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Pubblichiamo un estratto della tesi “I giornali studenteschi milanesi. 1945-1968” discussa l’8 luglio 2003 e approvata con lode all’Università degli Studi di Milano (Facoltà di Scienze politiche, relatore Ada Gigli Marchetti).



«la Zanzara» e l’esordio giornalistico del quattordicenne Walter Tobagi

di Diletta D’Amelio

La nascita e la funzione de «la Zanzara». Nel fermento culturale che fece seguito alla fine della seconda guerra mondiale tre studenti del liceo classico Parini di Milano (Achille Cutrera, Valerio Riva, Mario Scamoni) fondarono «la Zanzara», stampandola su carta offerta dai partigiani. Oltre a essere il foglio d’istituto più longevo e noto - nel 1966 divenne celebre a livello nazionale per la pubblicazione di un’inchiesta che suscitò scalpore - «la Zanzara» incarna la migliore tradizione del giornalismo studentesco, per il livello degli argomenti trattati e per la serietà che mantenne fino al termine delle pubblicazioni, nel 1968. Tanto che fu proprio questo il modello al quale si ispirarono gli studenti degli altri licei e istituti tecnici milanesi, intenti dai primi anni cinquanta a dar vita ad analoghi periodici nelle loro scuole.

Non furono motivi di svago ad animare i fondatori, che anzi presero le distanze dal tono goliardico dei giornali del ventennio fascista, ma il desiderio di riflettere sulle questioni politiche, economiche, sociali e culturali lasciate dal conflitto: il diritto di sciopero, l’epurazione, la questione istituzionale, la situazione dell’arte, della letteratura, del teatro e, naturalmente, i problemi della scuola. Un sentito impegno antifascista e l’adesione morale ai valori della Resistenza sono alla base della nascita de «la Zanzara», che riflette speranze e aspettative dei giovani di fronte al nuovo ordine democratico e testimonia il loro impegno nella ricostruzione dell’Italia. Era forte la convinzione che il confronto con i coetanei sui temi più urgenti del momento favorisse la formazione politica della nuova classe di individui, ai quali sarebbe spettato il compito di risollevare le sorti del Paese.

Anche negli anni seguenti i redattori continuarono a considerare l’attività giornalistica come stadio preparatorio alla vita politica e a ritenere che il libero e democratico scambio di idee favorisse quell’educazione civile necessaria per inserirsi responsabilmente nella vita sociale. Per questo i giovani volevano iniziare a capire fin dagli anni della scuola la realtà nella quale vivevano, esaminarne i problemi e tenersi costantemente informati sugli avvenimenti nazionali e internazionali del momento. Compito del giornale era proporre loro questi temi e spronarli a dibatterli - «la Zanzara» doveva il suo nome all’intento di «pungere» gli studenti, spingendoli alla discussione - sempre però rifuggendo dalla strumentalizzazione in funzione di ideologie particolari. L’impegno nella redazione aveva inoltre una funzione integrativa rispetto alla scuola, in quanto consentiva di rispondere alle esigenze culturali, d’informazione e di svago dei giovani e di approfondire tutte quelle curiosità che non trovavano spazio nelle ore di lezione. La scuola diventava così centro di educazione e di formazione, oltre che di istruzione.

Gli anni sessanta.Dai primi anni sessanta «la Zanzara» visse una stagione particolarmente felice grazie all’impegno di redattori preparati e capaci come Salvatore e Alberto Veca, Vittorio e Guido Zucconi, Carlo Andrea Mortara, Tino Oldani, Stefano Magistretti, Lodovico Jucker, Walter Tobagi, Marco De Poli, Marco Sassano, Massimo Nava. Nonostante la giovane età erano in grado di redigere un giornale che somigliava in tutto a quelli degli adulti: conteneva rubriche fisse, inchieste condotte con criteri rigorosi, interviste a personaggi celebri della cultura, del giornalismo, dello spettacolo, dello sport (tra gli altri Bocca, Fortini, Eco, Olmi, Albertazzi, Jannacci, Celentano, Rivera, Trapattoni), coprendot l’intera gamma degli interessi degli studenti. Ma soprattutto i redattori mostravano attenzione e sensibilità per i problemi più attuali della realtà che li circondava: discriminazione razziale, sottosviluppo del Terzo Mondo, dittatura franchista, conflitto in Algeria e Vietnam, obiezione di coscienza, divorzio, emergere di neofascismi in Italia e in Europa, squilibri socio - economici del Mezzogiorno. Si appassionavano all’elaborazione culturale di don Lorenzo Milani e Danilo Dolci, ai surrealisti francesi, alla poesia e alla narrativa italiana del Novecento, alla ribellione del movimento beatnik contro la standardizzazione e il livellamento intellettuale della società americana del dopoguerra. Il giornale era inoltre inteso come organo di un più ampio movimento studentesco, e quindi come mezzo per formulare proposte originali per la soluzione dei problemi della scuola e per sensibilizzare i giovani indifferenti a queste tematiche.

L’impostazione era seria, tanto che spesso i lettori si lamentavano dell’eccessiva «pesantezza» del giornale. Le sedici pagine, graficamente curate ed eleganti, uscivano con cadenza quasi mensile ed erano ricche di illustrazioni e pubblicità. La fonte principale di finanziamento non erano le vendite, che bastavano a coprire solo un terzo delle spese di tipografia, ma le inserzioni. Cartolerie, librerie, negozi di dischi, articoli di cancelleria Pelikan, Coca Cola, Campari, acqua Frisia, birra Splügen, amaro Isolabella, Bassetti, CARIPLO, Riunione Adriatica di Sicurtà, British Petroleum e alcuni oggetti di culto di allora, come la Lambretta e la Vespa («condizioni speciali ai pariniani!!!»). Era un giornale «ricco» rispetto agli altri: «I nostri compagni, figli della borghesia illuminata di quegli anni i Bassetti, i Rocca, i Lodigiani, andavano a batter cassa dai genitori», ricorda Marco De Poli, direttore de «la Zanzara» nel 1965/1966[1].

