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SULLA GIURIDICITA’
DELLE REGOLE
DEONTOLOGICHE

di REMO DANOVI.
avvocato in Milano

1. “Fonti del diritto e autonomia privata” è il titolo di un articolo recente di N. LIPARI (in Riv. dir. civ. 2007, I, 727), che suggerisce feconde riflessioni sugli atti della autonomia privata, sulla discutibile riconducibilità degli stessi al modello della pluralità degli ordinamenti, e più ampiamente sul loro inserimento nel sistema delle fonti. Con una conclusione riferita alle disposizioni dei codici deontologici che - secondo quanto riferito - sarebbero ritenute dalla giurisprudenza “non assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 disp. prel. c.c., ma solo ai canoni ermeneutici propri dell’attività contrattuale”.


In verità non è questo l’orientamento della Corte di Cassazione, per quanto in particolare riguarda le regole deontologiche dell’avvocatura, ed è importante precisarlo, per le tante conseguenze che ne derivano.


2. In effetti, un primo orientamento c.d. “tradizionale” collocava le regole deontologiche tra le norme pattizie. Non parliamo tanto delle decisioni anteriori alla codificazione del 1997 (decisioni che pure avevano “salvato” il sistema deontologico accontentandosi - in mancanza di tipizzazione - di una riferibilità “alla coscienza sociale e all’etica professionale in un dato momento storico”), ma di alcune decisioni più recenti (ad esempio, Cass., sez. un., 10 luglio 2003, n. 10842, e Cass., sez. un., 3 maggio 2005, n. 9097), secondo le quali, nel procedimento disciplinare, non occorreva la precisazione delle fonti di prova da utilizzare né la individuazione delle precise norme deontologiche che si assumono violate, “dato che la predeterminazione e la certezza della incolpazione può ricollegarsi a  concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività”; e in ogni caso le regole deontologiche sarebbero espressione di un potere di normazione secondaria, spettante a una autorità non statuale, “a forma libera”, con esclusione di qualsiasi lesione del principio di legalità; le stesse  andrebbero intese come regole pattizie non aventi natura di norme di legge e non sarebbero assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi.


            In particolare, nella prima delle decisioni richiamate (Cass., sez. un., 10 luglio 2003, n. 10842, nella motivazione), la Corte ha affermato che “le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini professionali, se non recepite direttamente da una norma di legge (ad esempio in materia di segreto professionale, tutelato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria), non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi, ma sono espressione dei poteri di autorganizzazione degli ordini (o collegi) sì da ripetere la loro autorità - come evidenziato in dottrina - oltre che da consuetudini professionali anche da norme che i suddetti ordini (o collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare. Alla stregua di quanto ora detto, quindi, le suddette disposizioni vanno interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici fissati dagli artt. 1363 e ss. c.p.c.”.


            Secondo questa tesi, dunque, l’interpretazione della norma sarebbe una quaestio facti perchè ha per oggetto la comune intenzione delle parti, con l’ulteriore conseguenza che il ricorso per cassazione - ad esempio - si potrebbe proporre anche per vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. (ferma restando la possibilità di denunciare una violazione di legge nel caso di totale mancanza o mera apparenza della motivazione).


            E’ questo l’orientamento più “tradizionale”, perché appunto ancorato ad argomentazioni ripetute e costanti, risalenti nel tempo, tendenti a privilegiare la soggettività dei precetti etici (e quindi sostanzialmente ancora la loro “vaghezza”).


 


3. Di fronte a questo scenario, per lungo tempo la giurisprudenza non ha preso posizione, finché in una coraggiosa decisione del 2002, per la prima volta, la Cassazione ha affermato recisamente che “le norme del codice deontologico approvate dal Consiglio nazionale forense il 17 aprile 1997 si qualificano come norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria” (Cass., sez. un., 6 giugno 2002, n. 8225, in Rass. forense, 2003, 130, con nostra nota di commento).


            Ed infatti - spiega la Corte - spetta agli ordini professionali (“enti esponenziali della categoria”) sia il potere di applicare le sanzioni previste dalla legge, sia la funzione di produzione normativa all’interno della categoria, attraverso l’enunciazione delle regole di condotta che i singoli iscritti sono tenuti a osservare nello svolgimento dell’attività professionale (così come anche precisato da Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 762). E in questa prospettiva le norme del codice deontologico si qualificano come “norme giuridiche vincolanti” perchè trovano appunto fondamento nei principi dettati dalla legge professionale forense (artt. 12 e 38).


