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Vademecum del
cronista e dell’inviato

Sei sentenze della
Cassazione penale
sui limiti del diritto
di cronaca e di critica


L’OCCULTAMENTO DI FATTI SIGNIFICATIVI PUO’ ATTRIBUIRE PORTATA DIFFAMATORIA ALLA CRONACA GIORNALISTICA in quanto altera la verità (Cassazione Sezione Terza Civile n. 11259 del 16 maggio 2007, Pres. Preden, Rel. Filadoro).


Il giudizio di liceità della cronaca non può limitarsi ad una valutazione degli elementi formali ed estrinseci, ma deve estendersi anche ad un esame dell’uso di espedienti stilistici, che possono trasmettere ai lettori, anche al di là di una formale – ed apparente – correttezza espositiva, giudizi negativi sulla persona che si mira a mettere in cattiva luce.


Ogni accostamento di notizie vere è lecito, se esso non produce un ulteriore significato che le trascenda e che abbia autonoma attitudine lesiva. Sul giornalista grava l’onere – anche processuale – di dimostrare la bontà del metodo di lavoro usato, la diligenza approntata, la attendibilità delle fonti utilizzate. E’ legittimo l’esercizio del diritto di cronaca quando sia riportata la verità oggettiva (o anche solo putativa) purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca dei fatti esposti, che non può ritenersi rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato.


 


IL DIRITTO DI CRONACA NON E’ CORRETTAMENTE ESERCITATO SE SI TACCIONO CIRCOSTANZE RILEVANTI  che possano mutare il significato dei fatti riferiti (Cassazione Sezione Terza Civile n. 6973 del 22 marzo 2007, Pres. Fiduccia, Rel. Marrone).


Il diritto di cronaca (e di critica) è la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti, anche lesivi della reputazione, sancito in linea di principio dall’art. 21 Cost. e regolato dalla L. 8 febbraio 1948 n. 47. Esso è considerato legittimamente esercitato dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità quando ricorrano le seguenti condizioni: a) utilità sociale dell’informazione; b) verità (oggettiva o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti, che non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche solo colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente collegati ai primi da mutarne completamente il significato; c) forma civile dell’esposizione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da perseguire, improntata a serena obiettività, almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui tutti hanno diritto (continenza).


 


LA CRITICA SI DISTINGUE DALL’INSULTO PERCHE’ E’ ARGOMENTATA e non deve trascendere in attacchi personali


(Cassazione Sezione Quinta Penale n. 11662 del 20 marzo 2007, Pres. Pizzuti, Rel. Fumo).


Ciò che distingue la critica dall’invettiva (o dall’insulto) è il fatto che la prima è argomentata, il secondo è gratuito. Per ritenersi validamente (e non solo formalmente) argomentato, un giudizio critico deve essere corredato da una “spiegazione” che renda manifesta al destinatario del messaggio la ragione della censura. Come è ovvio, non è necessario che tale destinatario (e, dunque, l’interprete e, dunque, il giudicante) condivida l’iter argomentativo e/o le conclusioni del criticante, essendo sufficiente che l’uno e le altre presentino un carattere minimo di logicità e non contrastino col senso comune.


Insomma il diritto di critica presuppone un contenuto di veridicità limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse, essendo poi l’agente libero, entro i limiti sopra indicati, di trarre le conclusioni che ritiene corrette.L’esimente del diritto di critica è senza dubbio configurabile quando il discorso giornalistico abbia un contenuto prevalentemente valutativo e si sviluppi nell’alveo di una polemica intensa e dichiarata, su temi di rilevanza sociale, senza trascendere in attacchi personali, finalizzati all’unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, non richiedendosi neppure – a differenza di quanto si verifica con riguardo al diritto di cronaca – che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo ed il profilo essenziale di questi non siano strumentalmente travisati e manipolati.


 


LA CRITICA DEVE ESSERE RIFERITA A FATTI DI PUBBLICO INTERESSE REALMENTE ACCADUTI perché all’autore possa essere riconosciuta l’esimente dell’esercizio di un diritto


 (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 7662 del 23 febbraio 2007, Pres. Foscarini, Rel. Didone).