I pariniani di allora parlano di studio pesante e selezione spietata. «Era una scuola darwiniana prodotta da una società di classe», è la testimonianza di Zucconi, riportata sul sito del Parini (www.liceoparini.it), «e anche allora mi colpiva la sostanziale democratizzazione di quelle stragi accademiche, perché vedevo i figli delle migliori famiglie milanesi segati senza pietà, e viceversa ragazzi di umilissime origini che riuscivano ad arrivare fino in fondo. Alla fine, il fatto di essere sopravvissuti al Parini ci dava un senso di sicurezza interiore». Una scuola selettiva, ma anche aperta e innovativa, nella quale l’attività giornalistica e associativa fu quasi sempre permessa e incoraggiata. Soprattutto dal 1962, con l’arrivo di un nuovo preside, Daniele Mattalia, dantista di scuola crociana, che favorì un clima di libertà e tolleranza, tanto che nel 1966 sarebbe stato processato proprio per non aver esercitato la censura su «la Zanzara». Insieme a quella del Berchet (preside Yoseph Colombo) la situazione del Parini fu tra le più positive nel panorama cittadino; all’estremo opposto era il Carducci, dove i controlli esercitati dal preside Bernardino Ferrari condizionarono pesantemente la vita dell’associazione e del «Mr. Giosuè», che nel 1966 si sarebbe qualificato come giornale studentesco più censurato d’Italia.

L’esordio di Tobagi: lo sport. Tra il 1962 e il 1966 Walter Tobagi fu una figura centrale nella redazione del giornale, sul quale pubblicò una trentina di articoli. Suo padre, ferroviere, era stato trasferito dall’Umbria a Bresso quando lui aveva otto anni. Mentre di solito erano i ragazzi degli ultimi anni a scrivere, Tobagi collaborò a «la Zanzara» fin dalla quarta ginnasio, prima solo occasionalmente, quindi, dal liceo, come redattore fisso, e infine come capo-redattore.

Al ginnasio Tobagi si occupò prevalentemente di sport e in particolare di calcio, una delle sue molte passioni. Nello stesso periodo aveva iniziato a collaborare al settimanale sportivo «Milan - Inter» e approfittò delle sue conoscenze nell’ambiente sportivo per riportare sul giornale del Parini interviste a famosi calciatori e allenatori delle due squadre milanesi: Giovanni Trapattoni, Gianni Rivera, Helenio Herrera. Le sue domande non vertevano solo sugli aspetti tecnici del calcio, ma cercavano di mettere a nudo la personalità e l’aspetto umano degli sportivi, i valori in cui credevano, i loro interessi: in fondo erano ragazzi poco più grandi di lui, anche se guadagnavano cifre enormi ed erano considerati idoli dai tifosi.

Dall’intervista a Trapattoni, che segnò l’esordio giornalistico di Tobagi (Intervista con Trapattoni, marzo 1962), trapela l’ammirazione per l’allora ventiduenne mediano del Milan e della Nazionale che, dopo aver accettato di buon grado di incontrarlo al bar Cristallo di Cusago, riaccompagnò a casa il giovane giornalista sulla sua «500» blu: «Il Trap sposta due dischi di twist e si mette al volante. Lo guardo in silenzio e penso alla sua bonomia tutta lombarda, in contrapposizione con il suo gioco deciso e classicheggiante. Ammiro la sua semplicità e me ne compiaccio quasi fosse di me stesso: ma non ho il coraggio di dirgli nulla: il “Trap”, nella sua modestia, potrebbe credermi un esaltato». Con abilità e diplomazia il giocatore aveva «dribblato» le domande più imbarazzanti, riuscendo a trasformare «il ringhioso cronistello in tranquillo interlocutore».

Meno positivo, invece il giudizio sull’allenatore dell’Inter Herrera che, intervistato insieme a Stefano Magistretti (Intervista con H.H., gennaio 1963), parlava «con una certa superiorità» e diede ai due ragazzi «un’impressione napoleonica». Ma «nonostante un certo timore reverenziale», i due ragazzi lo incalzarono con le loro domande: «Non le sembra di essere assolutista con i giocatori?» «Non le pare che certi suoi atteggiamenti siano fatti apposta per far montare la mosca al naso agli altri?» «Mandare i ragazzi a Torino e perdere 9-1 è stata una cosa normale?». «Accetta le critiche che le vengono rivolte quotidianamente?». Ebbero l’impressione di un «personaggio notevole, egocentrico, fin troppo sicuro di sé» che però, «polemista per natura, mantiene sempre un tono appassionato e convinto ed unisce a ciò una notevole dose di educazione e cortesia».

Qualche tempo dopo l’incontro con Rivera a Milanello (8 milioni al chilo. Gianni Rivera analizza se stesso e il suo mito, gennaio 1965) si risolse in una piacevole sorpresa per Tobagi: «Mi aspettavo di trovare un esaltato. E invece no: siamo sullo stesso piano, anche se Rivera a sedici anni è finito sulle prime pagine dei giornali». Parlarono dei suoi guadagni, delle sue responsabilità morali verso i tifosi, dei cambiamenti legati al successo: Tobagi si rese conto che solo le sue possibilità economiche erano cresciute, ma i valori, le idee, l’attaccamento alla famiglia erano rimasti immutati. Per questo concluse che il giocatore aveva ancora il viso di un ragazzino, ma il cervello «d’un uomo maturo».

