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IL SOLE 24 ORE del 15 gennaio 2008
Autodisciplina. La sentenza delle Sezioni unite civili sulle regole «interne» degli avvocati.

Deontologia, decide la Cassazione

I giudici possono intervenire sull'interpretazione dei codici - IL PESO DELLA DECISIONE: confermata la condanna ma espresso un principio applicabile a tutte le procedure in materia disciplinare.

In coda il testo della sentenza

di Guglielmo Saporito


I codici disciplinari delle professioni possono essere interpretati dalla Corte di Cassazione: è il principio espresso dalle Sezioni unite con la sentenza 20 dicembre 2007, n. 26810. L'orientamento assume rilievo particolare nelle libere professioni, dopo l'eliminazione dei limiti alla concorrenza, con l'apertura della pubblicità e la possibilità di offrire prestazioni senza minimi tariffari (articolo 2 del decreto legge 223/2006).


I codici deontologici


Predisposti dagli Ordini con delibere dei Consigli nazionali, i codici esprimono il potere di auto organizzazione e la loro autorità deriva da consuetudini e da norme che ne prevedono l'adozione. Gli Ordini fissano gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi: la violazione genera illeciti disciplinari, con sanzioni che possono giungere fino alla radiazione dall'Albo. Una volta emanato, ogni codice deontologico è vincolante nell'ambito della categoria. I procedimenti disciplinari sono attivati d'ufficio, su segnalazione di professionisti iscritti o su iniziativa degli utenti (i clienti dei professionisti), qualora emergano comportamenti poco diligenti, errori professionali o danni.


Nel codice deontologico sono dettagliati i comportamenti che il professionista deve tenere con i colleghi, con la parte assistita, con la controparte, con i terzi. Per esempio, si trova nei codici deontologici la definizione di elementi quali la prestazione professionale diligente, il dovere di informazione verso il cliente, il concetto di lealtà, l'obbligo di restituire gli atti e di non adottare comportamenti esosi.


I giudizi disciplinari, che si svolgono innanzi gli Ordini, possono condurre a pronunce di condanna di calibro diverso rispetto a quelle ottenibili dai giudici civili: un comportamento formalmente corretto può infatti essere considerato deontologicamente illecito e provocare sanzioni al professionista.


Nella vicenda giunta all'esame della Cassazione si discuteva di un comportamento formalmente corretto di un avvocato, che aveva iniziato dieci diverse intimazioni giudiziarie ("precetti di pagamento") di contenuto analogo, verso lo stesso debitore nel giro di pochi giorni. Tali atti avrebbero potuto essere condensati in un unico procedimento, risparmiando al debitore costi notevoli. Lamentando tali costi e il comportamento scorretto del professionista, il debitore si è quindi rivolto all'Ordine, chiedendo condanna disciplinare. Condanna che è puntualmente avvenuta con una "censura", applicando il codice deontologico nella parte in cui impedisce di opprimere il debitore con azioni aggressive (articolo 49 del Codice forense). Il professionista ha presentato ricorso, osservando che la deontologia legale impedisce "inziative giudiziali", mentre la notifica di atti non ancora giudiziali (perché non indirizzati ad un giudice), non sarebbe sanzionata sotto l'aspetto deontologico. Quindi, la Corte si è dovuta interessare del significato di un'espressione (l'iniziativa giudiziale aggressiva), verificando se a tale categoria appartengano solo gli atti che iniziano una lite, oppure anche quelli che la precedono.


Il potere della Cassazione


La condanna per comportamento aggressivo è stata confermata dalla Cassazione, ma al di là del caso deciso il principio espresso dalle Sezioni unite è utile a tutte le procedure disciplinari. Osserva infatti la Cassazione che le norme deontologiche non vanno applicate con un meccanismo letterale, cioè tenendo presente il dato testuale delle espressioni usate. Va invece applicato il criterio funzionale, cercando la finalità cui tende la norma. Ciò significa che le liti in materia deontologica possono giungere fino in Cassazione qualora si discuta dell'interpretazione da dare alle norme contenute nei codici delle varie professioni. Alla Corte suprema spetta una funzione unificatrice dei vari orientamenti che possono formarsi negli Ordini locali, con un terzo grado di giudizio sotto forma di interpretazione delle norme deontologiche.