L’esimente del diritto di critica può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi che di per sé sarebbero diffamatori, tesi a stigmatizzare un comportamento realmente tenuto dal personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per la critica. Il diritto di cronaca e quello di critica, invero, si differenziano essenzialmente perché per l’esercizio di quest’ultimo il limite della continenza è assai meno rigido, mentre non è vero che gli altri presupposti richiesti per riconoscere l’esimente di cui all’articolo 51 c.p. – la verità del fatto attribuito e l’interesse pubblico al fatto narrato e/o criticato – siano diversi per i due diritti. La critica si articola in due momenti logici che vanno tenuti ben distinti; il primo è caratterizzato dalla esposizione del fatto attribuito all’uomo politico, il secondo dalle critiche che alle parole pronunciate o ai comportamenti assunti dalla persona oggetto di attenzione vengono rivolte. Non vi può essere alcun dubbio che il fatto che costituisce il presupposto delle espressioni critiche debba essere vero, perché non può essere assolutamente consentito attribuire ad una persona comportamenti mai tenuti o frasi mai pronunciate e poi esporlo a critica come se quelle parole e quei fatti fossero davvero a lui attribuibili. Quindi in ordine alla verità del fatto che costituisce il presupposto della critica non è ravvisabile nessuna differenza apprezzabile tra l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, dal momento che entrambe le esimenti richiedono la verità del fatto, e le modalità espressive – continenza – del concreto esercizio dei due diritti. E’ certamente vero che la verità assoluta non esiste e che la realtà non può essere percepita in modo differente; cosicché può accadere che due narrazioni dello stesso fatto presentino delle divergenze, talvolta anche marcate, perché ciascuno può dare risalto ad aspetti specifici dello stesso accadimento, determinando così percezioni e, quindi, conseguenti valutazioni differenti. Ma ciò non può accadere per specifici comportamenti attribuiti ad una persona.


 


L’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI CRITICA DEVE ESSERE ACCOMPAGNATO DA CONGRUA MOTIVAZIONE DEL GIUDIZIO DI DISVALORE  perché la lesione della reputazione non sia punibile.


(Cassazione Sezione Terza n. 27141del 19 dicembre 2006, Pres. Fiduccia, Rel. Bisogni).
  Il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio, o, più genericamente, in una opinione, la quale, come tale, non può che essere fondata su un’interpretazione dei fatti e dei comportamenti e quindi non può che essere soggettiva, cioè corrispondere al punto di vista di chi la manifesta, fermo restando che il fatto o comportamento presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca. Il diritto di critica, inoltre, non diversamente da quello di cronaca, è condizionato, quanto alla legittimità del suo esercizio, dal limite della continenza, sia sotto l’aspetto della correttezza formale dell’esposizione, sia sotto quello sostanziale della non eccedenza dei limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse, e dov’essere accompagnato da congrua motivazione del giudizio di disvalore incidente sull’onore o la reputazione. Tuttavia, allorquando la narrazione di determinati fatti, per essere esposta insieme ad opinioni dell’autore, rappresenti nel contempo esercizio del diritto di cronaca e di quello di critica, la valutazione di continenza non può essere condotta sulla base degli indicati criteri di natura essenzialmente formale, ma deve lasciare spazio alla interpretazione soggettiva dei fatti esposti, in modo che la critica non può ritenersi sempre vietata quando sia idonea ad offendere la reputazione individuale, essendo, invece, decisivo, ai fini del riconoscimento dell’esimente, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, il quale è ravvisabile nella pertinenza della critica di cui si tratta all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza del fatto oggetto della critica.


 


UNA PERSONA PUO’ RITENERSI DIFFAMATA A MEZZO STAMPA ANCHE SE IL SUO NOME NON E’ ESPRESSAMENTE MENZIONATO NELL’ARTICOLO. L’identificazione può desumersi dalle circostanze narrate. (Cassazione Sezione Terza Civile n. 17180 del 6 agosto 2007, Pres. Nicastro, Rel. Spirito).
La diffamazione a mezzo stampa di una persona può ritenersi sussistente anche se il suo nome non è esplicitamente menzionato nell’articolo. La sua individuazione si verifica, in assenza di un esplicito e nominativo richiamo, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente gli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, di guisa che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca individuazione dell’offeso.


(fonte: www.legge-e-giustizia.it)     





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