In collaborazione con Tino Oldani Tobagi curò anche un’inchiesta sullo sport interna al liceo (I giovani e lo sport, sport o snobismo?, giugno 1964) e intervistò giornalisti de «Il Giorno», «La Notte», «Corriere della Sera», «Gazzetta dello Sport» (Gianni Brera, Nino Nutrizio, Gino Palumbo, Giorgio Mottana) sullo stato dello sport in Italia e nelle scuole, sull’educazione sportiva dei giovani e sulla funzione della stampa sportiva (Sport e giornalismo sportivo, giugno 1966).

Il liceo. Dalla prima liceo Tobagi divenne redattore e poi capo-redattore. Vigeva in quegli anni un sistema di cooptazione dei giovani da parte degli «anziani», e fu Vittorio Zucconi, di due anni più grande di Tobagi, a intuirne il talento giornalistico e a convincerlo a entrare nella redazione. Il giornalista di «Repubblica» ricorda così come avvenne il loro incontro: «Mi avevano detto che fra i “bambini” di prima liceo ce n’era uno che sapeva scrivere bene e che sarebbe stato forse disposto a collaborare. Un certo Tobagi Walter. Gli parlai mangiando un panino al salame che il bidello vendeva a prezzi di strozzinaggio nell’intervallo e lui mi disse di no. Mi spiegò che c’era troppo da studiare al liceo, che il giornalismo, neppure quello dilettantistico della “Zanzara”, non gli interessava molto e nella vita voleva fare cose più serie. Lo pregai, lo lusingai, lo insultai, feci pesare su di lui tutta la formidabile autorità morale che uno di terza, un “maturando”, aveva sopra una nullità di prima. Feci ricorso a bassezza morali e mozioni degli affetti: pensa come sarà orgoglioso tuo padre quando vedrà il tuo nome stampato sul giornale del Parini. Walter esitò ancora, cercò di schermirsi, ma era timido, come lo sono tanti giornalisti, e alla fine cedette. Non si contraria a cuor leggero un anziano che dall’alto dei suoi diciassette anni e mezzo mette uno di quindici anni e mezzo con le spalle al muro Ma di che cosa devo scrivere? s’informò candidamente Tobagi. Di quello che ti pare, basta che scrivi. Mi portò il suo primo scritto sui rapporti tra insegnanti e studenti, e glielo feci rifare. Tobagi Walter, lo rimproverai, devi fare un articolo, mica un tema»[2]. Quindici anni più tardi i due giornalisti avrebbero lavorato nuovamente insieme nella redazione di un giornale, il «Corriere della Sera», e Zucconi ricorda come Tobagi continuasse a chiamarlo «direttore» e lo rimproverasse amichevolmente per averlo avviato alla «turpitudine del giornalismo»[3].

Al liceo Tobagi, oltre a continuare a occuparsi di sport, scrisse per «la Zanzara» articoli su un’ampia varietà di argomenti, spaziando dalla storia alle questioni sociali, da note di critica letteraria e teatrale a fatti di costume e ai problemi della scuola e del movimento studentesco.

Fu inoltre sempre più coinvolto nelle attività dell’Associazione Studentesca Pariniana (ASP) - il circolo d’istituto di cui «la Zanzara» era l’organo ufficiale - che prevedeva tra le proprie attività l’organizzazione di manifestazioni culturali, ricreative e sportive ideate e gestite esclusivamente dai giovani. Scopo dell’associazione era migliorare la qualità della vita nella scuola favorendo l’amicizia e l’affratellamento tra compagni, ma anche la rappresentanza «sindacale» degli interessi degli studenti di fronte alle autorità scolastiche. L’organizzazione interna dell’ASP rispondeva ai principi della democrazia: tutte le cariche erano elettive e uguale diritto di voto spettava agli iscritti, che potevano anche inoltrare richieste di modifica dello statuto e sfiduciare l’organo esecutivo in caso di inadempienza dei suoi obblighi. La carica di presidente veniva assegnata al candidato che otteneva più voti, mentre tra i componenti del comitato direttivo (l’organo esecutivo) venivano ripartite le altre cariche (sport, cultura, attività ricreative, amministrazione ed esteri, il cui responsabile si impegnava a rafforzare i contatti con le altre associazioni milanesi).

In questi anni l’ASP organizzò conferenze sul teatro, dibattiti sul movimento studentesco, lezioni di storia, incontri con giornalisti, concerti e audizioni di dischi, proiezioni di film, feste, gite, gare sciistiche, competizioni sportive con altri licei cittadini, gruppi di studio (scientifico, filologico, socio-storico, sulla Resistenza) che si avvalevano della collaborazione di alcuni docenti; faceva parte dell’ASP la Compagnia Teatrale Pariniana (nella quale ebbe un ruolo rilevante Diego Masi, poi sottosegretario agli Interni), che inscenava i suoi spettacoli al teatrino dell’U.S.I.S. e successivamente al Teatro Litta. Insieme all’Associazione Studentesca Carducci, l’ASP fu inoltre una delle organizzazioni d’istituto cittadine più sensibili ai problemi del movimento studentesco medio e più impegnate nella creazione di un organo di coordinamento interassociativo, il Comitato milanese interstudentesco.

