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Diffamazione tramite mass-media/
Reclusione: nel 13% dei casi in I grado
e soltanto nel 9,6% dei casi nel II grado


di Sabrina Peron e Emilio Galbiati, avvocati in Milano


 Per conto del Consiglio Regionale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, abbiamo svolto un’attività di ricerca ed analisi sulle sentenze rese dal Foro di Milano nel biennio 2001-2002 in materia di diffamazione a mezzo mass-media.


I risultati dell’indagine sono stati pubblicati nei “I Dossier di Tabloid”, in allegato a Ordine Tabloid numeri  7-8/2003 (Tribunale penale), 12/2003 (Tribunale civile); 6/2004 (Corte d’Appello civile) 9-10/2004 (Corte d’Appello Penale).


In considerazione della notevole attualità della materia, oggetto non solo di articoli di cronaca e di critica sulle colonne dei più autorevoli giornali italiani, ma anche, in sede legislativa, di ampie discussioni in prospettiva di una più volte annunciata riforma normativa (si ricorda che attualmente è all’esame della Camera dei deputati il testo unificato elaborato in data 30.07.2004 dalla II Commissione Giustizia), ci è sembrato opportuno tentare una sintesi e, nei limiti del possibile, un’interpretazione dei dati statistici più rilevanti emersi nelle citate relazioni.


A tale proposito, vengono in evidenza i seguenti dati:


Ø             la tempistica ed in particolare l’arco temporale che intercorre tra la pubblicazione della notizia ed il deposito delle sentenze di primo e secondo grado;


Ø             il foro competente nei giudizi di primo grado;


Ø             la percentuale di condanne in sede civile e penale;


Ø             la tipologia e l’entità delle condanne in sede civile;


Ø             la tipologia e l’entità delle condanne in sede penale.


A.- La tempistica


Tra il momento in cui viene posta in essere la condotta diffamatoria (corrispondente alla data di pubblicazione della notizia) e la conclusione del giudizio di primo grado, con il deposito della sentenza, trascorrono in media 1.718 giorni (pari ad oltre 4 anni e 9 mesi) nel caso di procedimento penale e 1.816 giorni (pari a oltre 5 anni) nel caso di procedimento civile.


Qualora venga proposta impugnazione avverso la sentenza di prime cure, l’arco temporale intercorrente tra il fatto e la conclusione del giudizio di secondo grado si estende, per il procedimento penale, fino ad una media di 2.488 giorni (pari a circa 6 anni e 10 mesi) e, per il procedimento civile fino ad una media di 2.538 giorni (pari a quasi 7 anni).


La reazione giudiziale trova dunque attuazione molto tempo dopo la realizzazione dell’evento lesivo e, per ciò solo, rischia di rivelarsi sproporzionata sia (in difetto) rispetto alle esigenze di tutela dell’eventuale danneggiato, sia (in eccesso) rispetto alle esigenze di controllo e repressione da parte della Pubblica Autorità.


Sul punto si osserva che il progetto di riforma, proprio per la sua specificità settoriale, non può prevedere interventi strutturali per fronteggiare l’endemico problema della lunghezza dei tempi processuali.


Nel progetto di legge, va peraltro segnalato l’art. 1, comma 3, che integra la L. 47/1948 introducendo l’art. 11-bis, al cui comma  3, è previsto, per l’azione civile di risarcimento del danno, un termine di prescrizione breve di un «anno dalla pubblicazione».


Tale modifica, probabilmente dettata dal fine di imporre al soggetto leso una reazione immediata, non appare però coordinata con le disposizioni di cui all’art. 2947, 3° comma, c.c. (secondo cui  “se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile”) che mantengono la loro vigenza.


A tale proposito, l’effetto acceleratorio che pare perseguito dal legislatore, può dirsi in parte conseguito solo attraverso il nuovo regime sanzionatorio proposto per il reato di diffamazione (su cui infra) che non prevede più la pena della reclusione, ma la sola pena della multa. Qualora la venisse approvato il progetto di riforma, il termine di  prescrizione dell’azione civile – a mente dell’art. 157, 1° comma, n. 4 c.p. – sarebbe, dunque, di cinque anni.


B.- Il Foro competente in primo grado


Attraverso la disamina delle sentenze rese dalla Corte d’Appello Civile e Penale di Milano, abbiamo potuto enucleare il dato relativo alla ripartizione territoriale dei giudizi di primo grado, tra i diversi Tribunali della circoscrizione.


