LA LIBERTÀ di manifestazione del pensiero è «uno dei più preziosi diritti degli uomini». Così si esprimeva la dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Da allora non c’è stata Costituzione statale che non l’abbia sancita. Frutto della cultura settecentesca quella libertà era formulata come libertà di stampa, i caratteri tipografici essendo il veicolo tecnologico allora disponibile per la massima e capillare diffusione delle opinioni. Non a caso un sinonimo della stampa era anche l’opinione. Il pensiero come stampa era certo una riduzione dal genere alla specie, che non sembrava però improprio perché gran parte dei fogli in quel secolo era opera di letterati e scienziati più che non di giornalisti e di politici come li conosciamo oggi. Dopo le rivoluzioni liberali, americana e francese, la stampa si guadagnò il ruolo di guardiana del potere pubblico, perché in nessun caso esso osasse limitare le libertà costituzionali. Se nel sistema francese, poi adottato in tutto il continente europeo, la libertà di stampa era pur sempre regolata dalla legge, negli Stati Uniti d’America la Costituzione federale inibì al Congresso di legiferare in materia di libertà di parola e di stampa. Con il progresso scientifico e tecnologico, accanto alla stampa, si allinearono radio, cinema, televisione e oggi tutte le forme della multimedialità, insieme a quel mare aperto alla navigazione universale, unificante i caratteri dei mass-media con quelli della comunicazione interindividuale, che è Internet.
La difficoltà di dare regole a questa libertà, perché si conservi nella natura e nei fini di una libertà dell’uomo e non assuma la sostanza maligna di un potere onnipotente e privo di ogni eticità, è evidente. Non è però più soltanto la invasività delle tecnologie e della comunicazione ad insidiare la fisionomia originaria della libertà di manifestazione del pensiero. Anzi la manifestazione del pensiero sembra volersi sganciare dai suoi veicoli classici, antichi e recenti. Oggi si manifesta col corpo, con cortei, con cartelli, canti e urla, e con il corpo a corpo di varia offensività, e sassate e sprangate e armi e proiettili propri ed impropri. La discriminante potrebbe essere tra manifestazione pacifica e violenta, riservando le garanzie costituzionali di diritto di libertà solo alla prima, non alla seconda. Ma nella dinamica di siffatti eventi, cui partecipano decine se non centinaia di migliaia di manifestanti, è spesso indistinguibile il confine tra quel che è pacifico e quel che diventa violento. Il problema non è soltanto del legislatore penale e delle autorità di polizia. Il problema è sociale e politico. Manifestazioni di massa, di strada e di piazza, sono un sintomo dell’insufficienza di tutte le altre forme di manifestazione diremmo così "intellettuali". Si tratta di manifestazioni di protesta e le forme educate di protesta o sono troppo sofisticate e sofistiche, cioè ragionative, o sono precluse alle grandi masse. La protesta di massa è il segno di un disagio e di uno scontento emergente, che appartiene a generazioni ancora escluse dalle operazioni di modellazione dell’universo sociale e criticamente polemiche verso quanto è stato prodotto dalle generazioni precedenti.
Le motivazione e i temi di questa critica sono diversi e spesso distanti tra loro e partecipati da gruppi e gruppuscoli che si coalizzano sotto l’urgenza di una occasione dominante. Questo è il caso del G8 a Genova, con tutti i precedenti, da Sheattle a Goteborg. La costellazione di violenze che accompagna il grosso dei manifestanti non può valere a criminalizzare quel che essi manifestano. Ma non può certo coprirsi della garanzia della libertà di manifestazione. Le dimostrazioni di massa nell’età delle rivoluzioni potevano essere schiacciate dalla polizia, dalle cariche di cavalleria, dalle cannonate dell’artiglieria, perché la massa di per sé, qualunque cosa chiedesse, libertà e Costituzione, o pane e lavoro, era contro lo Stato.
Oggi non è lo Stato l’antagonista delle masse. La globalizzazione ha rivelato un’articolazione del potere molto più estesa e complessa, che salda un gruppo di grandi Stati mondiali alle questioni di competenza degli uomini e degli organismi dell’economia mondiale. Lo scenario della globalizzazione, che da economica si fa sociale e politica, non ha ancora i suoi profeti né come ideologi né come leader. La galassia dei movimenti si sposta da nazione a nazione nei luoghi dove i grandi fanno le loro apparizioni per manifestare dissenso. Ed è inevitabile che, quando è ancora in formazione un manifesto ideologico, il dissenso si manifesti come urlo e urto e la violenza circondi anche chi vuole manifestare in forme pacifiche e magari con un eloquente silenzio. Quel che è più imbarazzante è che i registi storici delle dimostrazioni di massa, i partiti, siano senza parola e privi di ogni credito dinanzi ai movimenti e forse questo è il segno non di una crisi di transizione, ma di una mutazione. Se i principi costituzionali di libertà vanno tenuti saldi più che mai in tempi di trasformazione della cultura civile del mondo, proprio per non deviarne il moto verso esiti di scontro, è però da guardare con attenzione ogni possibile riflesso di questo inedito rapporto tra nuovi movimenti e vecchi partiti.