Tobagi si preoccupò di favorire la partecipazione all’associazione ed evitare che questa si riducesse a un’élite di privilegiati. Convinto che il disinteresse di molti ragazzi verso le attività dell’ASP fosse dovuto alla mancanza di informazione e di comunicazione tra il direttivo e la massa degli studenti, dal 1963 si adoperò, insieme ad Alberto Veca e Stefano Magistretti, per la riforma dello statuto. In particolare propose il rafforzamento dei poteri dei delegati di classe, elementi di collegamento tra l’organo esecutivo e la base studentesca, che comunicavano ai compagni le decisioni dell’assemblea, promuovevano le iniziative dell’ASP e si occupavano della vendita del giornale. Nel 1964 prese parte alla commissione di revisione dello statuto e riuscì a far approvare le modifiche da lui proposte, ma il nuovo statuto venne poi invalidato per l’accertamento di irregolarità procedurali nelle modalità di convocazione dell’assemblea. Eletto in terza liceo nel consiglio direttivo dell’ASP, Tobagi assunse l’incarico di responsabile del settore culturale, impegnandosi nella promozione di dibattiti e conferenze e battendosi per inserire più attivamente i ginnasiali nella vita dell’associazione e del giornale, creando una redazione separata per loro e organizzando incontri riservati ai più giovani.

La polemica con Jucker. Negli anni del liceo Tobagi partecipò a vivaci scambi di opinioni con i compagni, che nascevano sia nei dibattiti organizzati dall’associazione, sia sulle pagine del giornale. Una delle polemiche più appassionate fu quella con Lodovico Jucker, figlio di ricchi industriali, che nel novembre del 1964 scrisse un articolo (Iscriversi o no alla cosa dei topi?) ispirato a teorie marxiste massimalistiche.

Per descrivere le condizioni di vita nella società neocapitalista Jucker ricorreva al sociologo americano Paul Goodman e alla sua metafora dei topi chiusi in una stanza, tutti uguali e privi di personalità, intenti a correre in circolo senza mai fermarsi. Analogamente, gli uomini della civiltà industriale «guadagnano di più, per poter comprare di più e incrementare la produzione, onde poter guadagnare di più, in un circolo vizioso che non sembra mai concludersi [...], consumando le proprie energie nel rincorrere traguardi che non esistono o che sono di scarso interesse (il guadagno, il posto, la reputazione, l’automobile ecc)». Jucker affermava quanto poco desiderabile fosse per i giovani inserirsi nella società neocapitalista, paragonata a una macchina nella quale gli uomini non sono altro che uno dei numerosi ingranaggi. Sottolineava in particolare gli aspetti disumani della vita sociale, parlando di lavoro «assurdo, immotivato», basato sullo sfruttamento e incompatibile con gli ideali e le aspirazioni dei ragazzi, che «vorrebbero nel lavoro collaborare per la costruzione di un mondo nuovo». Non potendo i giovani migliorare la società capitalista, Jucker prospettava l’eversione del sistema come la sola soluzione per rimanere coerenti con i loro principi. Quello rivoluzionario era dunque l’unico impegno valido.

Nel numero seguente Tobagi replicò a Jucker con un articolo rispettoso e di autentica tolleranza (Impegno cristiano, senza rivoluzioni, dicembre 1964), nel quale contrapponeva come alternativa alla civiltà di massa «un autentico socialismo cristiano». Tobagi respingeva l’affermazione di Jucker del lavoro come umiliazione e ricerca di glorie inutili e passeggere, proponendo invece il concetto cristiano del lavoro come mezzo di redenzione e di elevamento, dal quale l’uomo trae la sua nobiltà: «E’ il concetto cristiano. Il lavoro è castigo, certo, ma è castigo che nobilita». Pur senza negare la complessità del problema dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, Tobagi spostava la questione sul piano della libertà spirituale, economica e sociale dell’individuo. Nessuno per lui poteva sottrarsi alla «corsa dei topi», cioè alla vita lavorativa e sociale, però era possibile parteciparvi senza rinunciare ai propri principi morali: entrare nel sistema non significava diventare un ingranaggio del meccanismo ma impegnarsi per diffondere, in esso, le idee più avanzate. Non eversione del sistema, dunque, ma sua trasformazione dall’interno.

Le inchieste sul «pariniano medio» . In veste di capo redattore Tobagi curò le numerose inchieste che «la Zanzara» condusse tra il 1964 e il 1966 e che costituiscono uno degli elementi più originali e interessanti del giornale di questi anni. Le indagini si basavano su questionari distribuiti a tutti gli studenti e talvolta la redazione, dopo aver raccolto le risposte, coinvolgeva alcuni studenti in piccoli «forum» per commentare i dati emersi. I risultati venivano quindi pubblicati sulle pagine centrali del giornale, insieme ad alcune risposte significative e ai commenti dei redattori.

Le inchieste condotte in questi anni sotto la supervisione di Tobagi e del direttore (Magistretti, poi De Poli) erano volte a delineare la figura del «pariniano medio»: cosa leggesse, come impiegasse il suo tempo libero, quali fossero le sue aspirazioni e la sua posizione di fronte alla religione, alla politica, alla famiglia, alla patria. Da queste indagini emerse che lo studente medio considerava «storicamente superati» il patriottismo e il nazionalismo e che non esitava a contestare e spesso a rifiutare i dettami della Chiesa cattolica; ma ciò che soprattutto sorprese Tobagi fu che il «pariniano medio» pareva totalmente privo di ideali, indifferente ai temi fondamentali della problematica giovanile ed estraneo alle grandi questioni sociali e politiche del suo tempo, sulle quali mostrava di avere conoscenze superficiali e standardizzate, che mancavano del tutto di capacità di esame critico. Poco diffusa risultò essere la lettura dei quotidiani, con l’eccezione della «Gazzetta dello Sport», mentre la scelta dei libri era orientata verso qualsiasi cosa avesse «sentore di avanguardia e anticonformismo», dal momento che il «pariniano medio» ambiva ad essere considerato un «tipo da élite» e si preoccupava di fare bella figura con gli amici. Anche per quanto riguarda la storia recente i ragazzi del liceo più prestigioso di Milano, che si apprestavano a diventare la futura classe dirigente, si dimostravano «di un’ignoranza totale».