A tale proposito, ci pare significativo sottolineare che la stragrande maggioranza dei giudizi di primo grado in materia sono stati celebrati avanti i Tribunali di Milano e di Monza.


In particolare,


Ø      il 52% dei procedimenti penali si è svolto a Monza ed il 40% a Milano (solo l’8% è stato trattato avanti ad altri Tribunali);


Ø      l’86% dei procedimenti civili si è svolto a Milano ed il 4% a Monza (solo il 10% è stato trattato avanti ad altri Tribunali).


I dati sopra riportati, da un lato rispecchiano la distribuzione territoriale dei centri di stampa delle testate giornalistiche, la cui sede si trova per lo più in grandi centri metropolitani (Milano) o comunque il località limitrofe (Monza), dall’altro rivelano come i Tribunali che, in forza della citata localizzazione dei centri di stampa, si occupano di diffamazione a mezzo stampa, abbiano potuto de facto sviluppare una certa “specializzazione” in materia.


In altri termini, accade piuttosto raramente (meno del 10% dei casi) che la fattispecie della diffamazione a mezzo stampa venga trattata da giudici per i quali l’argomento costituisca solo occasionalmente oggetto di giudizio: la maggior parte dei giudici che trattano cause di diffamazione a mezzo stampa, lo fa nell’ambito di una pratica costante della materia, grazie alla quale ha sviluppato un elevato grado di sensibilità in ordine alle tematiche che investono la libertà della manifestazione del pensiero.


 


C.- La percentuale delle sentenze di condanna


Per quanto concerne i dati relativi all’esito dei procedimenti in materia di diffamazione a mezzo stampa, i risultati registrati appaiono certamente significativi.


In sede penale anzitutto, la percentuale delle condanne in primo grado è stata pari al 52%: in secondo grado invece le condanne sono risultate pari complessivamente al 33,52% (per meglio valutare questo dato, comprensivo sia delle pronunzie di conferma, sia delle pronunzie di riforma, si consideri che ben il 38% dei procedimenti penali di secondo grado si concludono con sentenze di improcedibilità per avvenuta rimessione della querela, intervenuta prescrizione del reato o morte dell’imputato).


In sede civile, la percentuale delle condanne in primo grado è stata pari al 57%: in secondo grado le sentenze di condanna (complessivamente intese, vale a dire a seguito sia di accoglimento, sia di rigetto dell’appello) sono state pari al 50%.


Nel complesso dunque, all’esito dei procedimenti di merito civili e soprattutto penali, in materia di diffamazione a mezzo stampa, la condanna del giornalista o del direttore responsabile non può dirsi risultato scontato o comunque prevalente e ciò a riprova, sia di consapevolezza e professionalità maturate dai giornalisti, sia di imparzialità e di perizia consolidate nei giudici.


 


D.- La tipologia e l’entità delle condanne in sede civile


Al fine di poter meglio approfondire le modalità ed il grado della reazione dell’ordinamento, a fronte di fattispecie di accertata diffamazione a mezzo stampa, esaminiamo anzitutto quale tipo di tutela e riparazione vengano riconosciute in sede civile a favore del danneggiato.


A tale proposito, vengono in rilievo sia i dati relativi ai procedimenti civili in senso stretto, sia quelli delle pronunzie penali contenenti provvedimenti di condanna a favore della parte civile.


Giova in primo luogo ricordare in quali termini i presunti danneggiati abbiano formulato le proprie  pretese risarcitorie:


·    la misura media dei danni di cui è stata chiesta riparazione è pari a €.173.241,21 nei procedimenti civili e ad €.744.326,44 nei procedimenti penali;


·    la misura media della sanzione civile di cui è stata fatta richiesta ex art.12 L.S. è pari a €.25.474,10 nei procedimenti civili e €.245.229,72 nei procedimenti penali;


·    la richiesta di pubblicazione della sentenza, quale modalità di riparazione del danno in forma specifica, è stata avanzata nel 31% dei procedimenti civili e nel 53% dei procedimenti penali.


A fronte di tali cospicue pretese risarcitorie, gli importi liquidati nelle pronunzie di merito in esame appaiono drasticamente ridotti.


 


Difatti, la misura media dei danni liquidati:


Ø      in sede civile è di €.15.403,73 in I grado (con un massimo per singolo danneggiato di €.46.481,12) e di €.17.606,49 in  II grado (con un massimo di €.36.151,98)


Ø      in sede penale è di €.23.211,13 in I grado (con un massimo di €.41.316,55) e di €.12.744,40 in II grado (con un massimo di €.20.658,28).