……………………..


 Cass. civ. Sez. Unite, 20-12-2007, n. 26810


 


REPUBBLICA ITALIANA


IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE


SEZIONE UNITE CIVILI


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:


Dott. NICASTRO Gaetano - Primo Presidente f.f.


Dott. SENESE Salvatore - Presidente di sezione


Dott. PREDEN Roberto - Presidente di sezione


Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Consigliere


Dott. FINOCCHIARO Mario - Consigliere


Dott. DE MATTEIS Aldo - rel. Consigliere


Dott. AMATUCCI Alfonso - Consigliere


Dott. BUCCIANTE Ettore - Consigliere


Dott. TIRELLI Francesco - Consigliere


ha pronunciato la seguente:sentenza


sul ricorso proposto da:


S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CAIO MARIO 8, presso lo studio dell'avvocato CONDELLO DOMENICO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;


- ricorrente -


 


contro


 


CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, CONSIGLIO DELL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TRANI, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;


- intimati -


 


avverso la decisione n. 165/06 del Consiglio nazionale forense, depositata il 15/12/06;


udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/11/07 dal Consigliere Dott. DE MATTEIS Aldo;


udito l'Avvocato CONDELLO Domenico;


udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del primo, secondo, terzo e quinto motivo, accoglimento del quarto.


 


Svolgimento del processo


Il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Trani ha inflitto all'avv. S.M., la sanzione disciplinare della censura, per i seguenti comportamenti:


a) avere intimato al debitore sig. D.M.A. 10 precetti cambiari, aventi tutti la medesima data del 5 luglio 2001 e notificati tutti nell'arco di pochissimi giorni (alcuni anche il medesimo giorno), così violando l'art. 49 del Codice deontologico forense, per avere aggravato la posizione debitoria della controparte;


b) avere richiesto onorari non dovuti, ovvero sproporzionati rispetto al valore della controversia, al medesimo D.M., cosi violando l'art. 6 del Codice deontologico forense, per avere tenuto un atteggiamento difensivo vessatorio nei confronti della controparte.


In (OMISSIS) il 5 luglio 2001 ed in (OMISSIS) il 1 ottobre 2001.


Il ricorso dello S. è stato respinto dal Consiglio nazionale forense con decisione 23 settembre - 15 dicembre 2006 n. 165.


In relazione al primo motivo di ricorso, con cui lo S. aveva lamentato errata ricostruzione e valutazione dei fatti, il Consiglio nazionale forense ha rilevato che è documentato che il professionista, sebbene potesse azionare il credito portato dai titoli con unico atto di precetto, evitando così di aggravare inutilmente di spese il debitore, ha intimato nell'arco di pochissimi giorni, in forza di singole cambiali, già tutte scadute prima della notifica del primo atto, singoli atti di precetto con il relativo carico di spese.


Ha valutato che tale condotta è contraria ai canoni di proibita e correttezza, cui l'esercizio della professione forense deve ispirarsi.


Quanto al preteso difetto di motivazione in relazione al capo 2) dell'incolpazione, il Consiglio ha rilevato che, rispetto ad un credito capitale di circa 20 milioni, lo S. ha richiesto una parcella di L. 14.784.080. Egli sottolinea, a riprova della correttezza della pretesa, che tale parcella gli è stata liquidata dal magistrato, ma il Consiglio ha valutato che la esosità delle sue pretese risulta anche dal comportamento del cliente, che lo aveva estromesso dalla pratica, e definito il contenzioso direttamente con il proprio debitore.


In conclusione il Consiglio nazionale forense ha ritenuto che, valutate globalmente le due incolpazioni, la sanzione della semplice censura fosse congrua.


Avverso tale decisione lo S. ha proposto ricorso per Cassazione, con cinque motivi, con atto notificato il 28 aprile 2007.


Il Consiglio nazionale forense non si è costituito.


 


Motivi della decisione


Si deve esaminare per primo il quinto motivo di ricorso, in quanto involge una questione di diritto, di carattere potenzialmente assorbente. Con esso il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 49 Codice deontologico forense, con riferimento agli artt. 480 e 491 c.p.c., sostiene che gli atti di precetto, non costituendo atti processuali non rientrano nella previsione dell'art. 49 applicato dal Consiglio nazionale forense.