A commento dei dati emersi da queste inchieste Tobagi scrisse una serie di articoli dai titoli emblematici (Divertirsi e far soldi, La gioventù dei bigini, Ignoranza e qualunquismo, Tempo libero: ma per che cosa?), nei quali esprimeva preoccupazione per l’indifferenza nei confronti dei problemi politici e sociali mostrata dalla maggior parte dei suoi compagni e per la loro rinuncia a svolgere un ruolo stimolante nella società: «I giovani, nel tempo libero, non si dedicano all’approfondimento e alla riflessione delle proprie esperienze; non “formano” democraticamente e personalmente i propri caratteri, ma inseguono vanamente l’attimo fuggevole di felicità, il divertimento: fuggono, senza interruzione, una noia che è frutto della mancanza di profondi interessi». In particolare suscitò vivaci proteste da parte dei lettori il provocatorio articolo Divertirsi e far soldi (marzo 1965), presentato come trasposizione della conversazione tra Tobagi e due compagni di scuola nell’ambito dell’inchiesta sulle ambizioni del «pariniano medio». La massima aspirazione degli studenti intervistati era diventare ricchi («fare soldi, tanti soldi. Perché adesso non vale altro. Tu puoi essere più intelligente ed avere maggiore cultura. Ma alla resa dei conti cosa ti vale la tua cultura: farai delle conferenze e sarai applaudito, ma all’atto pratico?»). Aspiravano a vivere alla giornata, avere la macchina, divertirsi dedicandosi ad attività che non richiedessero impegno eccessivo: andare a ballare, suonare la chitarra; andare al cinema e magari a teatro, ma solo perché era considerato «chic» («Ci vanno le persone “bene”: quelli del giro. Vedi: io sono pariniana e ci tengo a fare bella figura»). E vantandosi di essere poco studiosi, affermavano che il «pariniano medio» non fosse rappresentato da quella minoranza che partecipava a dibattiti, conferenze e gruppi di studio, ma da loro, ragazzi che pensavano soprattutto a divertirsi. («Voi cercate di occuparvi di cose troppo serie: per i miei gusti almeno. Io prediligo le feste, gli scherzi, i divertimenti. A scuola non si viene per suscitare grossi problemi. Tant’è: neanche voi che li sollevate siete capaci di risolverli. Per cui è molto meglio godersi la vita, cum pace et tranquillitate»; «perché il pariniano medio non è l’intellettualoide né il ginnasiale secchia, che non conosce altro che i libri. Il pariniano medio sono io, con le mie aspirazioni quotidiane. Con la mia voglia di divertirmi. Col sorriso e la simpatia, che mi servono per “conquistare” le care compagne»).

In seguito alla pubblicazione di questo articolo la redazione ricevette una ventina di lettere di protesta da parte di studenti che si sentivano offesi e non rappresentati da questo ritratto. In quell’occasione Tobagi si disse contento perché finalmente alcuni ragazzi avevano vinto la loro timidezza e trovato il coraggio di rispondere alla provocazione. La sua soddisfazione era però solo parziale, perché i lettori si erano perlopiù limitati a manifestare sdegno e ad avanzare insinuazioni sull’autenticità dell’intervista, mentre mancavano proposte costruttive e critiche ragionate. Ancora una volta, dunque, gli studenti avevano perso l’occasione per avviare una serena discussione sui loro ideali.

Questo articolo (Maometto e la montagna, aprile 1965) può essere considerato rappresentativo della funzione che Tobagi Magistretti, De Poli e gli altri redattori di questi anni attribuivano a «la Zanzara». Il giornale d’istituto era concepito come strumento per scuotere dalla loro apatia tutti quei «pariniani medi» che non ambivano «ad affermare il proprio pensiero e la propria individualità, trovando molto più comodo rinchiudersi ciascuno nel proprio piccolo mondo e seguire la massa» e che all’impegno critico mostravano di preferire «il conformismo e l’adesione indiscussa ai comodi “buoni principi” della borghesia e del benessere»[4]. «la Zanzara» voleva incitare gli studenti ad aprire utili dibattiti su argomenti vivi e attuali, rispondendo al bisogno di improntare una critica lucida e disinteressata, volta a indagare sulla veridicità di quei dati che, a scuola, erano costretti ad accettare supinamente. E dalla critica non si escludeva, anzi ci si auspicava, di poter giungere alla polemica, intesa come «mezzo efficace per scuotere la gran massa di giovani borghesi senza interessi e senza cultura, rincitrulliti dalla televisione e dai rotocalchi, disabituati a pensare dal conformismo della nostra società e della nostra scuola, dallo studio eccessivo ed eccessivamente sistematico»[5]. Attraverso i suoi spunti di riflessione «la Zanzara» intendeva quindi stimolare i lettori a formarsi un’opinione, ad esporla e a verificarla costantemente nel dialogo con i compagni, nella convinzione che i dibattiti avviati sulle pagine del giornale, così come quelli in associazione, aiutassero i giovani a crescere e a farne uomini maturi e consapevoli. Consentendo di partecipare attivamente alla propria educazione, l’attività giornalistica e associativa rappresentava un’autentica palestra di educazione politica.