            Ed ancora la sentenza distingue esattamente le regole deontologiche dai canoni complementari (questi ultimi intesi atipizzare, nella misura del possibile, comportamenti nei rapporti con i colleghi, con la parte assistita, con la controparte, i magistrati e i terzi desunti dalla esperienza di settore e dalla stessa giurisprudenza disciplinare, costituenti a loro volta mere esplicitazioni delle regole generali”), e conclude riconoscendo l’importanza della disposizione finale (l’art. 60 del codice deontologico che, nel chiarire che le previsioni specifiche del codice costituiscono esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali espressi, si pone come norma di chiusura e integrativa dell’intero testo).


            Successivamente questi concetti sono stati ripresi in alcune decisioni del 2004, con le quali è stato affermato che questo è l’indirizzo “che si va delineando” nella giurisprudenza della Corte (così Cass., sez. un., 23 marzo 2004, n. 5776, secondo cui “nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici degli ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti agli albi, ma che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare”).


             E negli stessi termini si è pronunciata Cass. 14 luglio 2004, n. 13078 (con riferimento alla deontologia dei geometri), secondo cui la norma deontologica assume il rango di norma di diritto: “ne consegue che l’interpretazione della norma appartenente al codice deontologico costituisce una quaestio iuris, come tale prospettabile dinanzi al giudice di legittimità come violazione di legge, e non una quaestio facti, in ordine alla cui soluzione il sindacato della cassazione è limitato al controllo sull’esistenza e la legalità della motivazione”.


            Ovviamente le conseguenze sono importanti: la qualificazione giuridica delle norme deontologiche le rende assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 delle preleggi e consente il ricorso in cassazione per violazione di legge.


 


4. Tali essendo i contrapposti indirizzi va dato merito alla Cassazione di essere intervenuta con una decisione risolutiva (Cass., sez. un., 20 dicembre 2007, n. 26810), per dirimere il contrasto esistente.


            La decisione richiama i due opposti orientamenti e le varie motivazioni che li hanno sorretti per concludere in favore del secondo orientamento (che attesta la giuridicità delle norme deontologiche), preferibile per una serie dettagliata di ragioni: il Consiglio nazionale forense è un organo giurisdizionale; il giudizio avanti il Consiglio nazionale forense “si conclude con sentenza, pronunciata in nome del Popolo Italiano”; è la legge dello Stato che delega al Consiglio il potere normativo; le norme deontologiche sono la risultante di un processo di formazione legislativa e “assumono così, per volontà del legislatore, una funzione integrativa della norma legislativa in bianco”.


La Corte enuncia quindi il principio di diritto cui attenersi ex art. 384 c.p.c.: “le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente dalla corte di legittimità”.


 


5. La conclusione della Corte è estremamente importante, e conferma quanto da noi sempre sostenuto, fin da una prima relazione a Catania nel 1985 (pubblicata in Rass. forense, 1985, 471, e nel volume Saggi sulla deontologia e professione forense, Milano, 1987, 29).


Scrivevamo infatti, fin da allora, che “le norme deontologiche sono da ritenere norme giuridiche nell’ambito dell’ordinamento professionale”, poiché trovano il loro fondamento nell’art. 38 della legge professionale; e fin da allora ritenevamo che il sistema deontologico (la codificazione) dovesse essere derivato dalla giurisprudenza disciplinare, attraverso un procedimento induttivo dettagliatamente descritto. Se infatti la legge consente al Consiglio nazionale di sanzionare i comportamenti violatori dei  principi, spetta allo stesso Consiglio nazionale di identificare i principi la cui violazione comporta appunto la sanzione (e per altri richiami ci permettiamo di rinviare al nostro Corso di ordinamento forense e deontologia, Milano, 1989, 1ª ed., 224, e ora 2008, 8ª ed., 264, e al nostro Il procedimento disciplinare nella professione di avvocato, Milano, 2005, 8).


