufficio stampa con due contratti a termine per Vinitaly ed Eurocarne -  e rimasi interdetto nel vedere che i tappetini erano ricoperti da centinaia di monete: «Così crescono», fu la spiegazione agricola). Veronese d’adozione era Miguel Berrocal, lo scultore spagnolo precursore dei multipli d’arte. Veronese d’adozione è il fumettista Milo Manara, nato nel 1945 a Luson (Bolzano). Veronese d’adozione, sposata con un nostro concittadino, è la romana Federica Mogherini, alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.


Bolzanino di origine trevigiana è Nicola Sartor, rettore dell’Università di Verona. Milanese è Osvaldo Bagnoli, l’allenatore del primo e unico scudetto conquistato dall’Hellas, così attaccato ai colori gialloblù da rimanere a vivere per sempre in città. Mantovano è Mario Fertonani, che da uomo del marketing di Glaxo Italia, il colosso farmaceutico con sede in Zai, diventò presidente di Glaxo Europe. Discendente dalla stirpe degli ambulanti di Pontremoli, gli stessi che fondarono il premio Bancarella, è il gallerista Giorgio Ghelfi, partorito sopra un carro carico di libri dopo che la madre aveva rotto le acque su alcune rare edizioni nella casa di Ferrara trasformata in magazzino-biblioteca.


Si potrebbe continuare fino a riempire un’intera pagina. Ma qui è d’obbligo festeggiare le nozze d’oro con la nostra città di un veneziano che l’ha rappresentata con la sua arte, celebrata con i suoi trofei e le sue medaglie. Sto parlando di Alberto Zucchetta, scultore, incisore e orafo, che nell’atelier di Corte Melone rinnova ogni giorno la descrizione contenuta nel Versus de Verona composto più di 1.200 anni fa, ai tempi di re Pipino, figlio di Carlo Magno: «Lingua non può dire le bellezze di questa città: dentro brilla, fuori splende, cinta da un nimbo di luce; il bronzo laminato d’oro v’è metallo comune».


Il destino di Zucchetta era segnato fin dal giorno della nascita, 17 gennaio, Sant’Antonio abate, che a Venezia è il patrono degli orafi. Un antenato stampatore crebbe alla scuola di Aldo Manuzio, commemorato fino al 19 giugno da una mostra alle Gallerie dell’Accademia nel quinto centenario della morte. Si chiamava Bernardo e nel 1493 aveva aperto una tipografia al ponte di Rialto, alloggiata in locali dove prima si vendevano frutta e verdura. Sullo stipite della bottega era rimasta scolpita una piccola zucca, donde il soprannome Zucchetta.


I primi estimatori dell’orafo furono i poeti Ezra Pound e Diego Valeri e il soprano Toti Dal Monte, sua testimone di nozze, ma anche re Gustavo di Svezia e la vedova del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, Jacqueline, per la quale lo scultore realizzò un collier con un pesciolino fossile estratto dalla laguna pietrificata di Bolca.


Infinite le creazioni uscite dal crogiolo di Zucchetta: dalla riproduzione della Madonna del Popolo regalata a Benedetto XVI al Grosso veneziano del premio Masi Civiltà veneta. Si deve a Zucchetta e ai suoi ittioliti, incastonati nell’oro dopo essere stati liberati dalla roccia che li imprigiona da 50 milioni di anni, se una troupe della tv giapponese Tbs è venuta da Tokyo per filmare la pesciara di Bolca, trasformando i gioielli in un quiz show di prima serata, How much. Si deve a Zucchetta la valorizzazione della leggenda del Nodo d’amore di Valeggio sul Mincio, oggetto lo scorso 7 marzo di una domanda posta da Fabrizio Frizzi a un concorrente dell’Eredità su Rai 1. Si deve a Zucchetta la scoperta del segreto della «O» di Giotto, uno studio in bilico fra matematica ed esoterismo, che attraverso l’analisi di un gioiello a forma di stella custodito nel Museo di Castelvecchio, risalente agli Scaligeri, ha offerto una stupefacente chiave interpretativa sull’origine della Madonna di Ognissanti e degli altri capolavori del genio fiorentino.


Si deve sempre a Zucchetta la scultura di Angelo Dall’Oca Bianca pensata per quella piazza delle Erbe che fu il soggetto prediletto dal pittore dei pitòchi e dove il monumento troverà degna collocazione. Così Dall’Oca Bianca potrà finalmente riprendere il dialogo, interrotto dalla morte nel 1942, con Berto Barbarani, suo grande amico e presto suo dirimpettaio in forma di statua. Ben pochi, dopo loro due, hanno saputo osannare la nostra città con la stessa voce argentina, anzi dorata, di Alberto Zucchetta. Anche se è veneziano, facciamogli un applauso. Il poeta di Vorìa cantar Verona sarebbe d’accordo. -  L’Arena


 


 


 


 


 


 




 





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