La storia e la politica. Tobagi condusse due inchieste sulle conoscenze relative alla storia recente, interna al liceo la prima (Che cosa sanno i giovani della storia 1920-1945?, dicembre 1964), estesa anche all’istituto tecnico Ettore Conti la seconda (Gli studenti del 65: che cosa sanno della Resistenza, come la giudicano, aprile 1965). Quest’ultima fu pubblicata sul numero speciale interamente dedicato alla Resistenza, scritto in collaborazione con il «Mr. Giosuè» in occasione del ventennale della liberazione, che riportava brani estratti dai diari di partigiani, lettere di condannati a morte dai tedeschi e le testimonianze di Giorgio Bocca, intervistato da Tobagi, e Franco Fortini. Alcuni versi di una canzone partigiana, pubblicati al Parini, furono censurati dal preside del Carducci («Ai Soviet stingiamo la mano/ L’Italia farem comunista […] Evviva la Russia, evviva Lenin!»).

Categorico fu il commento di Tobagi a proposito dei dati emersi dalle ricerche: superficiali e precostituite le conoscenze storiche dei giovani, elementari e semplificati i loro giudizi, abbondante il ricorso agli stereotipi e alla retorica («Hitler era un pazzo» e «perseguitava gli ebrei per motivi religiosi»; il fascismo salì al potere «per il catastrofico fallimento dei precedenti governi di sinistra»). Per quanto riguarda la Resistenza non solo l’ignoranza era molto diffusa (venne definita «un movimento social-comunista», e per qualcuno i partigiani erano solo «delinquenti e traditori»), ma generalizzato era il disinteresse dei ragazzi che, giudicandola come un fatto storico acquisito e concluso per sempre, chiedevano di stendere un velo su quel doloroso passato, anche per non rievocare motivi di contrasto e rinfocolare odi sopiti («Siamo stufi di sentir parlare di Resistenza! Siamo stufi di sentir parlare di fascismo! Siamo stufi di sentir parlare di una guerra finita vent’anni fa!»).

Più volte Tobagi tornò a ribadire l’importanza di conoscere il passato recente, tuttora vivo e influente: anche perché, come disse a commento dell’intervista a Bocca, «le aspirazioni della Resistenza si sono attuate solo in parte: in futuro spetterà a noi giovani attuarle pienamente secondo modi e necessità politiche contingenti». Intendeva la Resistenza come impegno costante e quotidiano a difendere, nella società del suo tempo, i valori per i quali tanti uomini della generazione precedente avevano dato la vita. Compito dei giovani era non dimenticare questo patrimonio ideale: «Dobbiamo approfondire e fare nostri i motivi ideali della Resistenza, ma anche studiarla nella sua nuda verità, priva degli orpelli retorici ai quali si ricorre in troppe commemorazioni».

Come i numeri dell’immediato dopoguerra, «la Zanzara» di questi anni testimonia la fiducia dei redattori nei principi della democrazia, la loro adesione morale ai valori resistenziali e un profondo impegno antifascista. Mentre molti ragazzi nutrivano forti pregiudizi verso la politica e chiedevano che il giornale si occupasse di sole questioni studentesche, era opinione di Tobagi e degli altri redattori che i giovani avessero l’obbligo morale di occuparsi della realtà del Paese e della storia recente, esclusa dai programmi di studio; e dalle pagine del giornale esortavano i coetanei a liberarsi dall’ingiustificata prevenzione verso la politica, anche in vista dell’esercizio di voto al quale entro breve sarebbero stati chiamati.

La letteratura e il teatro. Gli scritti giovanili rivelano la precoce vivacità intellettuale di Tobagi, che amava la letteratura e il teatro e invitava i compagni a frequentare più assiduamente la biblioteca («attraverso la lettura di tante e così importanti opere è possibile sviluppare e maturare la nostra personalità. [...] Attingere a tale patrimonio di cultura e di ideali è, più che una possibilità, un dovere di noi studenti»). In questi anni si avvicinò alla produzione culturale del Novecento e per il giornale scrisse di poesia, narrativa e teatro.

Rimase affascinato dall’opera di García Lorca, cantore «della natura, della semplicità lineare, del profondo realismo» (García Lorca, aprile 1964). Ravvisava uno stretto legame tra la sua poesia e l’arte dei pittori realisti, accomunati dalla stessa capacità di rendere protagonisti i colori e dal medesimo rapporto con la natura, non osservata dall’esterno, ma interiorizzata e rivissuta nel proprio animo.

Si interessò poi alla causa di James Baldwin (Un negro e gli altri e «Un altro mondo», novembre 1964), figura centrale della cultura afroamericana del tempo, aderente al movimento per i diritti civili dei neri e impegnato sul fronte integrazionista. In lui Tobagi intravedeva un sentimento di «negritudine», che glielo faceva accostare alle teorie di certi intellettuali africani. Osservò che Baldwin descriveva un mondo in cui le due razze vivevano divise da un muro di disprezzo, e che i protagonisti dei suoi romanzi erano neri che, dopo secoli di sfruttamento, ricambiavano l’odio dei bianchi e cercavano la rivalsa sui loro oppressori. In Italia per presentare il suo ultimo libro, Tobagi lo incontrò nel 1964 e si sorprese che non fosse lo scrittore appassionato e impegnato che aveva immaginato, ma un uomo disincantato, apparentemente indifferente e insensibile, pronto a criticare anche i più convinti progressisti: «E’ veramente cool, freddo. Risponde con sufficienza alle domande. [...] Il suo sguardo non s’illumina mai. Gelido, volge gli occhi attorno con una noncuranza disarmante, quasi che questi problemi non lo riguardassero». Tobagi si sforzò di indagare sulla ragione di tanta apparente indifferenza, e credette di ravvisarla nell’incapacità dello scrittore di percepire la partecipazione alla sua causa da parte di chi aveva di fronte, scambiandola per semplice curiosità per il personaggio famoso.