 


6. La conclusione della Corte di Cassazione permette anche di formulare alcune riflessioni più ampie.


            Se infatti spetta al Consiglio nazionale forense “il processo formativo del precetto legislativo”, è inevitabile affermare che il Consiglio nazionale forense deve far uso di tale prerogativa, integrando la norma legislativa prevista dall’art. 38 l.p.f., nel modo più corretto possibile anche sotto il profilo della tecnica legislativa (soprattutto in occasione delle modifiche che vengono di volta in volta approvate).


            Così, ad esempio, non mi sembra apprezzabile che nella recente modifica dell’art. 45 del codice deontologico (delibera C.N.F., 18 gennaio 2007) sia stata affermata la possibilità di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, ma con la precisazione che rimane “fermo il divieto dell’art. 1261 c.c.”. Non si capisce, infatti, quale significato abbia, in una codificazione deontologica, il (superstite) richiamo a un singolo articolo del codice civile, che non riguarda neppure i rapporti con la parte assistita, e tanto più se si considera che il comportamento violatore di una specifica norma di legge potrebbe essere sempre sanzionato attraverso il richiamo ad altri principi deontologici (l’art. 5, ad esempio).


            Così, ugualmente, non mi sembra apprezzabile la modifica intervenuta sempre il 18 gennaio 2007 all’art. 17-bis (sulla pubblicità), con l’indicazione di una serie di elementi descrittivi (“l’avvocato può indicare”...) che sono estranei a un qualsiasi precetto, tanto più dopo il recente intervento normativo.


 


7. In effetti, i rilievi che precedono ripropongono il problema del rapporto tra norma deontologica e norma di legge, su cui possiamo limitarci a richiamare quanto abbiamo più volte scritto (ad esempio, in Prev. forense, 2007, 116, e nel Codice deontologico forense - Trattato pratico, Milano, 2006, 3° ed., 766).


            A nostro avviso, infatti, e lo abbiamo sempre sostenuto, non è impedito al legislatore di dettare regole che abbiano una valenza deontologica (il legislatore lo ha fatto, ad esempio, in materia di indagini difensive, precisando che la violazione di alcune disposizioni “costituisce illecito disciplinare”, e ancora lo ha fatto con la normativa relativa agli obblighi previdenziali e fiscali e con la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato); ma ciò non costituisce lesione delle prerogative degli organi professionali, perché, al contrario, la legge finisce per sottolineare la positività e giuridicità dell’ordinamento deontologico, tanto più che l’individuazione dei precetti è rafforzativa del ruolo dell’ordine forense, a cui spetta sempre la competenza e l’autonomia per valutare e sanzionare disciplinarmente il comportamento attuato.


            D’altro lato, quando il legislatore affida agli organi professionali il compito di adeguare le norme deontologiche alle nuove prescrizioni legislative (come è avvenuto formalmente con la legge sulle liberalizzazioni, nel termine concesso fino al 31 dicembre 2006), ancora una volta a me sembra che non vi sia una mortificazione delle prerogative spettanti agli stessi ordini professionali, perché anche in questo caso viene riconosciuta la loro potestà disciplinare, fermo il principio che le nome deontologiche possono regolare ma non negare diritti che la legge espressamente intende riconoscere.


Ne viene allora la conclusione che è del tutto ragionevole che vi sia una corrispondenza o complementarietà tra legge e deontologia, sia per quanto riguarda le norme sostanziali, sia per quanto riguarda le regole processuali; ed anzi, sotto quest’ultimo profilo, è certo che la deontologia può integrare il contenuto delle norme (si pensi all’art. 88 o all’art. 96 c.p.c. o all’art. 116 c.p.c.), e quindi essa diventa “parte attiva nella stessa identificazione dei comportamenti da tenere nell’ambito del processo (si veda più diffusamente, sul punto, quanto da noi scritto in Diritto forense e law of lawyering nel processo, in Riv. dir. proc. 1994, 504, e nel volume La giustizia in parcheggio, Milano, 1996, 69).


 


8. Ma ancora. Poiché spetta al Consiglio nazionale forense (e solo al Consiglio nazionale forense) di esercitare la potestà disciplinare, e quindi di provvedere al processo formativo delle norme, a me sembra conseguenziale dire che il Consiglio nazionale forense può certamente elaborare norme di condotta insieme con altre associazioni per più ampiamente documentare la volontà comune dell’avvocatura, ma non può presentare tali norme (addirittura indicandole nella autosufficienza di un “codice di condotta”) condividendone la paternità (o consentendone la condivisione) anche con altri soggetti ai quali non compete la potestà disciplinare.