 


La misura media della sanzione civile comminata:


Ø      in sede civile è di €. 4.172,26 in I grado (con un massimo per singolo danneggiato di €.18.075,99) e di €.2.324,06 in II grado (con un massimo di €.15.493,70);


Ø      in sede penale è di €.5.550,45 in  I grado (con un massimo di €.10.329,14) e di €.2.194,40 in II grado (con un massimo di €.2.582,28).


 


Si noti infine che le pronunzie di condanna in cui è stata disposta la pubblicazione della sentenza sono pari:


Ø      in sede civile al 30% in I grado ed al 34%  in II grado;


Ø      in sede penale al 62% in I grado ed al 45% in II grado.


 


Nel citato progetto di riforma sono state previste sia la limitazione del danno risarcibile, con il tetto massimo di € 30.000,00 (art. 1, comma 3), sia l’abrogazione della sanzione civile (art. 1, comma 5).


A fronte della preoccupazione, che sembra aver mosso il legislatore, di evitare che il rischio di risarcimenti spropositati possa costituire una limitazione alla libertà di stampa, le suddette misure, da un lato prestano il fianco a critiche addirittura sotto il profilo della loro incostituzionalità e dall’altro, alla luce dei dati sopra riportati, appaiono di fatto di scarsa utilità (se non aberranti in considerazione delle aumentate potenzialità lesive della diffusione di notizie diffamatorie anche attraverso i mass-media presenti on-line).


 


 


E.- La tipologia e l’entità delle condanne in sede penale


Da ultimo, devono prendersi in esame i provvedimenti di condanna assunti in sede penale.


 


Giova premettere che, in caso di diffamazione a mezzo stampa,


Ø      ai sensi dell’art. 595, 3° comma, c.p., è prevista la pena edittale della reclusione da sei mesi a tre anni o, in alternativa, della multa non inferiore a € 516,46;


Ø      qualora la diffamazione a mezzo stampa consista nell’attribuzione di un fatto determinato, ai sensi dell’art. 13 L.S. (come richiamato anche dall’art. 30 L. 06.08.1990, n. 223, sul sistema radiotelevisivo), si applica la reclusione da uno a sei anni unitamente alla multa non inferiore a € 258,23.


Non va dimenticato che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 595 e 57 c.p., possono essere imputati del reato di diffamazione a mezzo stampa non solo l’autore della pubblicazione (ed eventualmente il soggetto che abbia rilasciato un’intervista), ma anche il direttore responsabile, che abbia omesso il controllo sulla pubblicazione: quest’ultimo, può essere punito con la pena prevista come sopra, diminuita in misura non eccedente un terzo (v. art. 57 c.p.).


Ciò posto, esaminiamo come siano state concretamente applicate tali sanzioni dai giudici di merito del Foro di Milano.


Anzitutto la reclusione è stata disposta:


Ø      all’esito dei giudizi di I grado, solo nel 13% dei casi di condanna (di cui il 4% unitamente alla multa)


Ø      all’esito dei giudizi di II grado, solo nel 9,6% dei casi di condanna (di cui il 2% unitamente alla multa).


Nell’87% delle sentenze di condanna in primo grado e nel 90,4% delle sentenze di condanna in secondo grado è stata comminata invece solo la multa.


 


Quanto all’entità delle sanzioni penali comminate sono stati riscontrati i seguenti risultati:


                                                           I grado                        II grado


- reclusione < 6 mesi                         80%                              80%


- reclusione > 6 mesi                         20%                              20%


- multa < €.1.000,00                          66%                            92,3%


- multa > €.1.000,00                          34%                              7,7%


Inoltre, la misura massima della reclusione comminata è stata pari a 12 mesi in I grado e ad 1 anno 4 mesi e 15 gg. in II grado.


In considerazione di questi elementi, riteniamo opportuno svolgere alcune osservazioni.


Sulla questione generale dell’applicabilità della pena detentiva (vale a dire della massima reazione punitiva prevista dall’ordinamento) per la commissione di reati c.d. di opinione, non possiamo che concordare con le numerose ed argomentate posizioni espresse da politici, giuristi e giornalisti, che hanno sostenuto la necessità di escludere per fattispecie diffamatorie una simile gravatoria sanzione.