Si occupò anche del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett («Avrei giurato che fosse una carota», dicembre 1964), al quale riconosceva la capacità di individuare e sviluppare con ironia i problemi più gravi della civiltà contemporanea (incomunicabilità, solitudine, mancanza di ideali e valori assoluti), senza tuttavia preoccuparsi di risolverli. Pur considerandolo un eccelso scrittore e autore di teatro ne respingeva la filosofia, che negava all’esistenza umana un significato preciso. Tobagi, che credeva «nella vita e nei suoi alti e nobili valori», non poteva condividere le idee beckettiane dell’uomo che subisce passivamente gli eventi e dell’esistenza dominata dall’attesa monotona e snervante di qualcosa o qualcuno di indefinito, il fantomatico Godot.

A quindici anni dal suicidio di Pavese Tobagi suggerì ai compagni la rilettura della sua opera, spinto dal desiderio di comprendere le ragioni del suo gesto ma evitando, al contempo, qualunque giudizio morale (Cesare Pavese, marzo 1965). Un gesto per lui dovuto, più che a un «vizio assurdo», all’insanabile contrasto tra le due anime di Pavese, da un lato scrittore affermato, dall’altro uomo incompreso e infelice, che non sapendo accettare il suo fallimento trovò nel suicidio l’unica via di liberazione. Tobagi sottolineava come Pavese, cantore di una vita semplice e umile, non fosse riuscito in realtà ad accontentarsi di un’esistenza fatta di poche amicizie, tanto lavoro e tanta solitudine, e come avesse cercato affetto e solidarietà in molte donne, ottenendone però solo abbandoni e delusioni. Di Pavese apprezzava soprattutto l’impegno civile che trasfondeva nella sua opera, dando origine al filone della letteratura ispirato alla Resistenza («da autentico engagé, si può credere che vedesse nell’arte anche una missione»), senza però i cedimenti retorici che caratterizzano parte della produzione di quegli anni.

Il «caso» Zanzara. Fa parte della serie di indagini condotte sotto la supervisione di Tobagi e del direttore l’inchiesta Che cosa pensano le ragazze di oggi? (febbraio 1966), che portò il giornale del Parini sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e di alcune autorevoli testate straniere («The New York Times», «Le Monde», «Le Figaro», «The Times»). L’articolo fu alla base di una vicenda che divise l’opinione pubblica e suscitò una mobilitazione studentesca senza precedenti, mettendo in rilievo quel divario fra i giovani e le istituzioni scolastiche che due anni dopo avrebbe assunto le più radicali forme della contestazione.

L’inchiesta, condotta sotto forma di «tavola rotonda» tra due redattori e nove ragazze, indagava sulla posizione della donna nella società moderna, esaminando i temi della formazione ricevuta (rapporti con i genitori, educazione sessuale), delle aspirazioni professionali, dell’atteggiamento nei confronti del sesso, del matrimonio e del divorzio. Le disinvolte affermazioni di alcune studentesse sottolineavano la loro difficoltà a sottrarsi a condizionamenti e sensi di colpa indotti dalla famiglia e dalla religione e denunciavano la «grave deficienza pedagogica della società, ed in particolare della scuola, nei confronti di questi problemi». Molte ragazze si dichiaravano favorevoli ai rapporti prematrimoniali, all’uso degli anticoncezionali e al divorzio, e vivevano la religione come apportatrice di complessi di colpa in campo sessuale; nel loro futuro non vedevano solo il matrimonio, ma la partecipazione attiva alla vita sociale, sia nel lavoro che nelle attività culturali.

La pubblicazione dell’articolo provocò la sdegnata reazione degli studenti cattolici di Gioventù Studentesca, il movimento fondato da don Giussani nel 1954, che con un volantino denunciarono «la gravità dell’offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune». Già da tempo i «giessini» stavano conducendo una battaglia contro le associazioni e i giornali d’istituto, accusati di celare, dietro la dichiarata neutralità, un chiaro orientamento ideologico e intenzioni politiche laiciste. Il loro dissenso venne raccolto dal «Corriere Lombardo», che dedicò alla vicenda un articolo dal titolo a sei colonne in cui si parlava di «pazzesche affermazioni di alcune studentesse» e di genitori sconvolti e scandalizzati, pronti a ritirare i figli dalla scuola e a sollecitare l’intervento delle autorità[6].


Seguirono le indagini della magistratura e l’anomalo interrogatorio del sostituto Procuratore della Repubblica Pasquale Carcasio che, riesumando una circolare fascista, pretese di sottoporre a ispezione corporale il direttore del giornale (Marco De Poli) e i curatori dell’inchiesta (Marco Sassano e Claudia Beltramo Ceppi, che però rifiutò di farsi visitare), allo scopo di «accertare eventuali tare fisiche o psichiche». Questa palese violazione della libertà personale, raccontata dalla stampa con dovizia di particolari e nota come lo «spogliarello» in Procura, provocò l’indignazione dell’opinione pubblica e di buona parte della stessa magistratura. Il Paese, diviso per quanto riguarda il contenuto dell’inchiesta, fu invece compatto nel condannare l’operato del magistrato (con l’eccezione del MSI) e, per la prima volta in Italia, formò un fronte compatto a difesa della Costituzione. Mentre i redattori ricevettero dimostrazioni di solidarietà da parte di studenti di tutta Italia, Ferruccio Parri definì il caso uno «scandalo di tipo borbonico» e numerosi appelli alle autorità furono sottoscritti da intellettuali e da cittadini comuni.