            Alludiamo, sotto questo profilo, al “Codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali (privacy)”, che è stato redatto congiuntamente (a quanto è riferito in un comunicato dell’O.U.A. del 14 aprile 2008) da C.N.F., O.U.A., AIGA, UCPI, UNCC, UAE, riuniti in un tavolo di lavoro comune, ed è stato poi sottoposto al Garante per la protezione dei dati personali. E il Garante ha pubblicato tale “schema preliminare del codice” in data 20 marzo 2008, dando termine fino al 30 aprile per eventuali ulteriori osservazioni.


            Ancorché poi l’Autorità Garante abbia scritto nel preambolo che le regole enunciate sono prive di diretta “rilevanza sul piano degli illeciti disciplinari”, a me sembra che la potestà disciplinare riconosciuta dalla legge (cioè la potestà di sanzionare, ma anche la potestà di individuare le regole di condotta) sia un valore essenziale, non delegabile o frazionabile, e debba quindi essere sempre legittimamente e autonomamente esercitata dal Consiglio nazionale forense per l’efficacia della stessa normativa (e per la necessità di evitare anche confuse sovrapposizioni).


 


9. Le considerazioni che precedono valgono, a mio avviso, e più in generale, per riaffermare l’idea che, nella materia deontologica, il Consiglio nazionale forense debba esprimersi sempre in assoluta autonomia, nell’ambito dei poteri riconosciuti dalla legge.


            Tale autonomia non viene meno, ad esempio, per il fatto che in ambito europeo esiste un “Codice di deontologia degli avvocati europei”, perché tale codice è frutto dell’attività delle delegazioni dei vari paesi europei riuniti nel C.C.B.E. (e la delegazione italiana non si identifica con il Consiglio nazionale), e per di più esso è destinato a regolamentare i soli comportamenti transfrontalieri, senza sostanziali possibilità  sanzionatorie.


            E ancorché poi il C.C.B.E. abbia formulato più volte l’augurio (ovvero, abbia espresso l’ambizioso progetto) che il codice europeo possa proporsi come codice deontologico interno di ogni singolo Stato, è necessario considerare che occorre pur sempre un atto interno da parte di ciascuno degli organismi competenti per recepire e introdurre tali norme.


            Ciò significa anche che eventuali iniziative che fossero intraprese dal Consiglio nazionale forense per creare piattaforme comuni con i Consigli nazionali di altri Stati (come sembra stia avvenendo tra i Consigli nazionali di Francia, Spagna e Italia) dovrebbero essere oggetto di grande attenzione.


            Infatti un “codice di deontologia” che riunisse alcuni dei principi comuni (l’indipendenza, il segreto professionale, il conflitto di interessi, la pubblicità), e consentisse la possibilità di ulteriori modifiche solo di comune accordo con gli altri paesi firmatari, sarebbe poco comprensibile e difficilmente giustificabile perché lesivo della potestà disciplinare.


            E tanto maggiore poi sarebbe il giudizio negativo se il codice deontologico comune avesse (rectius, dichiarasse di avere) forza normativa interna, ponesse autolimitazioni alla possibilità di introdurre modifiche ed enunciasse principi meramente descrittivi, creando infine difficoltà di adattamento e interferenze tra norme interne e norme comuni.


            Una attenta meditazione su questi temi sarebbe certamente auspicabile.


 


10. Ferme queste riflessioni, ulteriori problemi sarebbe interessante discutere, ad esempio, sulla responsabilità civile derivante dalla violazione delle regole deontologiche (una responsabilità che in effetti comincia ad affermarsi, in termini contrattuali ed extracontrattuali, con il riconoscimento dell’esistenza di una “colpa” e di un “danno ingiusto”).


            Ma questo potrà essere oggetto di ulteriori approfondimenti. E’ importante per ora concludere nel senso di riconoscere che i problemi si possono risolvere partendo dalla concezione della potestà disciplinare e dalla riconosciuta oggettività e giuridicità delle norme deontologiche. Sono questi ormai i punti di riferimento che debbono essere presi in esame per valorizzare e rafforzare il contributo positivo che il Consiglio nazionale forense può dare per il miglioramento dell’attività professionale e per la realizzazione della giustizia.


 


(REMO DANOVI)





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