Detta norma, intitolata "Pluralità di azioni nei confronti della controparte", vieta all'avvocato di aggravare la situazione debitoria della controparte con onerose e plurime iniziative giudiziarie quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita. Poichè, a norma dell'art. 491 c.p.c., l'espropriazione forzata inizia con il pignoramento, i plurimi precetti azionati dall'avv. S. non rientrerebbero nella previsione disciplinare dell'art. 49, in quanto non costituiscono iniziative giudiziarie.


L'esame del motivo implica un problema metodologico circa i criteri da seguire nella interpretazione della norma denunciata, se quelli dell'art. 12 preleggi, propri della norma di legge, o quelli previsti all'art. 1362 c.c., e segg., per la interpretazione dei contratti.


Nella giurisprudenza di questa Corte è possibile rinvenire due orientamenti.


Secondo il primo, tradizionale, orientamento, le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini (o dai collegi) professionali, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno nè la natura nè le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all'art. 12 preleggi, ma sono espressione di poteri di auto organizzazione degli ordini (o dei collegi), si da ripetere la loro autorità, oltre che da consuetudini professionali, anche da norme che i suddetti ordini (o collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare.


Ne discende che le suddette disposizioni vanno interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici fissati all'art. 1362 c.c., e segg..


Ne discende ancora che con il ricorso per cassazione è denunciabile, ex art. 360 c.p.c., n. 3, non solo la violazione o falsa applicazione dei suddetti canoni della interpretazione dei contratti, ma altresì, ex art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di motivazione (da ultimo Cass. Sez. un. 10 luglio 2003 n. 10482).


 


L'esposto orientamento è contrastato da Cass. 23 marzo 2004 n. 5776 e Cass. 14 luglio 2004 n. 13078. Mentre la prima delle due sentenze si limita a dare atto che si va delineando nella giurisprudenza di questa Corte un indirizzo secondo cui, nell'ambito della violazione di legge, va compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all'albo che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell'illecito disciplinare, la seconda (Cass. 13078/2004) sviluppa un ampio ed articolato esame critico del primo orientamento, i cui argomenti fondamentali si possono così riassumere:


1 I consigli nazionali degli ordini professionali previsti dal D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, costituiscono organi speciali di giurisdizione nella materia disciplinare per i rispettivi iscritti, previsti dalla sesta disposizione transitoria della costituzione;


2. Ne consegue che i ricorsi per cassazione avverso tali decisioni sono proposti ai sensi dell'art. 111 Cost., ammessi soltanto per violazione di legge, per cui non è consentita la deduzione di vizi di motivazione previsti dall'art. 360 c.p.c., n. 5;


3. L'interpretazione delle clausole contrattuali costituisce una quaestio facti perchè ha per oggetto "la comune intenzione delle parti" (art. 1362 c.c.,), e cioè la loro volontà, la cui indagine rientra nel merito della causa. Il codice deontologico contiene, invece, norme giuridiche, sia pure (normalmente) rilevanti nel solo ordinamento interno dell'ordine professionale che le ha approvate.


Rispetto alle norme giuridiche non rileva l'indagine sulla volontà di chi le ha emanate, ma valgono i diversi criteri elaborati per 1"interpretazione delle norme giuridiche, e cioè per la soluzione delle questioni di diritto.


4. L'interpretazione diretta della norma del codice deontologico, da parte della Corte di legittimità, non viola l'autonomia dell'ordine professionale. Questa autonomia si estrinseca nell'approvazione del codice deontologico (consentita dall'ordinamento generale in modo espresso od implicito), codice che, una volta emanato, costituisce una autoregolamentazione vincolante nell'ambito dell' ordinamento di categoria (Cass. 6 giugno 2002 n. 8225), e quindi sia per i singoli professionisti che per gli organi dell'ordine.


5. L'orientamento tradizionale che qualifica in ogni caso l'interpretazione del codice deontologico come quaestio facti non permette un sindacato di questa Corte su detta interpretazione se non sotto l'aspetto della mera esistenza di una motivazione a suo sostegno. Viene così a mancare una effettiva garanzia dell'incolpato che ritenga di avere rispettato la norma del codice deontologico e non si realizza la funzione del codice deontologico di autoregolamentazione vincolante non solo per il singolo professionista, ma anche per lo stesso ordine professionale.


