ROMA, 25 novembre 2014. Scoppia il caso delle superpensioni più alte dell’ultimo stipendio. Per circa 160 mila italiani, che guadagnano 200 mila euro e più, si prospettano nei prossimi anni assegni previdenziali più pesanti del 20 per cento rispetto all’ultima busta paga incassata. Una circostanza sorprendente per chi, dopo riforme e tagli di anni e anni, è abituato a contare su un assegno che oggi può arrivare al massimo al 70 per cento dell’ultimo stipendio percepito.
Il meccanismo è stato messo in moto dalla discussa riforma Fornero nel 2011 e ad accorgersene sono stati i tecnici del governo Renzi (oltre ad alcuni parlamentari della Lega e del centrodestra), decisi a modificare la norma che consente soprattutto a chi guadagna di più di portare a casa, se è disposto a continuare l’attività fino a 70 anni, una pensione più pesante dello stipendio. L’emendamento volto a modificare questo andazzo potrebbe essere presentato alla legge di Stabilità alla Camera o al Senato.
Oltre che sul piano dell’equità, la questione solleva criticità per i conti pubblici. Se il meccanismo dovesse continuare ad operare come è scritto nella legge Monti-Fornero nei prossimi dieci anni si avrebbe un aggravio sulle casse dello Stato e necessità per l’Inps pari a 1,5 miliardi. Solo per quest’anno il conto sarà di 2 milioni e arriverà nel 2023 a circa mezzo miliardo.
Come è potuto accadere? Per capirlo bisogna ritornare alla riforma Fornero: uno dei capisaldi in quell’epoca di emergenza era quello di limare l’effetto della progressione delle pensioni. Nel mirino finì il sistema retributivo, cioè quello in base al quale si va in pensione con la media degli ultimi stipendi che, fin dalla riforma Dini del 1994, fu ritenuto responsabile di una alta dinamica di spesa. Già dal 1996 infatti si era stabilito che tutti coloro che avevano meno di 18 anni di contributi sarebbero dovuti andare in pensione da allora, pro-rata, con il sistema contributivo (prendi solo quanto versi, a prescindere dall’ultimo stipendio); coloro che avevano invece più di 18 anni di contributi al tempo della riforma Dini mantennero il diritto integrale al retributivo. Molti di costoro avevano già una storia previdenziale consolidata e costosa: così Monti-Fornero decisero di stoppare il retributivo anche per questi soggetti a partire dal 2012 e di ricominciare il calcolo con il contributivo.
Contestualmente la legge Fornero aumentò l’età pensionabile fino a 70 anni dal 2012. L’idea era la seguente: con il contributivo l’ultima retribuzione non conta più, più lavori e più prendi, tanto più che potrai lavorare fino 70 anni. Inutile mantenere anche il vecchio tetto di 40 anni ai contributi (che garantiva una pensione pari all’80 per cento della retribuzione): meglio incoraggiare la gente a rimanere al lavoro con il contributivo e cumulare più risorse presso il conto-Inps.
Tuttavia se lo stipendio è rilevante, come può accadere per alti burocrati o manager privati, c’è un rischio: che senza tetto quarantennale ai versamenti, una sorta di clausola di salvaguardia, chi lavora fino 70 anni e versa sulla base di uno stipendio molto alto (si parla di circa 200 mila euro lordi), continuerà ad arricchire il conto della propria pensione e dunque costituirà un assegno sempre più ricco, più alto del 20 per cento dell’ultimo stipendio. Un fenomeno che investe circa 160 mila soggetti che avranno una pensione d’oro, più pesante dell’ultimo stipendio in molti casi già alto. A meno che non si introduca nuovamente la “clausola di salvaguardia”, mettendo mano alla riforma Fornero.