I tre ragazzi e il preside furono rinviati a giudizio per direttissima, con le imputazioni di stampa clandestina (per la mancata registrazione del giornale prescritta dalla legge) e immorale, in quanto l’inchiesta veniva giudicata «di contenuto idoneo a offendere il sentimento morale dei fanciulli e degli adolescenti e a costituire per essi un incitamento alla corruzione»; e si notava come si fosse discostata dalle finalità dichiarate, riducendosi a «una rassegna delle concezioni sessuali delle studentesse intervistate», riportate con «linguaggio crudo e spregiudicato». A formare il collegio di difesa erano i «principi del foro», i più noti avvocati italiani: Giacomo Delitala, Giandomenico Pisapia, Alberto Dall’Ora. Il processo, che si svolse alla presenza di un centinaio di giornalisti e persino di inviati speciali da Parigi, Vienna e Londra, si concluse con la piena assoluzione degli imputati perché i fatti non costituivano reato.


Al termine del processo il mondo studentesco era in fermento. Il «caso» ebbe come effetto immediato l’ulteriore radicalizzazione dello scontro tra GS e il movimento delle associazioni e dei giornali d’istituto, ma anche l’inasprimento dei controlli dei presidi sull’attività delle redazioni (anche «la Zanzara» fu, per la prima volta, censurata). Tobagi, che stava per finire il liceo, in veste di capo - redattore ebbe un importante ruolo di mediatore negli accesi dibattiti che fecero seguito alla vicenda, adoperandosi con serenità e tolleranza per conciliare le posizioni contrastanti.


Un giornalismo sul campo. Oltre alle doti di mediatore, nell’attività giovanile di Tobagi si rilevano alcuni tratti che sarebbero emersi chiaramente in seguito, nella sua collaborazione all’«Avanti!», a «l’Avvenire», al «Corriere d’Informazione» e infine al «Corriere della Sera».


Fin dagli anni de «la Zanzara» si dimostrò preparato su un’ampia varietà di campi e capace di appassionarsi a ogni tema che trattava: un eclettismo, questo, che gli avrebbe consentito di spaziare dalla politica estera alla cronaca, dai problemi dell’istruzione a quelli dell’informazione, dalla cultura allo sport, prima di canalizzare il suo interesse verso la politica, il terrorismo e i problemi sindacali.


Inoltre si nota già al liceo un modo maturo di fare informazione, basato sull’analisi dei fenomeni sul campo, ascoltando gli interessati e mai fidandosi del «sentito dire». Lo stesso approccio che avrebbe caratterizzato, qualche anno dopo, le sue inchieste sul terrorismo, finalizzate non solo a scoprire chi fossero i responsabili, ma anche a conoscerli, sforzandosi di capire il perché della loro violenza. E si sarebbe esposto in prima persona anche nelle sue analisi del movimento sindacale, andando in fabbrica e studiando l’ambiente di lavoro degli operai per avere chiari i motivi delle loro rivendicazioni. Anche nella tesi di laurea in storia discussa con Brunello Vigezzi avrebbe dimostrato attenzione per le fonti dirette strutturando la sua ricerca sui sindacati del secondo dopoguerra in due volumi, uno di analisi e teoria, l’altro interamente dedicato alle interviste.


Questa consapevolezza giornalistica emerge, al liceo, dall’articolo di denuncia delle condizioni di vita delle migliaia di immigrati meridionali che vivevano nell’hinterland milanese (Per tirare sera, gennaio 1965). Enormi «quartieri dormitorio», che non offrivano alcuna possibilità ricreativa e culturale, deserti di sera perché la stanchezza del lavoro toglieva agli abitanti il desiderio di vita associativa («E vanno a dormire, perché sono troppo stanchi. [...]  Nessuno fa niente. Neanche i partiti. Qualche festa ogni tanto. Ma è roba di poco. Io penso a me; tu pensi a te. [...] Ai giovani non pensa nessuno. Perché a Cusano la gente dorme»). Altro esempio di giornalismo sul campo è l’articolo scritto in occasione della visita al campo di concentramento di Dachau, quando avvicinò alcuni giovani operai per sapere cosa pensassero del passato del loro paese, della Germania attuale e delle prospettive di riunificazione (Non possiamo dimenticare, novembre 1965).


Alessandro Bortolotti ha scritto che «Tobagi non si è mai sentito un giornalista da ufficio stampa, ma un cronista lucido nella analisi dei fatti e della realtà vissuta che puntualmente ha ripetuto ai suoi lettori». E così è sempre stato, fin dal primo articolo che, non ancora quindicenne, scrisse per «la Zanzara».


Zucconi ha lasciato un ricordo tenero e straziante dell’amico, al quale era stato proprio lui a trasmettere, al liceo, «il vizio dell'inchiostro»: «io solo sapevo la verità sulla morte di Tobagi Walter: era morto per una decisione presa per gioco, per timidezza, per colpa mia, diciassette anni prima, in un'aula del Liceo Ginnasio Giuseppe Parini di Milano. [...] Io potevo continuare a giocare al giornalista. Tobagi, non più. Il gioco di carta l'aveva ucciso»


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da Tabloid n. 2 (febbraio)/2004





[1] R. Straglianò, Una Zanzara Analfabeta, in «l’Unità», 6 febbraio 1996.



[2] V. Zucconi, Morire per una Zanzara, in www.liceoparini.it



[3] V. Zucconi, Io, il direttore della Zanzara, in «la Repubblica», 30 aprile 2003.



[4] S. Magistretti, Parliamo con dei sordi, in «la Zanzara», marzo 1965, a. XIX, n. 4, p. 1.



[5] Redazione, Intenzioni, in  «la Zanzara», novembre 1961, a. XVI, n. 1, p. 1



[6] M. Refini, Suscita scandalo al «Parini» un’inchiesta pubblicata sul giornale degli studenti, in «Corriere Lombardo», 22 febbraio 1966, p. 3.





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