6. Una conferma indiretta dell'assetto insoddisfacente, sotto l'aspetto della tutela giurisdizionale del professionista, derivante dall'orientamento tradizionale può trarsi proprio dalla sentenza delle Sez. un. 10 luglio 2003 n. 10842, perchè detta sentenza ha analiticamente considerato l'art. 15 del codice deontologico forense sulla ed. tassa parere per la liquidazione degli onorari da parte del consiglio dell'ordine (3.4 e 3.5 della motivazione) in modo ben più ampio di quanto richiesto dalla mera constatazione che l'interpretazione datane dalla decisione impugnata era motivata in modo rispettoso dell'art. 1363 c.c., e segg., finendo in effetti con il convalidare con la propria diretta interpretazione della norma deontologica la interpretazione datane dal Consiglio nazionale forense, ai fini della sussistenza del (confermato) illecito disciplinare del professionista, che contestava detta interpretazione.


Il secondo orientamento sopra riassunto, all'esito di un'attenta verifica da parte di queste Sezioni Unite, risulta ancorato a dati ordinamentali e perciò preferibile, per i seguenti motivi:


1. Mentre i Consigli dell'Ordine territoriali esercitano funzioni amministrative, anche quando operano in materia disciplinare, il Consiglio Nazionale Forense, allorché pronunzia in materia disciplinare, è un organo giurisdizionale (ex pluribus, da ultimo, SS.UU. 23 1 aprile 2004 n. 6406, 23 gennaio 2004 n. 1229, 22 luglio 2002 n. 10688, 11 febbraio 2002 n. 1904 e, nello stesso senso, Corte cost. 12 luglio 1967 n. 110, 6 luglio 1970 n. 114 in motivazione, 2 marzo 1990 n. 113).


 


2. Il D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, che detta norme sulle funzioni dei consigli degli ordini professionali in materia disciplinare, si applica anche (artt. 18 e segg.) alle professioni di avvocato (e prima di procuratore), ed al Consiglio nazionale forense contestualmente istituito dal D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, art. 21. 3. La sesta disposizione transitoria della Costituzione prevede la revisione degli organi speciali di giurisdizione al momento esistenti. Tale norma è stata interpretata dal giudice delle leggi (Corte Cost. sent. 19 dicembre 1986 n. 284) nel senso che il termine di revisione non è perentorio; pertanto, mentre per gli ordinamenti professionali posteriori alla Costituzione (entrata in vigore il 1 gennaio 1948) vige il divieto posto dall'art. 102 Cost., comma 2, di istituire nuove giurisdizioni non solo straordinarie ma anche speciali, per quelli anteriori all'emanazione della carta costituzionale (tra i quali rientra il Consiglio nazionale forense, di cui al precedente D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382) continua a trovare applicazione la sesta disposizione transitoria, secondo cui gli organi di giurisdizione speciale già esistenti nel nostro ordinamento continuano ad essere operanti.


4. Pertanto il Consiglio nazionale forense, allorchè pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale istituito con D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante.


Le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell'osservanza delle comuni regole processuali e dell'intervento del P.M. il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo all'indipendenza del giudice, all'imparzialità dei giudizi e alla garanzia del diritto di difesa. (Cass. Sez. un. 23 marzo 2005 n. 6213).


Quello che si svolge davanti al Consiglio Nazionale Forense è un giudizio di carattere giurisdizionale e si conclude con sentenza, pronunciata in nome del Popolo Italiano (R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 64, come successivamente modificato), impugnabile davanti alle Sezioni Unite: del citato R.D. n. 1578 del 1933, art. 56, comma 3, (Sezioni Unite: sent. 10 maggio 2001, n. 187, 2 aprile 2003 n. 5072).


5. Le norme del codice deontologico forense in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, elencanti i comportamenti che il professionista deve tenere con i colleghi, con la parte assistita, con la controparte, con i magistrati ed i terzi, costituiscono esplicitazioni dei principi generali, contenuti nella legge professionale forense (Sezioni Unite 6 giugno 2002 n. 8225).