Ciò posto, i dati raccolti consentono però di ridimensionare l’attualità del problema, quantomeno sotto il profilo della insussistenza di una presunta “emergenza carcere” per i giornalisti (tenuto conto anche del fatto che nella maggior parte dei casi di condanna trova applicazione l’istituto della sospensione condizionale della pena ex art. 166 c.p.).


La disciplina sanzionatoria delineata nel progetto di legge, prevede peraltro l’eliminazione della pena detentiva (sostituita dalla sola multa), l’introduzione di pene accessorie in caso di recidiva (quali l’interdizione dalla professione da uno a sei mesi e la pubblicazione della sentenza), nonché la trasmissione degli atti al competente ordine professionale: a nostro avviso, tale disciplina pur introducendo nuovi aspetti sanzionatori non appare correttamente bilanciata rispetto alla introducenda limitazione, nella misura massima di € 30.000,00 del risarcimento del danno a favore della persona offesa.


A tale ultimo proposito, si noti che il danneggiato è per lo più interessato ad ottenere la riparazione dell’eventuale danno e, quindi, l’azione penale viene generalmente proposta dal querelante solo per introdurre un elemento di pressione sul giornalista/direttore responsabile, sempre finalizzato al conseguimento del concreto obiettivo risarcitorio. Qualora venisse recepita la riforma come sopra descritta, il limite al risarcimento e l’introduzione di una pena accessoria con concreti effetti economici, da un lato, renderebbe l’azione civile priva di interesse concreto, mentre dall’altro, l’azione penale verrebbe percepita come l’unico strumento di reale pressione ai fini risarcitori.


Difatti, in assenza di limiti risarcitori e con una sanzione penale detentiva di scarsa applicazione, l’azione civile può avere il vantaggio di essere gestita direttamente dal danneggiato (senza i filtri dell’esercizio dell’azione da parte del P.M. e dell’ulteriore valutazione del G.I.P.) e di essere trattata  innanzi ad un giudice tendenzialmente più sensibile alla problematica risarcitoria; in presenza di  limiti risarcitori, invece, la prospettiva di poter ottenere una condanna che disponga, oltre alla multa, una sanzione per i recidivi, sotto forma di pena accessoria economicamente molto gravosa, indurrà i danneggiati ad introdurre sistematicamente l’azione penale, al fine di poter ottenere, in via transattiva, un risarcimento anche in misura superiore al limite di legge (ad esempio, in caso di azione penale, a fronte di un obbligo risarcitorio comunque predefinito nel limite massimo di €.30.000,00, il giornalista potrebbe essere esposto all’ulteriore rischio di una multa fino a €.10.000,00 e, se recidivo, di perdite economiche per inattività professionale fino a 6 mesi).


A corollario di quanto osservato, si noti inoltre che nell’ipotesi – piuttosto frequente – di campagna di stampa, in cui venissero pubblicati dalla medesima testata diversi articoli diffamatori nei confronti di un medesimo soggetto, questi – diversamente da quanto accade attualmente, ove si privilegia l’azione cumulativa – avrebbe sicuramente più interesse a proporre tante querele (o comunque tante azioni civili), quanti sono gli articoli in questione, così da ottenere una moltiplicazione delle condanne e, quindi, delle possibilità di risarcimento.


Ciò detto, a fronte del pericolo dell’esplosione delle querele (solo parzialmente temperato dalla previsione di eventuale condanna del querelante al pagamento di un’ammenda in caso di assoluzione) va anche evidenziato che, ai sensi dell’art.166 c.p. l’istituto della “sospensione condizionale della pena” si applica anche alle pene accessorie: in altri termini, in conseguenza della prospettata ridefinizione delle pene principali, con applicazione della sola multa fino a €.10,000,00, il rischio di concreta attuazione della pena accessoria della interdizione dalla professione, ricorrerebbe effettivamente, secondo l’art.135 c.p., solo a far tempo dalla terza pronuncia di condanna definitiva ed a condizione che le due precedenti multe siano state comminate nella misura massima e che la terza sia superiore ad €.7.753,00.


In conclusione, i dati raccolti all’esito dell’inchiesta svolta, appaiono suggerire agli scriventi che la delicata materia della diffamazione a mezzo mass-media, meriterebbe una rivisitazione complessiva ispirata dalla valutazione dei principi generali di tutela dei diritti costituzionali alla manifestazione del pensiero ed all’onore e alla reputazione – anche in prospettiva storico evolutiva – più che non dalla ricerca di soluzioni a problematiche economico-politiche di natura contingente, spesso sopravvalutate.


 





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