6. L'indiscusso carattere giurisdizionaie del processo avanti al Consiglio nazionale forense in sede disciplinare non implica di per se che tutti i criteri decisori del giudice speciale siano costituiti da norme di legge.


Detto carattere deriva alle norme del codice disciplinare dalla delega loro effettuata dalla legge statale (nella specie R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 e D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382) e dalla loro funzione di parametro normativo generale alla stregua del quale valutare la condotta dei professionisti iscritti. Trattasi di un processo di formazione legislativa, attraverso il rinvio alle determinazioni dell'autonomia collettiva, che assumono così, per volontà del legislatore, una funzione integrativa della norma legislativa in bianco, ampiamente studiata e sostenuta dalla dottrina ed applicata nei vari campi del diritto. In particolare tale processo formativo del precetto legislativo è frequente nella disciplina del lavoro e previdenziale: ad esempio in tema di minimi contributivi (D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1, convertito, con modificazioni, nella L. 7 dicembre 1989, n. 389); in tema di deroga alla tutela della professionalità prevista dall'art. 2103 c.c., comma 2, (per la quale il comma 3, sancisce la sanzione di nullità di qualsiasi accordo contrario), consentita viceversa agli accordi collettivi, indipendentemente dal consenso del lavoratore affetto, e dalla stessa iscrizione al sindacato stipulante, in caso di crisi aziendale, dallA L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 11.


In tali casi, ed altri numerosi consimili, la Corte di legittimità procede all'esame diretto dell'intero precetto legislativo, quale risulta dalla norma di rinvio e dalla fonte collettiva che lo integra, la quale, nel caso citato, non avrebbe di per sè nessun altro titolo per essere vincolante nei confronti del destinatario (per la prima fattispecie: Cass. 7 marzo 2002 n. 3311; Cass. 7 novembre 2003 n, 16762; Cass. 26 settembre 2005 n. 18761; per la seconda: Cass. 7 settembre 2000 n. 11806). La fonte pattizia, nel momento in cui assume valore di legge, entra in questa categoria normativa e ne segue i criteri interpretativi. Una diversa opinione, che demandasse al giudice del merito l'esame della fonte contrattuale che integra il precetto di legge, priverebbe la Corte di legittimità della sua funzione monofilattica ed esporrebbe i cittadini alla possibilità di esiti giurisprudenziali contrastanti, ove si segua quella giurisprudenza diffusa, la quale sostiene che i criteri logici che presiedono al vaglio della correttezza interpretativa ai sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile, possono legittimamente lasciar filtrare interpretazioni dei giudici del merito contrastanti ed opposte della medesima clausola contrattuale.


Tale esito non sembra ammissibile in presenza di un codice deontologico che può incidere, come ad esempio con la sanzione disciplinare della radiazione dall'albo, su diritti soggettivi sorti sulla base di norme di legge. D'altra parte, poichè il controllo di legittimità è limitato alla constatazione della assenza di motivazione o alla presenza di una motivazione puramente apparente (ex pluribus Cass. Sez. un. 2 aprile 2003 n. 5072) e non può estendersi all'apprezzamento della rilevanza del fatto assunto nel capo di incorporazione (Cass. 11 marzo 2004 n. 5038), la negazione di un potere di interpretazione diretta della norma incriminatrice priverebbe il controllo di legittimità di qualsiasi contenuto.


Si deve pertanto enunciare il seguente principio di diritto, in applicazione dell'art. 384 c.p.c., come sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12:


"le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all'ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla corte di legittimità".


Alla luce di tale principio va esaminato l'art. 49.


Mentre il corpo della norma parla di iniziative giudiziarie, la sua intitolazione parla di pluralità di azioni nei confronti della controparte. Questa discrasia terminologica va superata con il criterio ermeneutico funzionale. Poichè, come cennato supra, le norme del codice deontologico forense costituiscono l'esplicitazione esemplificativa dei principi generali contenuti nella legge professionale forense (Cass. 5038/2004 cit.), l'art. 49 in esame va interpretato nel senso che l'espressione iniziative giudiziali va riferita a tutti gli atti, anche aventi carattere propedeutico al giudizio esecutivo, suscettibili, per il loro carattere plurimo non necessario, di aggravare la posizione debitoria della controparte.


Pertanto in tale previsione normativa rientrano anche gli atti di precetto, i quali, per giurisprudenza costante, non costituiscono un atto di carattere processuale (Cass. 19 dicembre 2003 n. 199512, Cass. 24 febbraio 1996 n. 1471).


La interpretazione data dalla sentenza impugnata dell'art. 49 del codice disciplinare forense è pertanto corretta. Tutti gli altri motivi di ricorso sono egualmente infondati, alla luce del principio più volte ricordato (Cass. 11 marzo 2004 n. 5038) secondo cui in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, non compete alla Corte di cassazione, nell'esercizio del proprio potere di controllo di legittimità, sindacare l'apprezzamento della rilevanza del fatto assunto nel capo di incolpazione, essendo questo di competenza degli organi disciplinari forensi.


Esaminando comunque i singoli motivi, in quanto intitolati a violazione di legge, con il primo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 24, 111 Cost., art. 112 c.p.c., L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, (art. 360 c.p.c., n. 3), assume che la valutazione unitaria dei due addebiti, compiuta dalla sentenza impugnata, comporta una modifica dei fatti ascritti e dimostra l'insufficienza dei singoli addebiti ad integrare gli estremi di un illecito disciplinare.


Nessun argomento il ricorrente adduce per suffragare la tesi della modifica dei fatti ascritti.


Quanto alla salutazione globale questa corrisponde ad un principio generale codificato in materia penale (art. 81 c.p.), spesso preteso dallo stesso incolpato perchè ad esso più favorevole (Cass. sez. un. 9 marzo 2005 n. 5079), ammesso dalla giurisprudenza di legittimità in materia disciplinare (Cass. 11 novembre 1998 n. 11392, Cass. 28 agosto 1996 n. 7889), e sicuramente legittimo e necessario, perchè diretto ad una valutazione complessiva dei comportamenti.


Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), e della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, censura la sentenza impugnata perchè non avrebbe indicato con precisione i documenti da cui ha tratto il convincimento che il professionista potesse azionare un unico atto di precetto.


Il motivo è inammissibile, per difetto di autosufficienza. A fronte di un preciso riferimento della decisione impugnata ai plurimi titoli cambiari ad unica scadenza, che l'avv. S. ha azionato separatamente anzichè unitariamente, il ricorrente si dilunga in una serie di argomentazioni prive del benchè minimo elemento di concretezza, atto a scalfire il riferimento documentale della decisione che impugna.


Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio del contraddittorio, nonchè della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, (art. 360 c.p.c., n. 3) lamenta che la sentenza impugnata avrebbe fatto confusione tra esecuzione intesa come posizione processuale e posizione debitoria intesa in senso sostanziale.


Il motivo è infondato.


La decisione del Consiglio nazionale forense, nell'analizzare compiutamente le singole censure dello S. alla decisione di primo grado, ha esaminato anche l'argomento, qualificato formale, secondo cui nella motivazione della decisione impugnata si fa riferimento all'aggravamento processuale, mentre nella rubrica si fa riferimento all'aggravamento della posizione debitoria. Ha spiegato che, aggravando la posizione processuale passiva, si aggravano anche e soprattutto gli oneri debitori.


L'odierna censura nulla aggiunge o sottrae alla razionale motivazione della decisione impugnata sopra riportata.


Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo ancora violazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata sotto due profili:


a) perchè, nonostante la diversa conclusione del Procuratore Generale, ha escluso ogni rilievo alla circostanza che nella procedura esecutiva il magistrato abbia liquidato come onorari una somma addirittura maggiore di quella richiesta dal ricorrente;


b) perchè ha assegnato valore alla circostanza della revoca del mandato da parte del proprio cliente a causa delle sue richieste esose, non risultante da alcun documento.


Trattasi ancora una volta di censure che attengono ad aspetti motivazionali sottratti al controllo di legittimità.


Il ricorso va pertanto respinto.


Nulla per le spese processuali, attesa la contumacia.


 


P.Q.M.


 


Rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio.


Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle sezioni unite Civili, il 13 novembre 2007.


 


Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2007


 


         


 


 


 





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